“TUTTO QUI” di Franco Marcoaldi
(Ediz. Einaudi, Torino, 2017)

   Franco Marcoaldi ritorna sui suoi passi. Dopo il poemetto “Il mondo sia lodato”, lo ritrovano alla prese con temi e toni che, ci pare, siano decisamente, più nelle corde del nostro autore. Un libro più intimo, interiore, oscillante come si deve tra ricerca sapienziale, molto attuale, e ricerca di gesti salvifici in cui la poesia apre squarci di stupore e di sospensione salutare.
Ancora una volta il linguaggio è parco, sorvegliato, equilibrato, attento alla giusta architettura della frase, niente è lasciato al caso in questa poesia ricercata, ma sobria, colloquiale, ma raffinata. Poesia che sta in bilico sulla finestra del mondo esterno, sempre più abbruttito e distante eppure sempre più incombente.
Il poeta chiede a se stesso e a tutti noi un gesto di umiltà, non di ripiegamento, un gesto di lucidità, non di pessimismo. Ma tutto è velato dalla necessaria malinconia che fa della poesia un’allerta morale da cui non si può prescindere. Causa persa, è la poesia, certamente, ma necessaria. Marcoaldi riprende quindi il filo del ragionamento sulla nozione del tempo che rappresenta non solo uno dei suoi temi, ma un tema della poesia intera. E qui ci invita a ”perdere tempo” perché il vero lusso sono “due ore rubate al lavoro, una sposa tradita” insomma un uscire dallo schema e riposare sotto un cielo che “si è tinto di tiepolo rosa”.
Può sembrare poca cosa, può sembrare una sorta di chiusura della poesia dinnanzi ai compiti della Storia. E il poeta lo sa: “Fuori di qui si spara, e non a salve./Tu pianti salvie selvatiche, e fai/ bene, ma intanto il mondo brucia/ e le sue fiamme sono fuori/controllo ormai. E tu lo sai”. Questo è il dramma: sapere e non potere far nulla. La poesia non può nulla: solo fare il viaggio “lungo un arco completo/dalla tenerezza all’orrore”. Ma è davvero così?
Marcoaldi non ci sta e allora va a caccia del nemico. “Imbellettarsi, pavoneggiarsi,/millantare. Smascherare il vieto/meccanismo della parata in società”. Ecco, questo si può fare: denunciare i costumi sociali del presente (che poi ricordano tanto quelli eterni del passato) e cercare di ritrovare se stessi oltre le maschere. A questo ci invita la poesia di Marcoaldi, qui ed ora. E allora se “perdo il tempo se resto/qui, sdraiato sul mio letto” non è una regressione adolescenziale, ma la consapevolezza che il tempo “intemporaneo montaliano” è una condizione umana e poetica con cui dobbiamo fare i conti ed andare oltre.
La poesia deve fare i conti col tempo, col proprio tempo: così il poeta certifica che “si è fatto solitario il canto”, che la denuncia contro “ogni forma di abuso/ e prepotenza” non paga più perché non c’è più “la coperta dell’ideologia/ a tenerci al caldo, uniti”. Il gioco dialettico è notevole: la poesia denuncia l’impossibilità di un impegno civile e così facendo lo riafferma. Una sorta di dialettica negativa anima così questa poesia che, nel verso apparentemente semplice e piano, apre spazi profondi di riflessione sul presente storico e sulla storia della poesia attuale. Così come la poesia richiede il coraggio di addentrarsi “nel regno dell’incerto” così occorre comprendere l’insensatezza (e non è un gioco di parole) della storia segnata da massacri, attentati, stupri di massa… “e tutto, come sempre/assolutamente per niente”.
Il percorso del poeta procede a zig zag tra i suoi temi: come detto, quello della critica sociale, se così possiamo definirla, è importante. Lo ritroviamo in numerose poesie. “Che ridicole, le pose vanitose/ e disperate dei potenti” dietro alle quali si cela “quasi sempre un querulo bambino”. Oppure quando invoca il “Colpo di scena: il potente sale/ sopra il palco e, udite udite,/ oggi dice la verità”. E ancora quando denuncia che “nelle diverse sale d’attesa/della vita – ospedali, banche,/uffici della posta e comunali./non troverete mai i potenti”; e quando scrive ”Il potente se ne nutre, la sfrutta, la divora/ma non entra mai in contatto con la massa”.
Il poeta, come detto, si ritaglia così la libertà di dire quel che pensa, anche se serve a poco: “Corre senza guinzaglio la poesia/Nessuno si azzardi a dire: è mia”. Quel che salva è lo stare negli intervalli di tempo: “quanto più la scena vitale/ si confonde….” . Nell’”accavallarsi di fantastico e reale”, tanto più emerge l’idea che questa sia la “via migliore/per orientarsi poi/ tra il bene e il male”. E’ questa dimensione intermedia che occupa la poesia e forse la nostra stessa vita oggi. E’ difficile sapere “che cosa/ passa nella testa della gente/quando passeggia lungo il corso” e allora è meglio rivolgersi alo stupore della Natura. In “Emotion recollected in tranquilliy” ci racconta dello stupore dinnanzi al mondo animale, oppure in “Confusione naturale” il poeta si sorprende osservando il “piccolo teatro” della dinamica della vita.
Tutto è fuori posto, la realtà è eccessiva, c’è una parte di noi che combina danni, Dio stesso è affaticato, i nostri sorrisi sono insipidi, ci si sposa col niente, il mondo è sottile, umiliante, macchinoso; siamo attratti dall’insano gusto per l’autosabotaggio… ed il poeta cerca allora una tregua, una pausa. “Nel gelo di gennaio sto/come serpe schiacciata/alla parete. Apro la bocca/e bevo goccia a goccia/pallide lacrime di sole”. Assumere il “passo lento e gaio del flaneur”, essere “transito” sapendo che è un miraggio pensare/che il cielo interiore/sia tutto terso, pulito, sereno”; accontentarsi del fatto che “forse la vita è più elementare/di quanto non si creda” perché è tutto un “cavare erbacce, debellare/parassiti, smuovere la terra( e innaffiare le piante in modo accorto”… sono questi gli orientamenti della “gioia d’intelligenza passiva/una tenere indolenza capace/ di trasformarsi in festa di accoglienza”.
E’ questo il meccanismo, per niente facile, cui ci invita il poeta che nel momento in cui denuncia le brutture del nostro tempo che è ognitempo, ci mette in guardia perché “tutti ritorti all’interno/come siamo, impediamo/all’ aperto teatro della vita/ di venirci incontro e dirci:/guarda, ama, cammina”.
La poesia che chiude e dà il titolo alla raccolta fa da controcanto: i nostri fallimenti, le bugie, i vizi, i dolori e gli errori, lo stallo, le piccole e grandi perversioni ci appartengono, fanno parte di noi. Non è un perdono, non è una remissione. E’ solo un’evidenza. Tutto qui.

S. V.

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