foto_debussy_vitaleErnesto Napolitano

DEBUSSY, LA BELLEZZA
E IL NOVECENTO

Saggistica

EDT – Torino 2015

 

 


Ernesto Napolitano
Debussy, la bellezza e il Novecento
« La Mer » e le « Images »

EDT – Torino, 2015 “Un’analisi elegante e coinvolgente di quel legame tra bellezza e modernità che Claude Debussy portò in dote al Ventesimo secolo”. Questo l’incipit del risvolto in seconda di copertina di questo bel libro. Ernesto Napolitano ci regala il frutto della sua fatica, della sua rara e preziosa competenza offrendoci un testo davvero importante per raffinatezza e profondità. Un libro certamente complesso, ma affascinante; un’analisi articolata, ma lucida e sistematica capace di illuminare la figura di Debussy in maniera davvero originale.

Napolitano sa coniugare in modo magistrale l’analisi musicologica, inevitabilmente presente e pertinente, con la riflessione filosofica illuminando la figura di Debussy anche sotto il profilo culturale, storico, poetico. Già, perché la poesia del “suono” in Debussy è anche, in un certo senso, la stella polare di questo saggio. Ma su questo torneremo. Intanto, e va sottolineato, benché si tratti di un libro con significative pagine strettamente musicologiche, esso è un testo “leggibile” anche da chi non è un addetto ai lavori. Sia, come detto, per via delle ampie parti dedicate alla figura del grande compositore francese e al suo ruolo nella costruzione dell’idea stessa di “modernità” che ha segnato e segna la nostra cultura ancora oggi; sia perché lo stile di Napolitano e la cura del ragionamento, ne fanno un libro indispensabile per chiunque voglia ascoltare musica e la musica di Debussy in particolare.

Il libro si concentra sui capolavori dell’ultimo Debussy, in particolare su “La Mer” e sull’opera pianistica “Images”, oltre che su “En noir et blanc” per due pianoforti, considerati come paradigmatici degli esiti più fecondi della produzione del maestro francese. Egli è letto come una figura di trapasso, di “soglia” tra il vecchio e il nuovo che con la sua idea di musica rappresenta, per Napolitano, la “sorgente di una nuova sensibilità musicale”: la ricerca della Bellezza come “epifania del fuggitivo” è un punto di partenza. La rottura con la tradizione, quella tedesca in particolare rappresentata da Beethoven e dalla “forma sonata” con tutta la sua struttura “sviluppistica”, regolata rigidamente, avviene in Debussy con la scoperta dell’autonomia del Suono. Egli consegna così alle avanguardie del Novecento un elemento significativo della Modernità. La musica per Debussy “è una matematica misteriosa” capace di percepire il mondo secondo figure e rapporti musicali astratti, “riflesso della natura acustica dell’anima”. Per Debussy diventa allora importante non l’oggetto sonoro, ma “l’evento sonoro” la cui “forma scaturisce direttamente dalla materia sonora”. La sua musica è quindi priva di velleità e funzioni costruttive, sfugge “all’etica dell’impegno tematico” e motivico tipico della tradizione tedesca e preferisce il “motivo privo d’intenzioni della sensazione, della percezione, puntando sul principio del piacere, alla felicità dei sensi”, alla Bellezza. La sua musica incarna “la negazione dell’imperativo occidentale della vita attiva”.

Avverso al concetto musicale di “sviluppo”, Debussy è più vicino alle immagini sonore di Schumann o di Chopin. Per esempio, “La Mer” è un coagulo di “apparizioni” in cui, come nei processi esistenziali, ciò che conta è la densità temporale. Si procede per figure sonore nel godimento del suono e della sua percezione. In tal senso, Napolitano ci invita a ripensare in termini nuovi il classico collegamento di Debussy con l’impressionismo e il simbolismo. L’aspirazione fondamentale di Debussy è quella all’interiorità, non quella della “rappresentazione” esteriore, sia pure mediata dall’impressione. L’esperienza della Natura, fondamentale anche in Debussy, è vicina alla visione di Paul Klee per il quale “l’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile”. Debussy non intende riprodurre ciò che si può ascoltare (egli è avverso ad ogni forma di musica a programma), ma “vuole rendere udibile ciò che si nasconde”. Il processo usato è quello dell’analogia, un processo di astrazione che parte dai moti della natura per ricavare poi linee, disegni, forme in autonomia. La sua musica è tutta immersa, ci dice Napolitano, in una “memoria immaginativa” che esprime ciò che il musicista ha “sentito” e che ora viene lasciato risuonare in chi ascolta, in un gioco infinito di rimandi e specchi sonori.

