copert_burnes_vitaleJulian Burnes

IL RUMORE DEL TEMPO
Narrativa

Einaudi

 

 

 


foto_burnes_vitaleDi questo bravissimo scrittore inglese sono disponibili in italiano diversi romanzi, tutti molto belli. Tra i miei preferiti ricordo: Il senso di una fine, Livelli di vita, Il pappagallo di Flaubert ed ora questo Il rumore del tempo col quale un certo modo di concepire “la forma romanzo” arriva ad un vertice decisamente alto e significativo.

Spazzando via tutta la retorica delle fiction e superando il fatuo neo-neo realismo intimista, lasciandosi alle spalle il minimalismo narrativo di stampo giornalistico, Julian Barnes ci regala un romanzo robusto, scritto con tempi e ritmi teatrali, con cura e lessico impeccabili, con un respiro saggistico eppure così dentro il magma della sua materia. Un vero romanzo moderno dopo la morte del romanzo classico, del quale recupera il nocciolo ultimo, quello delle vicende di un eroe solo contro il mondo e del quale viene narrata la drammatica parabola di vita, come direbbe Alfonso Berardinelli.

Ma qui, la tessitura narrativa, il ritmo della parola, i riferimenti precisi alla biografia, il salto tra racconto distanziato e l’immersione del fatto della prima persona, ci danno il senso delle posizioni recentemente rappresentate da un altro importante italianista: Giorgio Ficara. Il libro di Barnes è scritto in inglese e quindi non fa parte del “romanzo italiano”, ma entra prepotentemente, secondo me, sulla scena nostrana. Non solo perché Susanna Basso ha fatto l’ennesima bellissima traduzione, ma anche perché potrebbe essere un modello da seguire i futuro.

Veniamo al libro: 191 pagine che si leggono senza sosta, con passione, come una tela di rango che avvolge il lettore. La quarta di copertina (che Calvino curava con meticolosità ai suoi tempi) dice: “Dmitrij Šostakovic ha già riscosso successi in mezzo mondo quando il compagno Stalin in persona emette la condanna: la sua non è musica, è solo caos. Da quel momento la vita del “nemico del popolo” Šostakovic è una foglia al vento, e la sua anima assediata dalla paura, il campo di battaglia fra codardia ed eroismo.”
Infatti il racconto prende le mosse dal fatto che il 29 gennaio 1936 la Pravda commentava la recente esecuzione al Bol´šoj della Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitrij Šostakovic titolando “Caos anziché musica” e accusando l’opera di accarezzare «il gusto morboso del pubblico borghese con una musica inquieta e nevrastenica». Nell’Età del terrore un editoriale del genere poteva interrompere la vita stessa. E per Šostakovic giunge il primo di vari di colloqui con il Potere. È una trappola senza vie d’uscita, quella che gli si tende – piegarsi alla delazione o soccombere – e Šostakovic si dispone all’ineluttabile.

Il rumore del tempo indaga così il difficile rapporto tra Arte e Potere. L’Arte, per sua natura, vorrebbe essere qualcosa di libero da ogni asservimento, ma è chiaro che in certi regimi uno scrittore deve stare attento a come usa le parole, cosa può provocare con le scelte artistiche e probabilmente gli sarà chiesto di partecipare alla propaganda e cose del genere. Meno chiaro potrebbe il rapporto con il Potere quando l’Arte è la Musica, la cui lingua non è comprensibile a tutti. Eppure il Potere, soprattutto quando è arbitrio, pretende di decidere che il bianco è nero riservandosi di cambiare idea. Del periodo di Stalin, delle delazioni, delle convocazioni nella grande casa già sappiamo tutto da Solgenitsin. Della difficoltà dell’artista a esprimersi e a trovare spazio ( il manicomio in cui stava il maestro) ci ha già parlato Bulgakov nel suo modo surreale, il più efficace quando la realtà diventa essa stessa surreale e impossibile.

Il romanzo di Barnes racconta di un famoso musicista Dmitrij Sostakovic, diventato rappresentante di Mosca nel mondo, una persona intelligente che non amava il regime, non credeva nel regime ma che fu costretto a scendere a compromessi per vivere e per far vivere i suoi amici e famigliari perché cadere in disgrazia all’epoca non era un evento che coinvolgesse solo l’interessato. Perciò il testo è pervaso di malinconia, di senso di inutilità e di sconfitta, di quel sottile disprezzo per se stessi per i compromessi cui si è scesi, per le cose non dette, per gli amici che non si sono difesi. Ma è una discesa all’inferno perché man mano i compromessi richiesti aumentano fino a aderire (malvolentieri) sotto Chruscev, al partito. Per non parlare delle dichiarazioni sottoscritte alcune delle quali tradiscono le proprie convinzioni e così via.

