Quando l’Arte si sposa con la Scrittura

Ciliberto è nato ne ’47 a Ribera, in Sicilia. Nel ’68 completa gli studi presso l’Istituto Statale d’Arte di Sciacca.Nel ’72 a Firenze frequenta il corso per incisori su metallo All’INIASA e la scuola libera del nudo presso l’Accademia di Belle Arti. Dal ’61 all’84 si interessa di pittura, svolgendo studi sulla percezione visiva e sulla dinamica dello spazio pittorico in relazione al fruitore. Nel 1981 inizia a fare delle considerazioni sul libro, sul rapporto esistente tra la scrittura, la pagina e la materia, nonché la dinamica dello stesso in quanto oggetto fisico. Si interessa di “poesia visuale” e produce in proprio libri-oggetto. Presenta il primo, “Testoni”, alla Facoltà di Architettura di Palermo, dove tiene una conferenza sul Libro d’Artista nel 1985.
Nell’86 si trasferisce a Torino, dove insegna Arte Applicata. Tiene corsi di arte visiva e laboratori di scrittura sulle tendenze artistiche della poesia contemporanea per conto dei Comuni di Nichelino e Grugliasco.

L’arte libraria, che tradizionalmente si esprime in preziosi volumi ricchi di belle illustrazioni e tavole stampate su carta pregiata, racchiusi in legature preziose, può esplicarsi sorprendentemente nel “libro-oggetto”, manufatto non destinato all’uso corrente di veicolo di segni custoditi e da decodificare, ma prodotto estetico, compiuto in sé e perfettamente autonomo. In questo campo l’Italia è maestra: da Arturo Martini in poi, attraverso i Futuristi, De Chirico e Severini negli anni trenta, Burri, Fontana, Manzù, Vedova, Manzoni, Isgrò, Munari negli anni cinquanta e sessanta, si arriva agli artisti contemporanei che, con approfondita sperimentazione, giungono al libro d’arte, col desiderio di utilizzare per far arte un mezzo insolito che pur uscendo dai canoni, permette tuttavia un discorso artistico, un’attività creativa, un allargamento dei linguaggi usuali ed usati.
Sebastiano Ciliberto è uno dei massimi esponenti di questa tendenza artistica che fa del libro un’opera d’arte autonoma, più che quadro, più che scultura, il contenitore medesimo diventa contenuto attraverso l’alterazione o la dissoluzione del contenuto concettuale […]Loredana Sanlorenzo – Biblioteca Civica di Grugliasco
Aldo Garbarini – Assessorato alla Cultura della Città di Grugliasco

II corpo della scrittura, per il puro gioco formale o per volontà alchemica è dalle epoche più remote in strettissimo rapporto simbiotico con la storia del libro.
In questa dimensione, che da secoli aleggia nel libro in quanto oggetto fisico, la Poesia può assumere nuove dimensioni; dimensioni dove lo spazio circostante si materializza, viene occupato da accadimenti dinamici, linee forza che, pur ancorate nella bi-dimensionalità della pagina, insorgono ad invaderlo. Così il libro s’aggroviglia, s’accartoccia, si sfascia. Ma l’aspetto caotico è solo apparente: la ribellione, non più disordine, diviene l’ordine proprio.
L’atto creativo si attua attraverso l’intervento iconico. La funzione della scrittura viene sospesa, la logica del testo obliterata e stravolta. Un atto creativo extralinguistico dunque, dove il concetto metagrammatico si afferma con segni e forme non codificati che vengono a formare un magma che si posa, attraversa e penetra la pagina. La materia viene ridotta a grumo inestricabile di intenzioni indotte, condotte, sedotte e prodotte da un Io creatore e stocastico.
Allo spettatore non rimane che scrutare l’oggetto emerso dal libro come novella fenice, il bibliogramma appunto, purissimo oggetto di sinossi poetica sin nelle sue più intime fibre.
Sebastiano Ciliberto

Ma guardate che cosa combina Sebastiano Ciliberto! E dico “combina” proprio nel senso di mettere insieme due cose. I suoi libri sono, appunto, cose. Cose che dalla loro appartenenza originaria e dal loro luogo (la biblioteca) tanto si distanziano che per forza reclamano una mutazione nomenclatoria: sono… opere, quadri, sculture aut similia; e la libreria cede il posto alla parete bianca, dove s’appendono solitamente. Dunque, cambia anche il rito fruitivo: il lettore non cerca un libro, nascosto tra gli altri, ma lo trova. Eccolo lì, sulla parete, con il vestito della festa, chiuso in una teca come una reliquia, non più sfogliabile, ma aperto su una pagina. Qualcuno l’ha scelta per voi: non vi resta che obbedire. E che libro, poi! Quantum mutatus ab illo!
Ciliberto è un chirurgo: taglia, cuce, lascia profonde cicatrici nel corpo martoriato e i filamenti delle suture. Così “operato” il libro è ancora riconoscibile; la plastica facciale non ha sconvolto del tutto i suoi tratti fisiognomici. Si sa che le parti che hanno subito un lifting sono più delicate: il trauma produce sempre un “locus minoris resistentiae”, come ci insegnava Ippocrate. Questo “bibliogramma”, quindi, non si tocca; lo si guarda, lo si ammira. Le righe intagliate si sollevano e si intrecciano creando un groviglio; le scritture insorgono dalla quieta e piatta postura sul letto della pagina; i filamenti estranei sono ornamenti e censure; pigmenti intrusi da altro decoro rompono il pallido monocromo libresco… Così, l’opera perde la sua trasparenza, diventa “opaca”, autoriflessiva, pone ed esige attenzione sulla propria forma piuttosto che sul proprio significato. Questa funzione che Jakobson chiamava “poetica” inverte la gerarchia: al prevalere del testo lineare oppone un riscatto della struttura morfologica del libro-oggetto, che non obbedisce più alle regole consuete di subordinazione alla parola.
Sebastiano Ciliberto recupera al libro una sua arcaica matericità, ma, come tanti altri artisti del nostro secolo, lo volge anche contro se stesso, lo conduce sul limite della sua negazione, a tradire la sua pura funzione, per farsi cosa, oggetto trattato allo stesso modo di altri materiali plasmabili. Ma una “cosa” che reca ancora visibili cospicue tracce di segni, di parole. Ciliberto aggetta la scrittura, dispone e scompone le righe del testo a nastri correnti liberamente sulla pagina, scava con incisioni la superficie, la attraversa con fili, la copre talvolta con dei piccoli collages, la segna con dei colori. Il testo verbale, vivacchia in tutta questa devastazione, sopravvive con la sua prepotenza.
Se la scrittura alfabetica aveva perduto ciò che della cosa riferiva ancora l’ideogramma, per farsi suono, convenzione, Ciliberto non è su quella che porta l’immagine; rende, per così dire, “ideografico” il libro, che ora parla anche di sé. Ciliberto lo de-realizza, ri-oggettivandolo in maniera inconsueta. Si sa che l’artista opera sempre trasgressioni, continui mutamenti di codice portati anche al livello degli oggetti. Ed è qui che si attua la creatività. Quella sorta di amore-odio che ogni poeta nutre per il libro – luogo di grandi a anche infime avvventure del pensiero – fa compiere a Ciliberto e a noi questo prodigio che ha in sé le tracce ed i sintomi di una rigenerazione e di una sublime affezione, ma anche di una profanazione o di un esorcismo.
Eugenio Miccini

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