In questa direzione anche la nozione di tempo si rinnova. Non è più quella che si identifica con la narrazione di un’idea, con un processo regolato e necessario nel suo svolgimento. Qui il “il tempo si fa acqua”, si snoda attraverso “effetti che variano di continuo” e si dipana in una “pluralità di durate”. Siamo nel pieno della modernità che ha scoperto il tempo “intensivo” dell’attimo (e qui Napolitano ci propone fecondi e opportuni rimandi alla filosofia di Ernst Bloch), la forza delle interruzioni, degli scarti improvvisi, dei flussi di coscienza imprevedibili, dei silenzi attoniti di sospensione che rompono gli schemi della dialettica oggettiva. Debussy sarebbe così il promotore di una idea “multipla della forma” (ricollegandosi anche a filosofi come Husserl e Bergson) la cui unità “risiede sempre più nel suono, in un suono che è accadimento, l’opposto di una forma che pensa i suoni come oggetti dentro ad uno spazio dato”. La forma è flusso, colore, energia che moltiplica il tempo superando la logica armonica deduttiva.

In questo modo Debussy cerca la “fisicità” del suono e da qui punta, come detto, a saldare gli eventi sonori all’esprimersi di una Bellezza che si “indovina a poco a poco” attraverso il suo godimento. La dissoluzione del linguaggio logico discorsivo in musica sfocia allora nell’affermazione dell’”agilità del suono” e l’arabesco (si pensi ancora a Schumann) diventa il segno di una musica che non conosce “pesantezza”, ma pura libertà metrica. Musica rarefatta, ma non disfatta, musica sospesa, ma non dispersa, essa sollecita la fantasia di chi ascolta associando imprevedibilità e precisione nella lingua. Qui i riferimenti indicati da Napolitano sono anche quelli di Mallarmè e di Klee, saldando sempre più Debussy ad alcuni momenti importanti della costruzione della modernità. La musica di Debussy, ci spiega Ernesto Napolitano, mira ad una “immagine diretta delle cose”: la natura e il mondo sono un testo da decifrare, non un elemento pittoresco da riprodurre: la forma musicale è in continua mutazione eraclitea, la sinestesia invade l’orizzonte sonoro in un percorso fatto, paradossalmente, di astrazioni e sensazioni concrete che si congiungono.

Questa visione, nella vicenda critica debussiana, era stata riconosciuta da Adorno per il ruolo che aveva, come detto, per le avanguardie novecentesche, ma egli preferiva un’arte cupa, dal “colore di fondo nero”, preferiva la negazione del piacere (si pensi all’ammirazione di Adorno per Schonberg); così come Jankelevitch pur elogiando la funzione dell’apparenza nella poetica musicale di Debussy, finiva per assimilarlo ad una dimensione evanescente tutta funzionale alla teoria del “mistero dell’ essere” cara al filosofo francese. Napolitano si prende quindi cura anche di ricollocare Debussy in una luce critica più originale e pertinente, liberandolo anche dalle interpretazioni strutturaliste, per molti versi autocentrate, di Pierre Boulez. Insomma, il libro ha anche un ruolo di critica della critica che aiuta a capire meglio la posizione di Debussy.

Come detto, non mancano pagine difficili “ da specialisti” dedicate all’analisi testuali di alcune fondamentali opere di Debussy (La Mer e Images, appunto). Ma siatene certi, l’ascolto successivo ne resterà illuminato e per nulla inquinato da apriorismi concettuali.

La parte conclusiva del libro è poi dedicata all’ultimo triennio della vita di Debussy (1915-1918) segnato dalla malattia che lo condurrà alla morte e dalla tragedia della Prima Guerra Mondiale. Le “due guerre di Debussy” che troveranno nell’opera “En noir et blanc” per due pianoforti (1915) una sintesi tragica fatta di citazioni, giochi ritmici, innesti, mutazioni di tono e timbri originalissimi per irrequietezza e fantasia. Debussy non cede al neoclassismo, non capitola dinnanzi alla sirene dodecafoniche: egli cerca una sua via propria, allontanandosi da sentieri troppo battuti.

“Il sentimento di lontananza, di mistero mitico, l’espansione dei confini del reale hanno per effetto l’impressione che nella sua musica… sia cancellato l’uomo” (pag. 205). Ma come ricorda Remo Bodei “le cose non sono soltanto cose, recano tracce umane, sono il nostro prolungamento” (pag. 205). L’antiromanticismo di Debussy non annulla il bisogno di sensualità umana, di terrestre bisogno di Bellezza.

Un grazie quindi ad Ernesto Napolitano per darci, con questo libro, un esemplare messaggio di libertà e di umanità che, senza dubbio è strettamente connesso con l’analisi della musica di Debussy, ma che va oltre e ci riguarda tutti da vicino.

Stefano Vitale

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