Ma il romanzo ci regala anche uno spaccato delle miserie di molti artisti dell’epoca, invischiati nelle difficili relazioni col potere sovietico: Picasso che fa il rivoluzionario filo sovietico dalla poltrona di casa sua, Sartre che offre soldi ai “convertiti”, e Nabokov (il compositore) che dall’America in cui risiede mette in difficoltà Shostakovic e cerca di fargli dichiarare quello che pensa pur sapendo cosa significhi parlare per chi sta ancora in URSS. Per non dire di Prokof’ev, pieno di una ingenuità candida e ridicola, che mai comprese la portata della situazione, e nemmeno quello che doveva dire per far contento il Potere e che cercò sempre il compromesso. E Stravinski, odiato da Sostakovic, che quasi si faceva beffe della condizione difficile di chi non era fuggito in Occidente. In questi passaggi quel che colpisce è vedere l’artista chiuso una tenaglia, manipolato eppure manipolatore; costretto dalle circostanze ad essere come sottoposto ad una tortura che è poi quella che gli permette di sopravvivere. Il Potere è così subdolo da saper usare le debolezze delle sue pedine, ricattandole e dandole anche l’illusione della salvezza.

Il rumore del tempo è una biografia ed è un romanzo a tempo sesso, pur non inventando nulla: è la forma del romanzo che prendere spazio e la vicenda di un eroe, ma sicuramente un vile, anzi di un vile che è eroe perché è vile, un uomo che capiva la storia e le sue perversioni e storture ma non aveva la forza di affrontare la famosa pallottola nella nuca e di farla affrontare ai suoi cari. Un uomo certo debole ma che fa di questa debolezza la sua forza paradossalmente; un uomo normale, che vuole salvarsi e non essere sommerso, che dissimula ma che è grande artista e che vede nella musica la sua terra promessa.

Barnes si addentra nella biografia del compositore, svelandone senza pietà gli episodi più umilianti, quando non vergognosi, senza neppure interporre tra le vicende e il loro racconto il filtro di un narratore non sempre attendibile, come era il dottor Braithwaite nel Pappagallo di Flaubert. In Il rumore del tempo – che è forse il più flaubertiano dei lavori di Barnes – la tecnica narrativa del discorso libero indiretto permette all’autore di riferire i processi mentali del musicista, inserendoli al contempo nel loro contesto storico, politico e culturale. Se all’inizio del Pappagallo Barnes proponeva due cronologie flaubertiane, la prima di successi e la seconda di soli fallimenti, in Il rumore del tempo l’autore sviluppa fino alle estreme conseguenze questo approccio fondato sulla convinzione che di ogni fatto esistano differenti versioni.

Non si tratta solo di una variazione su un tema chiave della narrativa barnesiana: la fallibilità e l’inaffidabilità della memoria. Per il musicista russo, non è in gioco soltanto il racconto individuale degli eventi, ma anche, in maniera molto più inquietante, la narrazione che ne fa il potere. Non a caso, le tre sezioni in cui è suddiviso il libro costituiscono, secondo il protagonista, altrettanti «colloqui con il Potere»: “colloqui” che mettono in discussione non solo la resa e l’interpretazione dei fatti da parte di chi ha in pugno le sorti individuali, ma soprattutto, da un lato, il rapporto del potere con l’arte, e dall’altro lato, conseguentemente, il confronto lacerante del singolo con la propria integrità morale, l’istinto di sopravvivenza e le responsabilità per la sicurezza dei propri cari.

Ogni “colloquio”, preceduto e punteggiato da riflessioni sul presente e da flashback, rappresenta un momento di umiliazione nella vita del musicista, un progressivo abbassarsi ai diktat del governo sovietico, una degradazione giustificata sempre più malamente attraverso l’ironia, fino a raggiungere la consapevolezza che nell’Unione Sovietica «era impossibile dire la verità e sopravvivere». Non vanno sottovalutate le scene grottesche, folli, di questi dialoghi dell’assurdo, che ci portano l’eco di un sistema incredibile, sadico, ma anche profondamente russo.

