Il Calcio da sport a Spettacolo

Ogni sport è una forma ritualizzata di aggressività, formalizzata attraverso un codice di regole; che raggiunge forme sofisticate e complesse negli sport di squadra, dove lo scontro è tra due gruppi, razionalmente manovranti nel coinvolgimento agonale. Qui è il segreto del calcio, il cui grande successo in Italia ha la sua ragione prima nella possibilità di ogni squadra di diventare il punto di riferimento del proprio campanile; e l’Italia è la terra dei campanili, ma nulla allarga l’ombra del proprio campanile quando la vittoria.

La Juventus ha vinto ventinove scudetti, salvo revoche dell’ultimora, ecco perché metà Italia è Juventina. Lo scrivente invece è tifoso del ‘Toro’, ergo uno che tifa per una squadra calcistica che dalla Juventus ne ha patite di tutti i colori, ma l’idea che ogni male del gioco del calcio derivi da Moggi la trova perfin comica. Chi ‘isso fusse’ Moggi lo aveva provato prima di entrare in Juventus, affermandosi, uomo che si è fatto da sé, attraverso una carriera da osservatore nei campi di provincia fino a dirigente nel Torino, nel Napoli, nella Roma, dove sempre aveva dovuto misurarsi con il potere juventista. Buon soldato di ventura del mondo della pedata, quando la Juve lo chiamò, infine comprese che non avrebbe più dovuto dissipare tanta astuzia al sevizio di padroni subalterni: era infine arrivato ai vertici dell’area del potere pedatorio, che ha guidato e perfezionato secondo propria natura, ma continuando uno stato di fatto di egemonia juventista che, che affermatasi in evo fascista, aveva conosciuto due soli momenti di crisi: davanti al grande Torino negli anni quaranta, e vent’anni dopo sotto l’urto della politica calcistica di Moratti padre, munifico più di Creso con arbitri, giornalisti e presidenti di società minori, fin quando si spaventò, alle pretese crescenti: pretese finanziarie del mondo intorno, e mollò la partita calcio in bellezza: regalando uno scudetto già suo alla Juventus, all’ultima giornata di quel campionato del suo addio, mediatrici le mani del portiere Sarti.

Con Moratti padre, se non scomparve, entrò però in crisi la figura del mecenate egemone, in quanto nessuno, neanche un Agnelli, era più in grado da solo di appagare le pretese delle pletore di parassiti intanto accorse alla festa calcistica morattiana.

Il meccanismo che, nell’evo pre televisivo, portava ai vertici del campionato una società di calcio era la sua capacità di spendere in acquisti sul mercato interno, provocando quella irrigazione finanziaria a pioggia che nutriva le società minori. E la Juventus è stata a lungo la più potente perché con le sue campagne acquisti distribuiva denaro alle piccole società. Spendere sul mercato era la premessa di ogni ascesa calcistica, anche se non sempre, i grandi investimenti per acquistare calciatori hanno portato i risultati sperati, esemplarmente Moratti figlio nel presente, che ha dissipato per due coppe Italia una finanziaria dello Stato italiano, o almeno una finanziaria bis. E senza costruirsi nessuna posizione di forza, anche in ragione di una politica di acquisti all’estero, che non gli creavano benemerenze sul mercato italiano, ovvero un autonomo zoccolo di potere, di uomini e società satelliti cointeressate a una vittoria interista. Qui incomincia, e non dai torti arbitrali, il cammino nella sconfitta del secondo morattismo.

Ma tra l’epoca di Moratti padre e figlio qualcosa di decisivo è intanto accaduto, che ha liquidato definitivamente dal calcio ogni traccia residua di sport, per aggregarlo di fatto all’universo del mondo dello spettacolo. Questa metamorfosi si consuma per l’irruzione del marchingegno televisivo, in forma di vera strega popperiana, prima di esaminare i cui effetti distorsivi: per comprenderli, occorre avere chiaro il tratto del tutto post-sportivo del gioco del calcio oggi.

