copert_ficara_vitaleGiorgio Ficara

LETTERE NON ITALIANE
Considerazioni su una letteratura interrotta

Ediz. Bompiani

 

 

 


LETTERE NON ITALIANE
Considerazioni su una letteratura interrotta

“Ho scritto questo libro prechè non riesco a immaginare un mondo senza letteratura italiana”.

Così si apre il nuovo libro di Giorgio Ficara, uno tra più noti ed autorevoli studiosi e critici della nostra letteratura. Ma qual è il vero problema? E qui le domande diventano tante e impegnative. In quale misura, positiva o negativa, c’è oggi continuità o discontinuità fra presente e passato nella nostra letteratura? Il fatto che la maggior parte dei nuovi scrittori in prosa o in versi sembri ignorare l’esistenza, alle proprie spalle, di una letteratura in lingua italiana è un fatto liberatorio e positivo? O non è, invece, un segnale del decadimento della qualità letteraria? Siamo dinnanzi ad una catastrofica “mutazione” che abolisce sia la coscienza storica che lo stile? Sono domande essenziali visto il venir meno di una capacità di lettura critica dell’esistente letterario e il proliferare di produzioni narrative sempre più eterogenee, condizionate dal mercato e da parametri narrativi diversificati.

Giorgio Ficara, che qui riunisce molti saggi e articoli già pubblicati, non si sottrae e s’impegna nella difficile arte del formulare giudizi sul presente letterario nel suo insieme e nei suoi singoli fenomeni. Insomma, fa delle scelte e fornisce delle mappe di letture. Non è poco in un mondo critico dove tutto va bene, dove sul web gli editori scrivono, sotto mentite spoglie, le ovvie positive recensioni dei propri libri, dove il pubblico è sempre più disposto a ingoiare qualsiasi boccone letterario purché ben confezionato.

Scrivere non è mai stato così facile, anche se i lettori non sembrano molto aumentati. Ma Ficara va oltre e ci avverte che la nostra letteratura non è più neppure denominabile come “italiana” perché non ha più legami con un lungo passato che si è concluso prima che il Novecento finisse, fra Pasolini e Calvino, Zanzotto e Parise, Giudici e La Capria. La lingua della letteratura si è impoverita, immersa com’è negli standard e nei gerghi della comunicazione corrente. I generi letterari non riescono ormai né a ereditare da qualche segmento della nostra tradizione né a rigenerarsi. Insomma, la letteratura scritta in italiano non sarebbe più “letteratura italiana” ma somiglia più ad una enorme neoplasia in cui i singoli autori e libri risultano intercambiabili, o comunque poco riconoscibili. Questo anche perché è l’Italia stessa, come “società” che ha perso identità storica, o la ignora, o vuole liberarsene come ci si libera di una responsabilità inutile, di un falso dovere.

Riprendiamo la Premessa: “Ho scritto questo libro perché non riesco a immaginare un mondo senza letteratura italiana”. Si parla spesso di una crisi o addirittura di una compiuta transizione della nostra letteratura in qualcosa di periferico rispetto al centro vivo della grande lingua letteraria italiana: una discontinuità formale e fondamentale tra contemporanei e moderni, mai registrata nella nostra tradizione. Manzoni e Gadda, ad esempio, sarebbero continui, Gadda e Eco discontinui. Non si tratta di alto e basso, Literatur e Trivialliteratur, quanto propriamente di valori un tempo equiparabili, oggi non più equiparabili.

Si dice anche che questo salto tra ieri e oggi non riguardi solo la letteratura italiana (…) Ma in Italia, questo salto si vede di più: innanzitutto, l’originaria, secolare influenza della nostra letteratura sulle letterature europee ci induce oggi a commiserarne particolarmente l’emarginazione. D’altra parte, i più emarginati degli emarginati, cioè molti tra i giovani e i giovanissimi romanzieri italiani, scrivono ormai in un altro italiano, più simile alla traduzione da un succinto inglese che a quella lingua “altrettanto perfetta quanto immensa” di cui parlava Leopardi quasi due secoli fa (…) A differenza del banco dell’ortolano, dove il carciofo o il tarocco di origine protetta fanno bella mostra di sé, in libreria non esiste nessuna letteratura italiana “biologica”».

