Massimo Morasso è nato a Genova nel 1964. Saggista, poeta, traduttore, critico letterario e d’arte: una figura poliedrica, ma fortemente coerente nel suo percorso letterario e personale che trova in quest’ultima raccolta una sintesi significativa. E’ come se questo scrittore stesse costruendo opera dopo opera, testo dopo testo un vasto edificio. Già il suo stile segue sempre una struttura architettonica in cui sono evidenti le fondamenta, i pilastri, le stanze, i corridoi , e finestre, i cortili… Non è un labirinto, la sua poesia, è un bel palazzo, austero e sobrio al tempo stesso, rigoroso e leggero, lineare ma sorprendente.

Il discorso poetico di questo libro, dal titolo per me un po’ enigmatico (mi ricorda “L’Opera al nero” di Marguerite Yourcenaur, ma magari non c’entra nulla…), si sviluppa attraverso alcune linee di forza ben determinate. Il primo pilastro è la memoria che invade le pagine del libro, aprendo la parola poetica verso direzioni multiple. C’è infatti la memoria intesa come compito da continuare e da assolvere nel tempo che è anche il compito della poesia stessa. Che dinnanzi alla contemporaneità, anche la più volgare, deve restare fedele al proprio destino e resistere perché nel poeta “il passato non è morto. E’ qui/ mi lavora”. Egli è “un amanuense medievale” che trascrive quanto urge dall’interno, nello scontro con la realtà. “Memorie, vive come polline” è bel verso che esprime l’idea della poesia come spazio/tempo della disseminazione irriducibile e infinita della parola, e del ricordo, non come qualcosa di perduto, da evocare con nostalgia impotente, ma come una realtà sempre viva, anzi, feconda.

Questo approccio impedisce a Morasso di cadere nell’elegiaco, nel lirismo fine a stesso. E quando egli rievoca alcuni passaggi o personaggi della propria vita, dell’infanzia o dell’adolescenza, ad esempio, non cede mai all’autocompiacimento o alla melanconica descrizione di un bel tempo andato, ma esprime la ferma decisione di ereditare tutta la carica di quella storia. “Non crediamo più alle/grandi illusioni della giovinezza./…alziamo il calice verso felici lontananze,/…liberi dal tempo, per un attimo./…abitare vuol dire stare qui/. La memoria è “un eco che rimbalza” ed il suo compito è di “triturare l’apparenza/sfondare il limite del senso” perché è questo che “spera la mente che non cede”. La poesia “tira sassate” contro l’apparenza” e scende nel fondo della lontananza
”per ritrovarla “qui/nel centro del mio cuore”.

Un secondo pilastro è il paesaggio. La poesia di Morasso è poesia profondamente radicata in un paesaggio: quello della città di Genova. A cavallo tra Montale, Caproni e Sbarbaro, il nostro poeta non usa la descrizione dei luoghi come semplice scenario, ma ne fa un protagonista della sua scrittura. Morasso coglie eventi e attimi interni, per così dire, al paesaggio collegandoli alla propria vicenda personale che, come detto, pur nel suo autobiografismo, sa essere ampia, aperta, condivisa. Proprio perché quelle strade, quelle finestre, quelle pietre sono di noi tutti. “Genova è una ratta che s’imbuca”, che “non ha potuto nulla contro/l’incedere dell’autunno”, che appare in balia degli urli del vento e della “ghenga dei piccioni” che “occhieggia tra le foglie”. E’ “un rivolo di immagini che sgronda la memoria./L’ora che ora non , fatta paesaggio”. E fa capolino, nel paesaggio del testo, anche un piccolo omaggio, non so se voluto, a Fabrizio de Andrè nella poesia che si apre coi versi “Ombre sui muri, il bianco-/nero delle ardesie dappertutto,/il mare si disfa nel respiro, il lezzo del salino,/fra le edicole e le creuze”.

