DI FARFALLE, GRILLI E DI CICALE
di Camillo Pennati

( JOKER Edizioni, Novi Ligure, 2017 )

 

Nato a Milano nel 1931, Camillo Pennati ha compiuto studi classici illuminati da Guido Bezzola e Luigi Panzeri. Salvatore Quasimodo lo include in Poesia italiana del dopoguerra (Schwarz, Milano 1958). Nel 1959 pubblica presso Guanda, dell’ingegnere Ugo Guandalini. A Londra, dove vivrà per vari lustri, Umberto Morra di Lavriana gli affida l’incarico di bibliotecario dell’Istituto Italiano di Cultura. Conosce Vittorio Sereni e pubblica da Mondadori L’ordine delle parole (1964). Nel 1973 Italo Calvino lo invita alla Giulio Einaudi di Torino dove per svariati lustri sarà redattore letterario per la narrativa e poesia angloamericane. Tre sue raccolte usciranno presso la casa editrice dello Struzzo: Erosagonie, Torino, Einaudi, 1973, Sotteso blu: 1974-1983, Torino, Einaudi, 1983, Una distanza inseparabile, Torino, Einaudi, 1998

Traduttore di saggistica, narrativa e poesia inglese e americana. Scritti sulla sua poesia in un quaderno interamente dedicato della rivista internazionale “Hebenon”, 9-10 (2001). Poi troviamo Modulato silenzio” (Joker, Novi Ligure 2007), poi “Paesaggi del silenzio con figura” da Interlinea nel 2012 ed ora questo volume, quasi postumo. Perché Camillo Pennati ci ha lasciati nel 2016 e, come scrivono Roberto Bertoldo e Sandro Montalto, il poeta non ha fatto a tempo a vedere la pubblicazione del libro, ma solo la prima bozza.

«L’opera di Pennati si può anche leggere come uno dei tentativi di sottrarsi alla crisi novecentesca del discorso poetico e alla destrutturazione dell’oggetto che di quella crisi era il dato più eminente e vistoso; è comunque un tentativo condotto con un impiego di strategia linguistica e di sapienza stilistica davvero inusitata, una competenza e un gusto lessicale che non lasciano margine a dubbi» (Giorgio Linguaglossa).

Così in occasione del libro edito da Interlinea. E la cosa è assolutamente visibile anche in quest’ultima testimonianza poetica di Pennati. L’impatto coi testi è significativo per il lettore, nulla è scontato ed occorre seguire il poeta nei suoi pellegrinaggi linguistici attorno ai diversi nuclei d’immagini, sensazioni, pensieri, contemplazioni. In una fioritura barocca e ricca di invenzioni, la lingua esplode e le parole escono allo scoperto come dal Vaso di Pandora. La lingua non ha freni in questo lirismo antipoetico, in cui germogliano suoni, versi, immagini. Domina quindi il gusto per le allitterazioni, la metafora continua, la ripetizione lessicale, la sinestesia.

Ma non è un campionario di formalità inutili. E’ l’espressione di una visione, quasi un mantra poetico in cui il soggetto poetante si tiene ai margini, in quanto “oggetto” del testo e lascia fluire lo stupore dinnanzi allo spettacolo del mondo, della natura in particolare. Il soggetto esprime i suoi sentimenti, la paura, la sorpresa, il dolore, la gioia, tutte emozioni “primarie” per così dire, ma poi prende piede una sorta di metafisica dell’esistenza trasfigurata naturalisticamente appunto nella contemplazione delle piccole cose della natura.

La natura è al centro, soggetto reale a tutto a tondo. Non però alla maniera di Gianpiero Neri che lasciava emergere la relazione esistenziale tra uomo e natura dalla descrizione anche scientifica. Qui, in Pennati, domina l’estetica, il piacere della ridondanza, della variazione sonora, la sensualità dello stile per nulla asciutto, ma gocciolante di vita piena. Uno stile inimitabile, per molti aspetti, molto contemporaneo. La natura è al centro, dicevamo, ma è filtrata dall’occhio poetico che vede quel che nessuno vede “da fuori” rientrando così nel fenomeno per coglierlo nel suo accadere, come se fossimo “dentro” al fiore, all’ape, alla cicala. Non c’è spirito scientifico, ma scientemente la natura si offre poeticamente e la conoscenza ne risulta accresciuta.

Sul piano stilistico, ancora, Pennati non disdegna il gioco delle rime, la cura delle cadenze ritmiche come in un canto avvolgente e avvolto nel mistero della poesia. C’è anche un quid di ludico in tutto questo e talvolta mi ricorda l’esercizio di Perec e del movimento dell’Oulipo per certi giochi linguistici (ad esempio il gioco delle definizioni delle parole una dentro l’altra che concrescono in un parossismo definitorio da gestire con maestria).

Le poesie sono un fiorire di invenzioni, anche lessicali: “biaccosi grigiori”, “la riflettenza colorata delle nubi”, le foglie che, orellianamente, “silvettano, “il velario di sospese pioggie”, “i maliosi impasti”. I versi fanno impazzire il lettore obbligandolo a raddoppiare l’attenzione: “e poi sfiammò la divampante ustione/la danza ritraendo delle flessuose fiamma di lingua/in lingua nel loro incandescente avvolgimento”; altre volte lo incantano come in questo incipit “Ondeggiano i bambù a un vento/come per sopravvento di bufera/e il cielo non è più quel blu com’era/ adesso invaso da convulsi nembi e l’aria/…” Il testo si muove a spirale avvolgendo le parole e i versi in un fiorire di ritmo e di rimandi.

Altre volte Pennati si ferma e ritaglia versi scolpiti: “E fu una ferita d’azzurro/ E fu una ferita di gioia”. Altre ancora è espressamente sensuale: “Inguine e lingua a combaciarsi/in quelle due assonanze di arpeggio e rapsodia sul loto/in fiore sul tuo pube”.

Belle le metafore, citiamo: “poi è la volta di una vela bianca di farfalla/a posarne la chiglia l’istante che ne dispiega la seconda/ velatura…”.
Lo sfondo della poesia di Pennati è il silenzio della contemplazione, della pausa feconda dalla vita nevrotica per restituire all’esistenza un senso nuovo, più essenziale. Una sorta di “zen occidentale” fatto di parole, di lingua prepotente e dolce al tempo stesso: “ma non è vuoto l’istante a ricolmarsi del silenzio che tutto/avvolge in espansione e si riaduna là rasoterra” oppure quando scrive: “…nel fervore del silenzio riarpeggiando in musicato tono/la sensoriale conoscenza dell’istante”.

Pennati ci offre questo suo ultimo libro e ci piace vederlo immerso nel suo mondo fatto di poesia e natura: “Eccolo ancora qui il nostro armonico giardino/nicchia ricolma di coloriture bosco concluso/nel suo piccolo volume di affogliate architetture e ombre/tra abbagliati chiazze che mutano di luogo scivolando al sole”.

S.V.

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