Carlo Casalegno

Nasce a Torino nel 1916 e si forma nel liceo D’Azeglio, d’aura gobettiana, alla scuola di Augusto Monti; suo libro di formazione: che ne orienterà con il pensiero la vita, il testo di Piero Gobetti ‘Risorgimento senza eroi’. Nella Torino degli anni del fascismo trionfante si lega ai grandi intellettuali antifascisti laici Filippo Burzio, poi il primo direttore del quotidiano ‘La Stampa’ del post fascismo, e Luigi Salvatorelli, del quale sposerà la figlia.
Laureato in legge, insegna nelle scuole medie. È tra i fondatori del Partito d’Azione con Leone Ginzburg. E nelle file del Partito d’Azione partecipa alla Resistenza con il ruolo di ispettore generale per il Piemonte di Giustizia e Libertà, legandosi di profonda amicizia con il grande storico Franco Venturi e con l’insigne giurista Alessandro Galante Garrone.
Nel dopo Liberazione è redattore del settimanale ‘Gioventù d’Azione’ e collaboratore dell’edizione torinese del quotidiano del Partito d’Azione ‘GL’ diretto da Franco Venturi.
Alla dissoluzione del Partito d’Azione abbandona la politica attiva per la redazione del quotidiano ‘La Stampa’ dove svolge un ruolo decisivo, negli anni dello scontro frontale tra le sinistre socialcomunista e la DC e suoi satelliti laici, una delle poche figure intellettuali capaci di mantenere spazi di dialogo culturale tra le due fazioni, convinto nel profondo che una cultura laica liberale debba dare voce a tutti e ragionare di tutto. In questa visione si inquadra la sua rubrica di politica interna dal significativo titolo ‘Il nostro stato’, ‘nostro’ perché in ogni caso nato dalla Resistenza, fondato, almeno in parte, attraverso la Costituzione, sugli ideali di Giustizia e Libertà. Nel quotidiano svolge un ruolo crescente fino a diventare condirettore, voce di costante critica, ma attivamente fattiva della nostra vita politica di quegli anni, segnati dal passaggio di campo del PSI di Nenni e dalla nascita del centro-sinistra.
Un crescente ruolo guida nell’area della democrazia intransigente assume nel decennio ‘970: gli anni di piombo dell’estremismo terrorista, reagendo soprattutto contro la tendenza della sinistra e di molti intellettuali a legittimare, quando non a simpatizzare, con l’estremismo rosso. Suo è lo slogan di nuova o seconda Resistenza, ravvisando nell’estremismo rosso solo un’altra forma di fascismo. In questa visione scrive, l’11 novembre 1977 un impetuoso articolo nel quale, contro la richiesta di leggi speciali chiede che lo stato batta il terrorismo usando la legislazione ordinaria, perché: “Le leggi già in vigore offrono tutti i mezzi necessari per combattere l’eversione, purché siano usati in modo imparziale contro tutti i violenti e i loro complici e per tutti i reati.” Nella primavera di quell’anno gli era stata data una scorta, alla quale aveva poi volontariamente rinunciato nell’estate perché, aveva ironicamente osservato, nei mesi estivi il terrorismo all’omicidio anteponeva i bagni di mare. L’allora direttore de ‘La Stampa’ Arrigo Levi, a ottobre gli aveva proposto di ridargli la scorta, ma Carlo Casalegno aveva rifiutato, diventando così un facile bersaglio per i terroristi, che il 16 novembre gli sparano quattro colpi alla testa nell’androne di casa. Morrà il 27 novembre in un paese sostanzialmente atono davanti alla morte di una delle sue grandi coscienze laiche del secolo, ergo libere: e forse proprio questo Carlo Casalegno il paese continua a non capire, o almeno non sentire necessari la sua esperienza e il suo martirio per definire la forma e le genealogie della propria vita spirituale.
Il suo pensiero si trova vivo e disperso nelle centinaia di note ed editoriali pubblicati su “La Stampa”, tra gli anni ‘novecentocinquanta e la morte, e non meno significative testimonianze sono i suoi libri, a partire da ‘Operai e Contadini’, edito nei Quaderni di Gioventù d’Azione, con lo pseudonimo di Andrea Caetani, Torino 1945, cui seguono, – ‘Il Giornale’ ed ERI, Torino 1957 1a ed – ‘La Regina Mergherita’ Einaudi, Torino 1958, 1° ed – Gli attentatori rivoltelle contro il potere, prefaz. di C. Casalegno, ed. De Agostini, Novara 1973 – Gipo come Torino: le canzoni ballate e altre cose di Gipo Farassino, a cura di C. Casalegno, ed Grafiche Alfa, Torino 1976 – ‘Il nostro stato’, Bompiani, Milano 1978 – ‘Risorgimento familiare ‘, (a cura di G. Spadolini) ed. La nuova Antologia, Firenze 1978 – Israele Giustizia e Libertà, ed. Crucci, Firenze 1980.

