Il ricordo di Sandro Montalto

Sabato 12 luglio 2008 ci ha lasciati Claudio Mancini.

Perdo, con un dolore immenso, uno dei miei amici più cari. L’ho conosciuto nel 2000, a Castrocaro Terme, dove ero andato a ritirare il riconoscimento che mi era stato assegnato al premio “Aldo Spallicci” (fondato da Claudio e da Rocco Messina nel 1988). Praticamente sconosciuto, e particolarmente schivo in quegli anni, sono stato travolto dall’entusiasmo che Claudio trasmetteva al resto della giuria, a me e a tutti i premiati. Allora ero convinto che i premi si vincessero praticamente solo dietro raccomandazione, e francamente ero pessimista circa la possibilità di creare autentici rapporti di comunione e reciproco arricchimento nel mondo (iniziavo a capirlo bene) feroce degli scrittori. Invece mi trovai a ricevere complimenti, giudizi circostanziati e calorosi, un commento particolarmente lusinghiero del presidente della giuria Mario Pazzaglia, un saluto complice di Marino Biondi (che poi sfociò in una piacevole collaborazione), e poi a intavolare una discussione davvero appassionata durante il banchetto seguente. Da subito mi sono sentito tra persone che (in buona parte) amavano la letteratura senza egocentrismi.

L’anno dopo sono tornato a Castrocaro, sempre in occasione del premio. Nel frattempo qualche lettera e telefonata aveva stretto i rapporti tra me e Claudio, avevo letto tutte le sue opere e lo avevo imparato ad amare anche come poeta di una leggerezza palazzeschiana (vale a dire onesta, profonda, tesa verso le poche cose davvero importanti). La mia visita di due giorni fu estremamente istruttiva ma anche estremamente spassosa (voglio ricordare una cena nella quale insieme a noi c’era Ugo Stollagli, durante la quale faticai a mangiare per il troppo ridere) e mi confermò le altissime qualità di questa persona.

Medico plurispecializzato, rispettato e amatissimo, di una umanità ed una competenza di altri tempi, autentico punto di riferimento per amici, colleghi, familiari e per noi che condividevamo certe sue passioni (tra le quali stava anche l’astronomia), ha fatto molto per molti e ha ricevuto, probabilmente, troppo poco. Io lo stuzzicavo spesso circa questo aspetto (durante le nostre immense telefonate tra poesia, scienza, alti concetti e ironia, che duravano anche ore e spaziavano per tutto l’universo) ma mi diceva di sapere da molti anni che questo era il bilancio che doveva aspettarsi, e non ne era affatto dispiaciuto: sue massime gioie e appagamento erano la sua bella famiglia, l’idea di essere stato un professionista serio, l’amicizia dei più fidati amici e la consapevolezza, come diceva, di avere fatto qualcosa di buono per qualcuno.

Già, l’astronomia… Claudio mi parlava sempre di stelle, raramente di pianeti: preferiva ciò che illumina. La prima volta che siamo visti ha chiesto a me e alla mia fidanzata Silvia, che mi accompagnava, di che segno siamo, e ci ha raccontato cose splendide circa le relative costellazioni. Ora che non posso più sentire la voce affettuosa di Claudio, mi viene in mente una poesia di Alessandro Parronchi, che fu premiato assieme a me a Castrocaro:

“La poesia, il cielo: sono queste le realtà vere dell’uomo. / Non importa se non capiamo. / Se per capirlo dovremo attraversare / il sonno della morte. // Per accettare questa realtà / della morte che verrà per una vita / che incominci / basta questa luna che si sfalda / nel chiarore dell’alba / nel sorriso di un Apollo giovinetto”.

E davvero per noi Claudio era un Apollo: seguace dell’antico dio della medicina e della profezia, nonché patrono della poesia, era per noi il perennemente giovinetto, innamorato del potere dell’immaginazione.

Non dimenticherò nemmeno con quale gusto nella voce pronunciava qualche autentica verità, poi prendeva il posto del suo alter-ego disfattista (come avviene nel suo romanzo “Lettere a Francis”) e diceva a se stesso: “patacca!!”. Era convinto che una crepa nel buio, dalla quale può filtrare la luce, c’è sempre; era convinto che una logica alternativa si potesse sempre recuperare, per guardare le cose di sbieco e ricavare una risata capace di chiarire tutto. Di quante verità, e di quante risate gli sarò per sempre debitore.

Al di là delle nostre frequenti e lunghissime telefonate, una crudele distanza geografica e i rispettivi impegni mi hanno impedito di frequentarlo come avrei voluto e, forse, dovuto. Sarà per sempre un rimorso. Il giorno del suo funerale mi ha commosso sapere che chi è passato nel suo studio ha visto, tra gli altri numeri in evidenza sulla sua scrivania, il mio. Anche il segretario del premio “Spallicci”, Gianfranco Fabbri, lo ha visto e ha pensato di telefonarmi quando stavano per portare via il corpo del nostro amico, così per un attimo sono stato, idealmente, presente vicino a quell’uomo eccezionale per il nostro ultimo saluto.

Quando ci si trova di fronte ai grandi eventi dell’esistenza ci si accorge come le verità possano apparire banali. Eppure è vero: sento molto bene come oggi siamo tutti più poveri.
Durante l’ultimo periodo della sua malattia, prima che comunicare diventasse troppo difficile, ci sentivamo anche più spesso del solito. Stavamo preparando la sua nuova raccolta di poesie e voleva discuterne con me ogni particolare: una citazione, un corsivo, meglio la virgola così, forse il titolo al plurale, no al singolare… ma perché non esiste una via di mezzo?! E così via. Il libro doveva essere l’agrodolce riassunto della sua esperienza, di una leggerezza cogente e fondante, e il titolo previsto era “I teatri della follia”. Non ha visto la luce prima che l’ombra del tempo crudelmente ci separasse. Vorrei salutarlo riportando tre di questi testi inediti:

“Stato d’animo”

Un timido pensiero vagabondo
uscito dal bisbiglio d’un segreto,
un pizzico che danza tra una nuvola
e una favola per sorridere.

Così mi sveglio e vivo
quando lo spazio s’apre all’orizzonte
dove una goccia si trasforma in mare
e il mare in mille onde che travolgono.

Me ne sto qui a fatica e scrivo versi.

“Spiraglio”

Una freccia nel centro
distillando dal buio un po’ di luce
non certo una perifrasi
per aggirare il tempo con le parole
ma una logica nuova
uno spiraglio aperto nel profondo
per raggiungere il punto inaccessibile
(che sia questo il motivo del principio?).

Molecola pesante, ecco chi sono!
Se l’immagine tiene allora esisto.
“Bidonville”

Intorno alla metropoli sovrana
il confine si sfuma indefinibile
sino all’inferno-lager
dove il degrado è norma
dove si annida la disperazione
e l’anima si uccide rassegnata.

“Cosa farai quest’oggi?”
“Non lo so, vorrei morire…”
“Anch’io, ma non è facile:
a volte mi vien voglia di sorridere”.

S. M.

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