Per sviluppare questi ragionamenti, Ficara si serve di alcuni interessanti ritratti e recension dedicate agli autori per Ficara più necessari e orientativi (De Sanctis e Montale, D’Annunzio e Gadda, Zanzotto e La Capria). L’idea di fondo è che senza una lingua letteraria, una lingua che asuma la responsabilità di uno stile, senza distanza e coscienza critica del passato, secondo Ficara non c’è letteratura. Che esige “una lingua intelligente”, attenta alle sfumature lessicali, agile nella mobilità sintattica e nel tono narrativo. Chiamente Ficara ha in mente Leopardi e Manzoni, ma il suo non è un approccio retrò. Quel che non sopporta è l’esaltazione di una letteratura consumistica spesso nascosta dietro presunti avanguardismi. Ficara non accetta né la letteratura banalmente comunicativa né quella inutilmente indecifrabile, in fondo due modalità di manierismo senza storia.

La riflessione che Ficara svolge sul romanzo sta in equilibrio tra narrazione e riflessione, fatti e verità stilistica. Non si tratta di cadere nella letteratura giornalistica, nel cronachismo banale di tanta pseud letteratura contemporanea, che vende perché rassicura anche quando vuole stupire. Il fatto è che la letteratura deve raccontare e riflettere, penetrare nei fatti e sollevarsene al tempo stesso, sia nella forma che nel contenuto. Così Ficara ci fa riscoprire l’attualità sconvolgente di Raffaele La Capria (rileggete per favore “Ferito a morte”, uno dei più bei romanzi italiani); ci accompagna nel mondo poetico di un narratore speciale come Francesco Biamonti che sa farci attraversare il paesaggio e l’anima dei suoi personaggi come fossero una sola cosa; ci fa scoprire l’originalità stilistica di uno scrittore mimetico come Sergio Atzeni, capace di sprofondare nel mito giusto per farci capire il presente e, forse, il nostro futuro; ci apre al mondo di Elisabetta Rasy in bilico tra saggio e romanzo (belle le pagine sul romanzo Non esistono cose lontane).
Ma non basta: c’è spazio per la poesia di Montale e Zanzotto, per una critica serrata di Pasolini, per un sorprendente saggio su Giovanni Getto.

Il compito che si assegna Ficara è di definire le piste di una letteratura che pensa, che riflette su di sé e le cose: una sorta di nuovo “genere critico” per liberare la letteratura attuale dall’assedio dell’incultura: “È ancora possibile scrivere un saggio su una tazza da caffè, e trarne conclusioni generali, come faceva Charles Lamb? O pervenire a una certa consequentia tra i banchi di una pescheria a Catania, di fronte al pesce luna, come faceva Mario Praz? La materia dei saggi è innanzitutto distrazione, capogiro, inciampo sul cammino diritto delle idee (…)”.

Parlando d’arte e di artisti, ma soprattutto delle cose viste nei loro quadri e nei loro affreschi , oppure descrivendo un ambiente, un paesaggio interno o esterno, gli autori autentici sanno accompagnarci nel flusso della vita stessa con l’equilibrio di chi la ama la vita, con le sue increspature, accarezzando “ogni atomo di materia mondana”, e d’altra parte “l’allontana, la lascia, la vede sola, in sé”. Secondo Ficara, il romanzo italiano oggi può salvarsi letterariamente solo assorbendo nutrimenti saggistici, come nel Novecento, il secolo di Proust e Kafka, ha fatto ripetutamente per dare spessore umoristico o satirico o malinconico o speculativo al racconto. Variamente saggistici sono stati, in Italia, sia Svevo che Gadda, sia Morante che Calvino. Ma non basta saper riflettere per saper raccontare. Occorre anche possedere una lingua, controllare uno stile. Non basta raccontare delle storie, occorre saperle raccontare e qui conta il rapporto con gli altri autori specie quelli del passato e del presente che costruiscono cultura con pazienza e cura. Solo così potremo recuperare un rapporto con la storia delle letteratura che non sia nostalgico o arcaicizzante, retorico e noioso.

Resta viva, tra le tante, una questione. La letteratura italiana ha poco spazio nel mondo. Oggi accade che siano le altre letterature ad entrare nel nostro universo stilistico e narrativo. La letteratura è sempre più piatta, ma così forse è stata ed è anche più traducibile. Certo, anche commerciabile. Insomma, una letteratura troppo raffinata rischia di restare chiusa nel proprio orizzonte. Peccato che sia proprio questo orizzonte a scomparire giorno dopo giorno. E allora ha ragione Giorgio Ficara: basta con la letteratura anonima e standardizzata. Meglio rischiare ed uscire in campo aperto portandosi dietro il bagaglio di un impegno narrativo, stilistico e riflessivo che faccia la differenza.

Stefano Vitale

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