L’uomo Carlo Casalegno nei ricordi dell’amico Claudio Gorlier

Proprio la recente rivolta di un consistente nucleo di gioventù autoinquadrantesi nelle curve degli stadi calcistici – stando ai dati del ministero degli Interni tra settanta & ottantamila gli ultrà – rende di particolare attualità la figura e l’opera di Carlo Casalegno, del quale cade il trentennale della morte, assassinato da un estremismo giovanile: il brigatismo rosso, frutto invece della combinazione di cattivi maestri, ma anche di un identico degrado della vita civile nazionale. Carlo Casalegno aveva maturato una ben precisa esperienza culturale, rifiutata e avversata, in un disegno di vera damnatio memoriae, tanto dai cattolici che dai marxisti: l’esperienza complessa e di ampio spettro del Partito d’Azione, espressione estrema del Risorgimento radicale: sua cosciente continuazione, attraverso l’opera delle due grandi figure archetipiche dell’azionismo: Piero Gobetti e Carlo Rosselli.

Un ennesimo, e recente esempio, di quanta avversione continui a suscitare l’esperienza azionista, ci viene dalla pur scintillante intelligenza di Giuliano Ferrara: non meno grande della sua imponente mole. Ferrara, transitato dal rivoluzionarismo bolscevizzante al pensiero conservatore reazionario, ha continuato a mantenere immutata la stessa tenace antipatia d’origine comunista per il pensiero azionista, definendolo ironicamente, ancora di recente: una setta torinese circoscritta da un ben preciso quadrilatero: tra corso re Umberto, corso Vinzaglio, via Cernaja e corso Vittorio. Sapeva benissimo di mentire, perché l’Azionismo fu un fenomeno intellettuale rilevante, che coinvolse, raccolse l’adesione creatrice di intelligenze libere d’ogni parte d’Italia, a partire dal meridionale e meridionalista Guido Dorso, via passando per scrittori straordinari quali il massimo poeta italiano del xx secolo, e uno dei più grandi della nostra tradizione lirica, Eugenio Montale. E azionisti, per citare alla rinfusa, furono Ragghianti, Tino, La Malfa, Lussu, Ginzburg, Fenoglio, Ciampi, Galimberti, e tanti altri giovani, tra i quali appunto Carlo Casalegno: tutti nell’antifascismo azionista trovarono il percorso formativo che li rese spiriti liberi, avversi a ogni forma di totalitarismo, ovvero portatori di un patrimonio di valori sì conflittuali e antagonisti, ma costruttivi, articolati in un messaggio di universale fratellanza, come espresso dallo stesso nome delle loro formazioni combattenti contro il nazifascismo: Giustizia e Libertà.

A cercare da una voce viva il percorso verso quei valori universali, ma espressi in lingua nostra ed entro la tradizione risorgimentale italiana, – che Carlo Casalegno incarnò prima affrontando il rischio della morte lottando contro il nazifascismo e poi contro il fascismo rosso – ho percorso uno dei bordi del ferrariano quadrilatero azionista: corso Vinzaglio in traccia di una delle sopravviventi grandi memorie storiche di quell’esperienza e che quindi conobbe ed ebbe commerci spirituali con Carlo Casalegno, l’umanista poligrafo e filologo, già docente alla Bocconi, Claudio Gorlier.