La degenerazione del gioco del calcio, il suo passaggio da sport a spettacolo, si individua con la fine del calcio provinciale, la sua professionalizzazione in evo fascista, dove inizia una deriva che trasforma il calcio sempre più in gioco-spettacolo, le cui potenzialità propagandistiche Mussolini intuisce per primo e che l’evo della guerra fredda riconferma. Un professionismo che è creazione juventina, con l’ingaggio del mitico terzino della Pro Vercelli Caligaris e che crea la figura del presidente mecenate, destinata a trionfare negli anni Novecentocinquanta-ottanta del secolo scorso, dove i ricchi trovano negli investimenti calcistici il rapido modo per acquistare uno status sociale tra le classi subalterne della loro città.

Mentre il calcio trapassa, con la professionalizzazione dei giocatori dei campionati principali da sport a spettacolo, accade intanto la motorizzazione della gioventù. E infatti, se non nascono più i Coppi, ma anche il calcio come sport vede decimati i suoi praticanti, scompare dalle strade delle città, e scompare soprattutto dagli e con oratori perché la speculazione edilizia, in concomitanza con la motorizzazione, espropria ed edifica tutti gli spazi di possibile pratica dello sport calcistico, mentre una urbanistica cialtrona, avida di facili profitti, non riesce a immaginare spazi attrezzati per lo svago degli adolescenti, intanto scuterizzati.

Il gioco del calcio come sport praticato defunge negli anni novecentosettanta del secolo scorso. Quello che sopravvive è soltanto uno spettacolo in stato preagonico e destinato a ridimensionarsi, eroso dalle pletore di predoni intanto cresciuto intorno al gioco, e che legittimano le loro pretese e le fondano sul più antisportivo dei fatti e il più inscindibile dall’idea di gioco: la vittoria.
Non più sport, nel calcio la vittoria diventa tutto, e inevitabilmente il modo della vittoria passa di gran lunga in seconda fila, rispetto al risultato, perché si gioca per vincere: in ogni gioco. Ma intanto al gioco del calcio la sorte aveva portato un dono esterno decisivo per la sua sopravvivenza come mondo a parte: la televisione.

Moggi ha dichiarato che il 90% degli introiti delle società calcistiche principali derivano, direttamente o indirettamente, dalla televisione, gli stessi sponsor effetto della diffusione televisiva dello spettacolo calcistico. Ma tutto si bilancia: anche l’intervento massiccio della magistratura, le sue inchieste presenti, sono da imputare alla mediaticizzazione. Non solo: il meccanismo delle intercettazioni giudiziarie è possibile soltanto per lo sviluppo delle tecnologie elettroniche, delle quali la TV non è che un aspetto, ma rilevante prova documentale del dolo negli errori arbitrali, quando spiegati dalle registrazioni delle intercettazioni. Senza le tecniche elettroniche nuove sarebbe stato impossibile raccogliere ogni possibile prova di comportamenti scorretti, e i giornalisti quaraqquaqqua avrebbero continuato a raccontare al loro pubblico televisivamente rimbecillito di sudditanze psicologiche. Tipacci come gli arbitri italiani sudditi psicologicamente? Più legittimo pensare Biancaneve pornostar. Gli arbitri da sempre lavorano per sé, la propria vanità, che può anche diventare vanità di correttezza etica, ma sotto altri climi morali. Ovvero quelli di una volta, stando soprattutto ai tifosi della ‘Madama’, tra i quali vive il mito di un calcio pulito dei tempi che solo la ‘Famiglia’ reggevail squadra.

Il calcio pulito di quell’evo discende dalla mancanza di possibilità di documentare la natura dolosa di errori arbitrali clamorosi, a discendere dal più noto: il gol annullato al romanista Turone, in uno scontro diretto Juventus Roma, decisivo per l’assegnazione dello scudetto. Non meno decisivo fu un altro cosiddetto errore arbitrale, all’ultima giornata di campionato in un SampDoria Torino. L’attuale commissario della nazionale Lippi tolse da dentro la rete del proprio portiere un pallone che avrebbe significato spareggio per lo scudetto tra Torino e Juventus, mentre l’arbitro allegramente non vedeva. E perfin Umberto Agnelli pare esclamasse a un decisivo Juventus Inter, quando l’arbitro negò il più evidente dei rigori su Ronaldo: “Questa volta ha davvero esagerato.”, mentre Ronaldo capì che per vincere doveva cambiare paese, ed emigrò in Spagna. A Torino invece quel giorno, a differenza di Moggi, Umberto Agnelli non andò a chiudere l’arbitro nello spogliatoio. Altro il personaggio, eppure fu Umberto Agnelli, stufo di veder la Juventus tribolare scudetti, ad affidare la squadra a quella che poi sarebbe diventata prima la trimurti e poi la triade; che non è per nulla un bell’epiteto, triadi il nome occidentale delle famiglie mafiose cinesi. Perché triade e non triumvirato?