Non a caso, prendendo a prestito per il suo ultimo lavoro di Mandel’stam, Barnes eleva al quadrato l’ambiguità ironica che caratterizza le giustificazioni di Šostakovic per le proprie scelte esistenziali: optando per la sopravvivenza a scapito della verità, infatti, il musicista assume un comportamento opposto a quello di Mandel’štam, vittima delle grandi purghe staliniane, morto in un campo di transito presso Vladivostok nel 1938. Šostakovic che, anche grazie alla codardia e al tradimento dei suoi ideali, raggiunge la tarda età e una fama imperitura, si pone come il rovescio di una medaglia il cui dritto è rappresentato dal poeta, eroe sì, ma scomparso troppo presto e presto dimenticato. Si legge nel romanzo:
“Quegli eroi, quei martiri […] non morivano da soli. Molti intorno a loro sarebbero caduti in conseguenza del loro eroismo […]. D’altro canto, la logica ferrea del sistema funzionava anche in senso inverso. Salvando te stesso, potevi salvare chi ti stava intorno, le persone che amavi. E poiché avresti fatto qualsiasi cosa al mondo per salvare chi amavi, facevi qualsiasi cosa al mondo per salvare te stesso. E poiché la scelta non esisteva, non c’era neppure speranza di evitare l’abiezione morale.”

«Il mio eroe è un vigliacco» ha ammesso Barnes in un’intervista, per poi concludere che, nella Russia sovietica, «essere vigliacchi era l’unica scelta intelligente». Per questo, pur non arretrando di fronte al resoconto dei comportamenti più deplorevoli di Šostakovic (la firma di lettere contro i dissidenti Sacharov e Solženicyn; la presa di posizione pubblica contro la musica del suo idolo Stravinskij a New York, nell’immediato Dopoguerra, durante un tour di propaganda di musicisti sovietici negli States; l’iscrizione al Partito Comunista in tarda età, dietro pressione di Chrušcëv, solo per citare gli eventi più eclatanti), Barnes, stigmatizzando gli atteggiamenti deprecabili in primo luogo attraverso il punto di vista del musicista stesso, manifesta tutta la sua simpatia per questo antieroe, che arriva a dimostrare come in certe situazioni, ironicamente, la vigliaccheria sia una forma di coraggio.

Osserva Barnes: “L’ironia […] poteva permetterti di conservare qualcosa di prezioso, perfino quando il rumore del tempo si faceva abbastanza forte da mandare in frantumi i vetri delle finestre.”
Così l’artista, per salvarsi e salvare quanto gli sta a cuore, svende se stesso e la propria opera, si umilia pubblicamente producendo la musica del Popolo e del Partito, mentre segretamente compone le sinfonie «di tutti e di nessuno» che dimostreranno oltre la sua morte la verità non solo dell’assioma «L’arte è il mormorio della storia, udibile al di là del rumore del tempo», ma anche del suo corollario, secondo il quale, se la musica è «abbastanza forte e pura e autentica da annegare il rumore del tempo, si trasformerà nel mormorio della storia».

Šostakovic attraverso i propri frammenti di memoria manipola la narrazione dei ricordi per adattare il suo racconto a quello che il Potere gli impone. Lentamente l’ironia cede il posto al sarcasmo, senza mai riuscire, però, a cancellare le tracce della memoria stessa. Così, mentre ciò che credeva dimenticato riaffiora all’improvviso, il musicista, raggiunta la terza età, non può che constatare di avere vissuto troppo, ben oltre il proprio periodo migliore, tanto da vedere non solo morire, ma addirittura imputridire dentro di sé le proprie illusioni. Deluso da se stesso, non gli resta che una speranza: che la morte liberi la sua musica dal peso della sua stessa vita. Non è della morte, del resto, che Šostakovic sembra avere paura, ma della vita: la morte si può affrontare scrivendone, in parole o, nel suo caso, in musica. Di solito si crea arte per sconfiggere, o quanto meno sfidare, la morte, per lasciare traccia di sé e dire: «C’ero anch’io». Il rumore del tempo si chiude sul ricordo di tre bicchieri di vodka che, toccandosi in un brindisi, producono un suono «che sarebbe sopravvissuto a tutto e a tutti». Tre bicchieri non troppo puliti, un tintinnio, «una triade perfetta»: un ricordo.

Perché finché c’è memoria, c’è vita e, come sempre in Barnes, il ricordo – inaffidabile, precario, più immaginato che vissuto – nasce dal timore della morte, per far fronte all’oblio e al nulla della fine.

Nella nota dell’autore si legge infine che il racconto è basato sul libro di Elisabeth Wilson “Shostakovic; a life remebered” (1994 -2006) e che se il suo romanzo non ci ha convinti possiamo leggere il saggio della Wilson. Credo che siano comunque due cose diverse: leggiamo quindi Barnes come un vero e proprio romanzo e avremo delle sorprese straordinarie.

Stefano Vitale

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