È un primo pomeriggio luminoso d’autunno inoltrato, splendido lungo l’alberata del corso, dove le foglie dei platani e degli ippocastani indorano in un paesaggio che fu anche negli occhi di Gobetti, di Pavese, di Ginzburg, e prima di Luigi Einaudi, Gaetano Mosca, Guglielmo Ferrero, gli antenati dell’universo azionista. È un paesaggio che rivela dalle aperture laterali delle vie squarci di colline, che nell’aria limpida incombono e chiudono, mentre sul lato opposto del corso la giornata ventosa rivela il rosso incendiarsi di un meriggio alpino Un paesaggio di quelli che paradossalmente non l’azionista e pittore nel secolo Felice Casorati, ma l’irregolarissimo e turbolento Luigi Spazzapan ha magistralmente fissato in alcune sue chine rapide e vibranti. Come in quelle, nell’ora la città vive, realizza in una dimensione mitica della sua bellezza storica: una bellezza sottratta al tempo, eppure anche scenario di tante diverse vicende personali tenute assieme dai più diversi e mutevoli scenari culturali, uno dei quali appunto fu l’Azionismo.

Vorrei chiedere, arrivato a quel quinto e ultimo piano del palazzo di corso Vinzaglio dov’è l’abitazione del professor Gorlier, a iniziare il discorso, come lui c’è entrato nell’esperienza azionista, ma dalla precedente conversazione telefonica già fissato il tema, entra immediatamente in argomento, da un dettaglio recente:

“Pensi che ieri, domenica, mentre mi recavo a Fossano per un premio letterario, con l’amico Luraghi abbiamo nella conversazione ricordato e rievocato proprio Carlo Casalegno.”

E sotto l’imperio di quella conversazione dove s’era definita tra i due amici una ben precisa e condivisa figura del ‘Nostro’ Claudio Gorlier statuisce:

“Il suo ruolo davvero importante fu nel saper dire, anche per vie non proprio dirette quando andava contro e oltre i disegni di quell’uomo per nulla accomodante che, come direttore, era il mitico De Bendetti: dire quello che andava detto. Bene, se il Professore – al giornale lo chiamavano così – riteneva che un problema andasse comunque affrontato, lui lo affrontava sorretto da una determinazione, un rigorismo intransigente che lo spingeva nelle battaglie che lui riteneva andassero combattute. Era un rigorista morale: un moralista, come in Italia possono essere solo gli spiriti laici, quelli che non accettano e non bazzicano il moralismo cattolico con i suoi distinguo e le sue permissioni. Guardi, a capire e sintetizzare l’uomo Casalegno basterebbe leggere un suo memorabile editoriale comparso sul quotidiano GL contro il maresciallo Petain, già emblematico nel titolo: Canizie Vituperosa. Noi azionisti eravamo per una rottura netta, radicale con il passato fascista. Le chiarisco il punto con un esempio: si era decisi a cacciare Valletta dalla FIAT, a dare una grande lezione, stabilire un modello, e invece i comunisti fecero un accordo con la proprietà: Valletta restava, in cambio accettava a capo del personale un comunista: Battista Santhia, un’ottima persona, cui diedero un sontuoso ufficio proprio accanto a quello di Valletta, salvo, pochi mesi dopo, licenziarlo. Il PCI lanciò un appello allo sciopero e fu il primo sciopero fallito. Gli operai ragionarono che non era il caso di perdere salario per salvare la poltrona a un direttore. Noi Azionisti il fatto lo avevamo sottolineato parecchio, e il PCI reagì pesante, deciso a sottrarre tutto lo spazio politico possibile all’Azionismo. Forse l’antefatto remoto della morte del ‘Professore’, la ragione del perché proprio lui e a quel modo, è in quel duro scontro, poi tenacemente rimosso, tra chi voleva una radicale rifondazione dello stato su basi laiche, come noi e i socialisti, e chi invece, fossero cattolici o comunisti, magari per ragioni opposte, ma egualmente perfide, ragionavamo che un buon quorum di leggi fasciste servisse comunque a manovrare la macchina paese, e soprattutto quel personale che le aveva maneggiate.”

