(Milano, Feltrinelli, 2015)
OGNUNO POTREBBE… FARNE A MENO

copert_michele serraDov’è finito il pessimismo costruttivo di Michele Serra? Che cosa rimane del suo saggio moralismo alla Montaigne? E dell’ironia che, leggera, ci libera dal peso della volgarità del reale? Forse sono annegati nella nebbia che avvolge il paesaggio di questo libro. Oppure si sono persi nella noia che ci prende leggendo questo racconto. Ma c’è un racconto? Anche di questo si son perse le tracce.

Ci pare di capire che l’attuale condizione umana, caratterizzata da precarietà, frammentarietà, senso dell’inutile sia, probabilmente, l’oggetto del pensiero di Serra, ma qui il nostro autore ha perso un’occasione.
Lo stile, ad esempio, è decisamente abulico e noioso, l’atmosfera che prevale è stantia e ripetitiva, il linguaggio è prevedibile, piatto e senza sbocchi. Un buon libro deve in qualche modo coinvolgere il lettore: qui sembra che a Michele Serra non importi nulla di questa regola elementare.

Il racconto, come detto, non c’è. Un “falso movimento” è la dinamica di base del libro: si gira in tondo come accade nelle rotonde, in cui spesso si perde il protagonista, disorientato.

Giulio è un giovane di 36 anni che si scopre già vecchio e inutile. Passa il suo tempo-lavoro a visionare, in un’inutile sede universitaria, filmati di esultanza dei calciatori dopo un gol.
Sta facendo una ricerca socio-antropologica senza alcun senso.
Il padre di Giulio era un grande ebanista e gli ha lasciato un capannone di cui ora lui non sa che farsene e cerca inutilmente di vendere. Un mondo che scompare: una bottega un tempo florida che ora è chiusa. Giulio ha una madre un po’ strampalata e una fidanzata part-time. I loro rapporti sono grigi e per certi versi patetici.

Cerco momenti comici, ma tutto resta approssimativo e abbozzato. Dopo la buona prova de “Gli sdraiati”, Serra si è un po’ seduto e vive di rendita.

La lettura prosegue faticosamente. S’incontrano le Kaumakis, improbabili immobiliariste che hanno l’incarico di vendere il capannone paterno; c’è Ricky il collega dell’università che è coinvolto nell’inutile ricerca; Squarzoni, l’amico-concorrente del padre che ancora resiste col suo lavoro artigianale. Ma sono figure a metà tra il bozzetto e la retorica, niente di decisivo, solo contorni sbiaditi. Tutto si regge sull’attesa di qualcosa che non accade, persino i sogni di Giulio, segnati dalla presenza di un arcaico cinghiale, non portano da nessuna parte.

Certo, il personaggio del ragazzo esprime uno “stato dell’essere” di molti giovani-non-più-giovani di oggi, ma se il racconto voleva essere la denuncia sociale di una provincia che scompare, c’è di meglio verso cui rivolgersi. Qui tutto appare scarno e il racconto resta in superficie.

Ovviamente nel finale arriva un cinese, novello apocalittico angelo sterminatore, che si compra tutto, il capannone del padre e pure quello di Squarzoni.

Così ci prende la nostalgia dei racconti di Chiara, Arpino, Mastronardi, Flaiano e anche del Michele Serra de “Il ragazzo mucca” e “Cerimonie”.

Lo aspettiamo per prove migliori, sappiamo che può farcela. Intanto noi, di questo “Ognuno potrebbe,” possiamo fare a meno.

Alterez
Marzo 2016

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