Nella sezione “Tra i fili della rete del vivente”, Morasso intreccia i due temi della memoria e del paesaggio facendoli interagire, se così si può dire, con passaggi della propria vita. “Leggere da bimbo su uno scalino di rocce./Per ritrovarsi fiore ad aspettare/le api … ebbro di pace in tanta irrequietudine”. E ci racconta ovviamente di Genova, “scalena e verticale/ avvolta nel paltò delle colline” in un passo dal chiaro eco caproniano e dell’ “ansia di scavare/in me” evitando la prigione dell’Io restando in una dimensione intermedia fatta di sì di ricordi, ma soprattutto di sospensioni. Perché ciò che Morasso mi pare cerchi nel ricordo e nel paesaggio sia questo spazio sospeso, al di là del tempo eppure nel tempo.
E’ in questa dimensione che appaiono i familiari, il cane Dick ma anche gli amici scomparsi, quelli più intimi e quelli più importanti. Come Mario Luzi, incontrato a Firenze quando Morasso era un adolescente “mangiaversi”. Oppure come Walter Benjamin evocato direttamente nella poesia che apre coi versi “la luce, quando nasce/scoperchia l’immaginazione, le cose si rivestono di un’aura/ e di un candore semplice/ nel bene.” Il legame con Benjamin è profondo (Morasso gli ha dedicato il bel libro “Il mondo senza Benjamin”) e qui questi “impone la memoria di un destino irrisarcibile/ come un peccato anche mio”.
Al pari dei familiari, degli amici, degli animali, gli autori cari a Morasso fanno parte della schiera dei morti e sono “sostanza dei sogni” che “spazzano le strade del pensiero/ripulendolo”. Come ha scritto Giancarlo Pontiggia nella sua presentazione, Morasso ingaggia una “caccia spirituale” costruendo una propria catena di collegamenti necessari, di riferimenti biografici e letterari. In linea con il principio di Lavoisier secondo il quale “nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”, Morasso cerca “la vita che continua/sotto forma di spirito” in uno spazio che è memoria, paesaggio, immaginazione.

E’ questo, dell’immaginazione, il terzo pilastro del libro. E lo attraversa tutto. Tema decisamente benjaminiano, sostiene l’edificio poetico di Massimo Morasso che ci dice che “quando si scopre che un albero respira” è come “nel passo a due con l’immaginazione” perché “nulla si sa” e “tutto si immagina”. Il poeta racconta di sé: “miope com’ero. Pieno d’immagini,/da solo con me stesso/abbandonato al gioco del pensiero/prensile”/che tutto assorbe, che troppo discrimina”.
Morasso lotta contro le apparenze ma ricrea il mondo con l’immagine e l’immaginazione. Perché la verità, pur anelata, resta nel nostro passo, nascosta nelle improvvise novità del mondo, nascoste ma che ci appartengono da sempre. Noi stessi siamo “fissati in un’immagine”, illusi “dalla febbre del fare”, ma dobbiamo coglier l’idea che fare che è “uguale a contemplare,/permettere/ che la vita si celebri da sé”, cosa che è una sorta di desiderio profondo della poesia e del poeta vero. E che così si salva e ci salva.

Ma c’è un quarto pilastro da ricordare, un pilastro più “filosofico” che è rappresentato dal pensiero. Già perché questa è una poesia che pensa e che riflette sulla poesia e sul pensiero stesso, in un processo di rimandi che “sfibra” il verso, ma lo agita e lo spinge verso il profondo. La poesia diventa così occasione per ragionare sull’arte di scrivere che “è arte di pensare anche per gli altri” in uno slancio aforismatico; di indicarci che “ogni indicibile è uno scacco della mente./ Ma anche il dicibile/dissimula il suo nulla”; di riflettere sulla vita “che non ci deve nulla. Noi invece le dobbiamo tutto/ciò che siamo/o che possiamo diventare”; di soffermarsi sullo “slancio verticale” delle scelte fatte in una vita dove “senza saperlo” esprimiamo il nostro io, “il senso” aggirandosi “come un falco/intorno alla conchiglia che io sono, io/mollusco”.

Libro denso, stratificato nella “misteriosa compresenza/di ogni vita”, che sa utilizzare un linguaggio diretto e chiaro, ma al tempo stesso carico di allusioni, un po’ nello stile di Mario Luzi, un linguaggio che utilizza termini “bassi” e parlati (imbucarsi, ambaradan, ghenga, ghingheri,) a stilemi e giri di frasi molto raffinati, come abbiamo visto nei riferimenti precedenti. Libro carico di citazioni e suggestioni (si pensi al Petrarca nella poesia che si apre col verso “Zefiro torna/con le lusinghe della primavera” oppure a Pessoa nella poesia in cui troviamo “gli ardui cavilli di un gobbo testa d’uovo/svelano una scissione dentro l’io. /Mentre la vita, intorno,/che vuole solo vivere, si popola di sogni”. O ancora a Camillo Sbarbaro nei versi “eco di una bellezza che s’intuì/prima di andarsene”).

Sono i poeti “giardinieri in un giardino smisurato” che, come ben dice Morasso, devono ricordarsi che in fin dei conti “alla vita spetti l’ultima parola/ sulla vita” in un estremo disincanto che ci rende “mutamente /amici

Stefano Vitale

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