Ora il professor Gorlier ristà, gettato l’uomo Casalegno dalla memoria alle parole, e il tempo drammatico del loro incontro tratteggiato intorno all’episodio Valletta-Santhia, dove sta l’incolmabile divergenza tra comunisti e azionisti, mi indica una poltrona, mentre lui va a prendere un sigaro, dopo avermi chiesto se il fumo mi disturba. Ma non devo preoccuparmi dei suoi sigari: lui ha un impianto di aspirazione per evitare agli amici e agli ospiti i danni del fumo passivo, anche se sono tutt’altro che dimostrati. Siede anche lui, opulento nella sua bella forza fisica con la quale ha varcato la soglie degli ottant’anni, lui a differenza del gozzaniano rovere, ben vigorosamente dritto nei venti turbinosi della vita, per ricordare uno dei quali sono venuto da lui, nelle genealogie culturali sommo esperto di letterature inglese e americana, ma anche modello, si vuole, di alcuni personaggi romanzeschi, e grande viaggiatore, scoprirò poi attraverso gli oggetti che adornano le sue stanze, tutti simboli a ricordargli altre terre e altri popoli. I suoi vivi occhi scintillanti mi osservano nella pausa che mi concede ad impadronirmi, collocare il Carlo Casalegno che ha perentoriamente scolpito, mentre una voluta di fumo aromatico fluisce pigramente verso la silenziosa macchina di aspirazione:

“Lei mi chiede se ci siamo conosciuti durante la Resistenza? No. Io ero stato nei GAP e poi dislocato con funzioni varie, entro le bande combattenti gielliste nella zona di Settimo, dove da un posto di blocco accolsi le prime avanguardie dell’esercito Alleato in marcia verso Torino. Conobbi invece il Professore nella redazione del settimanale giovanile del Partito d’Azione. E qui le racconto un dettaglio gustoso. Per via del titolo della testata: Azione Giovani, con assonanza di Azione Cattolica, il giornale conobbe una diffusione ben oltre la nostra area politica. Ma intanto, Casalegno redattore, collaboravo anche alle pagine della cultura del quotidiano di Partito GL, fin quando mancarono i fondi per la caduta delle vendite, tornati sul mercato i tradizionali quotidiani torinesi: ‘La gazzetta del Popolo’ e ‘La Stampa’, per cui mi trovai un posto di redattore all’Unità, mentre proseguivo gli studi.”

E qui il racconto divaga per personaggi singolari e affascinanti come un Italo Calvino, allora bistrattato da un direttore buzzurro e difeso da quel Luigi Cavallo che anni dopo sarebbe diventato la bestia innominabile settanta volte sette maledetta dal PCI. Era allora un Cavallo brillante giornalista e soprattutto un fine esperto di filosofia e filologia germanica. Riprendendo il filo del discorso, il professor Gorlier racconta:

