foto_aborto_vitaleNel mese di aprile sui giornali italiani circolavano articoli circa la decisione del Consiglio d’Europa di condannare l’Italia per le discriminazioni subite da medici e personale medico che non avevano optato per l’obiezione di coscienza in materia di aborto.

Strasburgo, è bene ricordarlo, aveva accolto un ricorso della Cgil che sosteneva che questi sanitari sono vittime di “diversi tipi di svantaggi lavorativi diretti e indiretti”. “Gli svantaggi subiti dal personale che non ha fatto obiezione”, secondo l’organizzazione di Strasburgo, “emergono semplicemente dal fatto che certi medici forniscono servizi di aborto nel rispetto della legge”, e “quindi non c’è alcun motivo ragionevole od obiettivo per questa disparità di trattamento”.

In pratica si ribadiva la necessità della corretta applicazione della legge 194. Nei sistemi democratici moderni, la maternità è un sacrosanto diritto, ma lo è anche quello del garantire un servizio medico uniforme su tutto il territorio nazionale. E con esso il rispetto, nel quadro delle norma vigenti, anche della possibilità, dell’interruzione della gravidanza.

In altri termini, le donne secondo la legge possono scegliere liberamente di diventare madri e senza discriminazioni, a seconda delle condizioni personali di ognuna. A volte mi pare di tornare indietro agli anni Settanta: l’abortire non è una passeggiata e non è neppure una forma di anticoncezionale, così come certa cultura maschilista continua a pensare. Le motivazioni per interrompere una gravidanza, tenuto conto che “essere madri” resta un fattore importantissimo nella costruzione della personalità e nell’esistenza di una donna, possono essere molto diverse, talvolta insondabili. La possibilità che la legge offre rispetta questo limite: non si può entrare nella vita delle persone che, come tale, va rispettata. Le convinzioni ideologiche, culturali, religiose hanno il loro peso, ma spetta a ciascuno stabilire quale sia questo peso. Lo Stato, sia pure tra molti distinguo e limitazioni, almeno dà la possibilità di farlo.

Il Consiglio d’Europa rimproverava così l’Italia perché le donne che cercano accesso ai servizi per l’aborto continuano ad avere di fronte una sostanziale difficoltà nell’ottenere l’accesso a tali servizi nella pratica, nonostante quanto è previsto dalla legge. Inoltre, il Comitato Europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa denunciava che vi è il rischio di forzare le donne “ad andare in altre strutture (rispetto a quelle pubbliche), in Italia o all’estero, o a mettere fine alla loro gravidanza senza il sostegno o il controllo delle competenti autorità sanitarie, oppure possono essere dissuase dall’accedere ai servizi di aborto a cui hanno invece diritto in base alla legge 194/78″.

Non vorrei arrivare a dire che dietro certe pratiche di obiezione di coscienza dei medici vi siano interessi economici diretti o indiretti, ma il fatto è che da sempre dove manca un sostegno pubblico, si alimenta il circuito privato. E quando si tratta di questioni sanitarie entra in gioco il tema delle discriminazioni e delle differenze sociali, che una buona democrazia deve sempre cercare di superare o attenuare.

Su “La Stampa” del 14 aprile 2016, nella rubrica “Data Journalism” si confermava che a causa dell’obiezione di coscienza dei medici (il 70% circa) gli altri medici non obiettori, che fanno semplicemente il loro lavoro nel solco del giuramento di Ippocrate, sono obbligati a seguire almeno 10 aborti a settimana. Ginecologi ai lavori forzati, insomma.

Il 12 aprile 2016, Umberto Veronesi, su “Repubblica” ribadiva che l’applicazione della Legge 194 rende l’Italia un paese civile, dove le necessità e le scelte delle donne (che ne hanno necessità o che scelgono) vengono rispettate senza che questo crei impedimenti alle necessità o alle scelte di altre donne. La presenza della legge non ha incrementato l’uso indiscriminato.
Due mesi dopo, il 19 giugno su “Repubblica” appare un trafiletto: “Tutti i medici obiettori a Trapani vietato abortire” a firma di Giusi Spica. E l’occhiello dice: “Il rischio che si ricorra a interventi clandestini per interrompere la gravidanza”. Insomma, accanto al venir meno del principio di autodeterminazione delle donne c’è il problema della “mafia degli aborti”. Intanto ci sono state le elezioni amministrative in molte città italiane e da più parti è riemerso il tema della povertà, delle periferie, delle ineguaglianze, della volontà di cambiare, talvolta senza sapere cosa e come. Forse su questo tema del rispetto della Legge ci sarebbe qualcosa da fare.

Qui non si tratta di fare crociate ideologiche o di mettere in discussione le idee e le scelte di ciascuno. Qui si tratta di applicare la Legge nel rispetto dei diritti dei cittadini. Non credo sia immaginabile uno Stato in cui i vari rappresentanti delle Istituzioni (della scuola, del tempo libero, del lavoro, della sanità appunto) possano applicare o non applicare delle norme in base alle proprie convinzioni, rispettabili per carità, personali.

Molto spesso sentiamo dire, a proposito degli immigrati e dei profughi, che “lo straniero deve rispettare le leggi italiane sennò torni a casa propria”. E i medici che cosa fanno?
Ho letto di un giudice in Lombardia, nel caso di un contenzioso in una separazione coniugale, che ha stabilito che il bambino dovrà frequentare la scuola Pubblica e non la Privata (come pretendeva uno dei due genitori) perché solo essa può garantire, in quel caso, un equilibrio, una giusta distanza dai conflitti ed anche un’istruzione più aperta e non connotata. E poi ripenso al Tar che ha condannato la Regione Lombardia per aver rifiutato l’applicazione delle sentenze riguardanti la povera Eluana Englaro, sempre con la motivazione che le scelte personali ed ideologiche dei singoli non possono impedire l’applicazione della Legge.

Le leggi sono quello che sono e non tutte sono buone leggi. A me, per esempio, non piace la legge sul “reato di clandestinità”, ma finchè non la si cambia, è quella la legge. E non si può obiettare. Ma forse per la 194 c’è tutta questa elasticità perchè si tratta delle donne? O perché dietro ci può essere un bel business?

Stefano Vitale

CONDIVIDI