DUE VOLTE ORFANI

Le notizie sulla mattanza delle donne, uccise da mariti, compagni, parenti, si susseguono senza sosta. Uno stillicidio di sangue che ci lascia inorriditi.

Eppure, se accade, ci sono delle ragioni. Terribili e scomode. Se ne parla, perlomeno. Fare qualcosa è più complesso. In ogni caso ci sono dei tentativi di analisi. Si spiega che c’è un problema di cultura maschilista che è dominante, di ruolo della donna non pienamente riconosciuto; si studiano le cause psicologiche legate alle ferite narcisiste degli uomini “lasciati” dalle loro mogli, compagne; si parla della fragilità sociale, dell’incapacità di sopportare frustrazioni da parte degli uomini in tempi in cui la stessa identità maschile è in crisi complessiva.

Michele Serra ha anche scritto su “Repubblica” che occorre ritrovare il senso etico della frase femminista “Io sono mia” e far capire agli uomini la primordialità di questa idea. Sempre su “Repubblica” di sabato 11 giugno 2016, Maria Novella De Luca pubblica un pezzo che mi ha colpito molto e che riguarda un tema legato al femminicidio di cui si parla poco.

Si tratta dei figli delle madri uccise. In Italia sono oltre 1628 e sono stati censiti da Anna Costanza Baldy, psicologa e criminologa che grazie al progetto europeo “Switch-off”,, che vuol dire “spenti” sta dando corpo e senso a questo fenomeno. La studiosa ha cercato di capire quanti sono, come vivono, come stanno questi minori e cosa si sta facendo per loro.

Emerge che “attorno a loro c’è il deserto”. Prima di tutto dentro di loro c’è un trauma. Aver assistito alla morte della madre per mano del padre è un dramma terribile. Per la psicologia sono “vittime di violenza assistita”, per lo Stato “vittime collaterali”. Un problema minore, insomma. Sul quale cala il silenzio e l’indifferenza.

Questi bambini finiscono poi per essere sballottati tra parenti, comunità, case famiglie, senza sostegni economici, giuridici, psicologici; a volte finiscono nella rete delle devianze, della droga, della ripetizione della violenza subito. Un fatto grave, che il pezzo “La battaglia dei figli del femminicidio. Noi lasciati soli orfani due volte” evidenzia a mio avviso, è che non sono attivi in Italia neppure i provvedimenti più elementari. Una ragazza di Nuoro, Vanessa Mele, racconta che ha dovuto combattere contro il padre che, uscito di prigione, viveva con la pensione di reversibilità della moglie che aveva ucciso.

Oggi il Parlamento ha modificato questa legge assurda, ma Vanessa con l’avvocata Annarita Busia hanno scritto una proposta di legge affinché “i beni dei padri assassini possano essere bloccati e sequestrati automaticamente” senza dover fare una faticosa causa civile. La proposta parla anche di risarcimento economico per i figli visto che nel 90% dei casi le donne vengono uccise dopo che vi sono state delle denunce non ascoltate: lo Stato è, in parte, quindi responsabile.

E’ come una guerra (nel 2015 sono state uccise 155 donne, nel 2016 sono già 58) e per le vittime di guerra ci sono dei sostegni di diritto. Si parla molto del senso della “giustizia”: intervenire in questa materia può essere un esempio importante. Così come deve essere sistematicamente promossa un’educazione quotidiana, a scuola e in tutte le istituzioni educative e sociali, contro la violenza. Perché la violenza sulle donne e sui figli riguarda tutti da vicino ed ha a che fare col grado di civiltà della nostra società.

Mi auguro che quando i giornali, i politici, gli studiosi parleranno di femminicidio tutti si ricordino, se ci sono, anche della presenza degli orfani, che rischiano di essere appunto “due volte orfani”. Ce la possiamo fare?

Stefano Vitale

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