“Con Carlo Casalegno ci saremmo ritrovati anni dopo, io ormai laureato e avviato, con una borsa di studio, alla carriera universitaria, invitato, attraverso Galante Garrone, a collaborare a La Stampa, lui ormai una delle voci autorevoli della testata. E la mia collaborazione a ‘La Stampa’ continuò fin quando, passato dall’Università di Venezia alla Bocconi, il Corriere della Sera mi chiese di scrivere sulle sue colonne. Era allettante, ma mi sentivo anche legato da un rapporto di lealtà verso il quotidiano torinese. Ne parlai con Carlo Casalegno, che mi disse: – Caro Gorlier, Lei non ha sposato ‘La Stampa’, si ritenga libero, segua la via che preferisce, qui, nel nostro giornale, la stima per lei resta immutata. – E Le racconto questo episodio non per il fatto in sé, ma per quanto rivela di apertura verso gli altri del Professore, mai dogmatico, vero spirito liberale, che appunto per questa disponibilità e apertura non poteva non irritare soprattutto quanti aspiravano a chiudersi nei loro universi chiusi, settari. Non era lui nemico dei vari settarismi e clericalismi: quelli lo detestavano, detestavano perché temevano il suo modo aperto, non settario di fare cultura. Che la morte gli sia venuta da questo, dice a un tempo quanto tragico il suo destino e quanto degradata la nostra cultura, soprattutto politica. I suoi assassini dal loro punto di vista mirarono giusto, Lui il vero loro avversario irriducibile, in quanto non accettava di dichiararsi entro una simmetrica chiusura settaria, ma li giudicava secondo un metro di assoluta libertà della ragione. Pensi all’acuta profonda riflessione di Spinoza sulla natura umana: – Spesso gli uomini, nel tentativo di farsi angeli, si fanno bestie. – Questo lui vedeva e sapeva del terrorismo nostrano di quegli anni. Ed è intorno a questo concetto che si compendia la grande lezione azionista, fatta viva e vera, vissuta da tante belle intelligenze, che fecero gruppo, si arricchirono reciprocamente nel chiuso evo dello scontro tra comunisti e anticomunisti, vivendolo da una assoluta autonomia di giudizio sui fatti.”

E il racconto del Professor Gorlier divaga intorno ad alcune delle eccezionali figure di quella Torino irriducibilmente laica: Albino Galvano, Bruno Fonzi, Carlo Mollino, i suoi amici e compagni di studi, mentre la luce che viene dalle finestre declina, e il cagnino che mi ha accompagnato nella visita all’illustre anglista e brillante poligrafo dà qualche segno di impazienza, lui dentro un suo viaggio, dove il mondo e la voce che l’hanno raccontati sono soltanto interferenze, disturbi. Anche il Professore guarda l’orologio: è tempo di andare, anche se avrei molte altre domande su quel mondo, quella ‘Torino a cielo alto’, per dirla con l’espressione che per lei coniò quell’altro singolare azionista che fu Noventa, singolare perché il cattolico della congrega, una Torino la cui memoria si va perdendo, svanendo come le lontane montagne, dove una nuova bufera si va addensando nell’annottare opaco.

E scendendo le scale, incalzato dalla massima spinoziana, intanto rifletto: ero avviato verso un percorso da estremista mosso da una rabbiosa volontà di angelificazione del mondo, imprigionato nella gabbia ideologica del leninismo, quando incontrai Albino Galvano. Parlammo ben poco di politica, ma molto di filosofia, e di arte e quella gabbia si ruppe, avviandomi alla scoperta degli spazi azionisti di libertà. C’è in ogni generazione chi ha la fortuna di incontrare l’uomo o/e il libro giusto: come fu per Carlo Casalegno il gobettiano Risorgimento senza eroi’, che lo guida nella sua scelta decisiva, ma quanti di quei teppisti della curva hanno potuto farlo? Quanti avranno la possibilità di scoprire l’uomo eroico Carlo Casalegno, se neanche lo compresero quei giovani di belle frequentazioni culturali che lo assassinarono, trascinati da un demente furore angelico?

È per questo che sarebbe importante che una grande memoria come quella del professor Claudio Gorlier raccontasse la sua storia: e in modo analitico, della singolare setta del quadrilatero di Ferrara, lui che l’ha vissuta in prima persona, e dove Carlo Casalegno ebbe tanto ruolo. Credo che come professore lo dovrebbe a tutti quelli che non potranno mai salire, come me, la scala del suo appartamento all’ultimo piano di uno stabile di corso Vinzaglio, allontanandomi dal quale ascolto l’ammaina bandiera dalla vicina caserma Cernaja, mentre il mio cagnino divaga per altri umori ed odori della sua memoria.

Piero Flecchia

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