A volte la vita svela in significativi lapsus linguistici quello che i parlanti si sforzano di celare, e che sarebbe rimasto celato e sepolto per sempre con il declino del gioco del calcio, senza l’errore di mercato della televisione commerciale. La TV commerciale ha investito cifre davvero dissennate in uno spettacolo che non ha più nulla di sportivo, già in declino, trasformandolo in un importante canale di meccanismi redistributivi finanziari al servizio di centri di potere, ergo da preservare. E la prova del nove di questo ruolo spettacolare e finanziario del gioco del calcio oggi l’abbiamo nella nomina del commissario incaricato di risistemare il meccanismo: non un esperto di calcio, un Rivera, a spendere il nome più sensato, ma un uomo di alta finanza, il già presidente ConSob Guido Rossi, ma quanto oggi valga il calcio come spazio dell’immaginario collettivo nulla lo descrive quanto la degradazione degli spettatori a tifosi. Solo dei tifosi possono entusiasmarsi a certe partite dove anche come spettacolo il calcio giocato diventa sempre più povero e vuoto, per effetto dei troppi interessi che vi gravano sopra.

Se lo spazio mitologico calcistico sopravvive nella gente è ormai solo per le ore di trasmissioni televisive e le pagine e pagine di giornali che lo sostengono, ma anche per la sua corruttiva capacità, prima con il totocalcio e poi con i vari calcioscommesse, di mobilitare il gusto del rischio dei giocatori d’azzardo. Sono ormai quasi solo gli scommettitori a ragionare, seguire gli inghippi calcistici, tra il fantacalcio e il toto nero. Essi sono i grandi razionalizzatori delle cronache calcistiche, le cui menti più acute da tempo hanno individuato proprio gli arbitri sotto indagine della magistratura come fattori da valutare. E uno di questi accaniti scommettitori ieri mi spiegava che il sequestro nello spogliatoio di un arbitro: quel capo di imputazione contro Moggi, avrebbe la sua vera causa in una scommessa truffaldina dell’arbitro dell’incontro, che senza questa segreta pecca avrebbe preso lui a ceffoni o almeno denunciato la prepotenza dell’ex direttore sportivo della Juventus. E un altro mitologema torinese intanto assicura che il crollo di Moggi sia stato deciso dalla ‘Famiglia’ dopo che questi aveva deciso di passare al servizio di Berlusconi o di Moratti.

Il calcio diventato spettacolo e tifo ergo pseudofede, come ogni spazio simbolico fantastico ha le sue teologie, che più sono strampalate più vanno alla grande. E certamente una strampalatura bellissima che circola a Torino è quella che imputa il rischio di morte per overdose di Lapo Elkan a una congiura ordita tra Moggi e dai vertici del San Paolo IMI, dopo che il giovane Lapo aveva chiesto una verifica contabile e della gestione della Juventus e della FIAT. Da dove poi la vendetta della Famiglia.

E proprio questi mitologemi dicono quanto nulla di sportivo sia rimasto nel gioco del calcio, quanto questo bellissimo gioco si sia trasformato, nel suo senile declino, in un tartaro di vuoti fantasmi metateologici, interessanti per quanto riflettono, e glossano, il declino del paese.
Moggi è un sintomo, e non una causa, e la sua caduta un puro gioco in commedia, perché il calcio come sport non esiste più, e come spettacolo c’è di molto meglio, anche televisivamente, anche se resta come sport di squadra forse il più bello, ma a giocarlo.

Piero Flecchia
Febbraio 2007

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