Questa volta, un illuminante esame grafologico
di Chicca Morone

MARIO PANNUNZIO – DA LONGANESI AL MONDO
CIRCOLO DELLA STAMPA 11 gennaio 2011

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Eviterò di addentrarmi nelle ragioni politiche culturali che hanno connotato un personaggio dello spessore di Mario Pannunzio con una sorta di timore reverenziale nei confronti di un uomo dal carisma così imponente e darò il mio contributo parlando semplicemente della sua scrittura.
Interpreterò le testimonianze raccolte nel volume “Mario Pannunzio – Da Longanesi al “Mondo” attraverso il gesto grafico di questo gigante del secolo scorso di cui abbiamo festeggiato a marzo il centenario della nascita.

Premetto che la scrittura non mente, per quanto anche una persona che conosce la grafologia possa inutilmente tentare di artefarla per mascherare i tratti del proprio carattere meno gradevoli: è il prodotto più genuino che il nostro inconscio ci consegna perché è strettamente legato al nostro sistema neurofisiologico.

Ciò che mi ha più colpito in questa scrittura è l’estrema legatura tra una lettera e l’altra in una stessa parola: il bisogno cioè di portare a termine ogni progetto iniziato, la determinazione nel non lasciare in sospeso il lavoro intrapreso.

Eppure leggo della laurea in giurisprudenza, l’abbandono della carriera forense, l’interesse per la cinematografia, per la critica letteraria, la fondazione del PLI e del Partito Radicale, le sue diverse uscite… Dove è la sua determinazione nel portare a termine i progetti intrapresi?

Mario Pannunzio ha un progetto fondamentale: l’espressione completa della propria interiorità attraverso un credo ben definito (quello che a mio avviso dovrebbe essere il nostro stesso) cioè la libertà individuale, il suo perseguirla condividendola con gli altri e mediando – senza genuflettersi – con i condizionamenti che obbligatoriamente ognuno di noi incontra.

Come riesce?

Lasciando un buon margine nella parte sinistra del foglio, cioè riconoscendo l’autorità costituita – purché questa sia in grado di dimostrarsi tale (leggi Croce) – permettendo all’interlocutore di avvicinarsi senza preconcetti (lettere addossate), ma con una conseguente visione panoramica della situazione (larga fra parole) elaborata attraverso l’approfondimento dei particolari.

Il bisogno di esprimere la sua libertà “preme” talvolta sugli spazi altrui (il margine destro è spesso assente) interferendo nelle dinamiche interpersonali.
Per certi versi tollerante (oscillante), è dotato di quel senso di accoglienza nei confronti delle altrui idee (linee verticali curve) cosa che ha permesso il pluralismo delle voci in un giornale nato nel primo dopoguerra, quando comunisti e anticomunisti, fascisti e antifascisti cercavano di riappropriarsi di una propria identità/centratura.

Ecco, la “centratura” è forse la migliore caratteristica della scrittura di Pannunzio: non egocentrico, non pervaso da egotismo (anche se qualche nuvola di permalosità lo sfiora), ma profondamente radicato nella sua interiorità, tanto da permettersi di osservare (permettetemi il gioco di parole) il mondo dal dentro e dal fuori.

Possiamo quindi osservare quanto il giudizio di Mario Soldati “intransigente e orgoglioso” (pag. 139) possa essere considerato sotto un’altra ottica: “determinato e ipersensibile” (linee che vanno dall’alto verso il basso e viceversa) caratteristiche che unite all’ironia e al senso pratico (allunghi inferiori di buon calibro) ne hanno fatto un personaggio unico, scomodo e del tutto alieno all’intruppamento.

Mario Pannunzio – infatti – non “apparteneva” altro che a se stesso.

Leggo a pag. 95 del volume curato dal professor Quaglieni il giudizio di Arrigo Benedetti “un laico direttore di coscienze, con la virtù di valersi della categoria estetica per giungere anche a una valutazione etica e infine anche a un pacato giudizio storico”.
In effetti la sua scrittura è elegante, priva di quegli irrigidimenti che i vari Torquemada (più o meno nascosti) denunciano attraverso la pressione della penna sul foglio, i tagli t molto alti e premuti, il rovesciamento dell’inclinazione verso sinistra.
Ma non c’è solo l’eleganza: c’è l’indipendenza segnalata dalla p che inizia la verticalizzazione dalla zona dell’intelletto (difesa ad oltranza dei valore della libertà contro tutti i pericoli e le distorsioni al di là delle matrici ideologiche, cioè nessun sistema gerarchico è previsto per le attività umane, ma soprattutto politica e religione non sono subordinate)
c’è l’anticonformismo della z con l’asola (nessuna idea è dogmaticamente indiscutibile, nessun valore è assoluto),
c’è il diverso calibro delle lettere – non sempre monotonamente uguale – tipico di chi, avendo una percezione di sé non sempre uguale, si sa mettere in discussione.

Ma soprattutto c’è la firma!
Non sottolineata o abbellita da segni particolari è stilata con le stesse lettere del testo – tranne che in un particolare – dichiarando la sua perfetta identificazione con se stesso (nel testo le scrivente può identificarsi con quanto scrive).

Così Mario Pannunzio descrive il suo bisogno di autonomia e affermazione personale con la lettera M in cui inizia con un gesto che va dal basso verso l’alto, amplifica la prima gamba, diminuisce il calibro del nome, come a indicare l’importanza della figura materna, ma il suo progressivo distacco.

Sul cognome, il legame con il padre, abbiamo la vera sorpresa: tranne la A tutte le altre lettere sono incomprensibili, come se Mario fosse la vera essenza e non appartenesse a quella famiglia, bensì a una famiglia ben più grande… il mondo.

La scrittura di Mario Pannunzio è personalizzata da piccoli segni, nonostante le lettere sembrino conformi al modello, come se il messaggio inconscio, venato di malinconia (tagli T declinanti), fosse: “Sono un uomo e comunico in modo comprensibile, ma io ho una comunicazione molto più profonda perché so di esistere” che nel mio linguaggio fuori moda significa “Con la mia umanità ho sempre tenuto viva la fiamma della mia anima”.

Chicca Morone

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