Una nota sulla dialettica tra diritto e costume

Ogni società definisce la propria forma e tipo di convivenza: di ‘civiltà’, a dirla con vocabolo paludato, soprattutto attraverso il tipo di comportamenti che individua trasgressivi del buon vivere comune, ergo colloca nella classe delle devianze criminali da reprimere.
Nelle società primitive e protostoriche le trasgressioni sono individuate dagli insegnamenti degli antenati, che hanno fissato la giusta linea di comportamento nelle relazioni tra classi di età, sessi e gruppi professionali; relazioni spiegate dai racconti mitici e scandite da passaggi rituali.

Nelle società storiche statali l’individuazione delle devianze è compito delle leggi, traduzione in normativa di un sistema etico fondato su un insegnamento religioso. Ma quando il progetto etico che fonda la norma giuridica: la licenzia, rimanda a un fondamento religioso, inevitabilmente la norma giuridica è ex ipotesi sottratta all’analitica razionale, con effetti nei disegni e attuativi e interpretativi spesso tragicamente devastanti il tessuto sociale, sia a livello di gruppi che di persone, come descrivono le guerre di religione.
E fu proprio per sottrarre l’area delle relazioni interpersonali di una comunità agli effetti devastanti della sacralizzazione della norma giuridica che nella Roma tardo repubblicana si separò il formalismo legislativo dal sacro, ma a chiarire il complesso nodo meglio varrà un esempio concreto.

Intorno al 1840 Cristina Trivulzio, più nota come principessa di Belgioioso, scrisse e pubblicò una storia del dogma cristiano in lingua francese, molto apprezzato dalle grandi personalità intellettuali parigine dell’epoca: Thiers, la Sand, Cousin, Balzac. Thiers soprattutto elogiò la capacità della Trivulzio di cogliere la storicizzazione del processo, ovvero il mutare della struttura dogmatica in rapporto alle trasformazioni sociali. Il punto invece indignò profondamente Alessandro Manzoni, che accusò la cattolicissima Cristina di laicismo modernista, ma lo scrittore non si limitò a confutare intellettualmente la posizione della Trivulzio, portò lo scontro sul piano personale.

Giulia Becaria, la madre del Manzoni, aveva ottimi rapporti con Cristina, ma quando si ammalò gravemente lo scrittore ordinò alla servitù di vietare alla Belgioioso di visitare la malata, ad evitare che una persona in pericolo di vita patisse la vicinanza infettante di una pericolosa peccatrice: una donna profondamente immorale, l’accusa di don Lisander a Cristina. Un’accusa d’immoralità ben singolare, visto il pulpito: il Manzoni aveva ritenuto legittimo non solo intascare l’eredità del padre giuseppesco, il conte Manzoni, ma anche quella dell’Imbonati, amante della madre, donna di ben più liberi costumi della Belgioioso. Un tal comportamento, rivoltante alla norma evangelica, del nostro maggior romanziere nazionale si spiega soltanto entro la tradizione patriarcale antifemminista, che troviamo al centro delle più diverse civiltà storiche, in combinazione con l’ignobile istituzione della schiavitù, ben radicate anche nella civilissima Atene dei tragici e dei grandi oratori e storici.
Nella civilissima Atene di Pericle e del teatro tragico non era reato il possesso di schiavi o lo stupro di una donna sola sulla pubblica via, come appunto continuano a non essere considerati reati nella civile Arabia saudita, dove invece per le donne è reato punito con l’arresto immediato guidare l’auto.

Nell’antica Roma, al tempo dei Cesari fu introdotto il reato di lesa maestà, forse a imitazione dei regni alessandrini, reato che la Repubblica non conosceva, e che poi si è affermato ed è stato recepito nei seguenti duemila anni da tutti i codici occidentali, e dov’è il nucleo della giurisdizione punitiva repressiva dell’area dei cosiddetti reati d’opinione, poi messi al bando, come l’inquisizione, dalla reazione illuminista tra ‘700 & ‘800.

Il reato per eccellenza invenzione della civiltà giudeocristiana, introdotto dall’impero romanocristiano, fu quello di divinazione, pratica immemorabile, ma il cui esercizio comportò, a partire da un editto di Teodosio (IV secolo), la confisca dei beni e la distribuzione tra il/i delatori, lo stato e la chiesa dei beni di chi esercitava la divinazione e dell’interrogante. Da questa invenzione giuridica della confisca dei beni dei praticanti la divinazione evolverà tutta la macchina repressiva inquisitoriale, mentre dal reato di lesa maestà discenderanno tutte le diverse forme di repressione della libertà di pensiero, una cui privata manifestazione la critica del Manzoni alla Belgioioso, colpevole del reato di lesa divinità, per il Nostro causa e luogo dei costumi corrotti e della vita immorale della Belgioioso, ma costumi corrotti e vita immorale della donna veri soltanto nella fantasia del romanziere.

In una legislazione repressiva ben articolata quale quella europea uscita dalla società delle monarchie assolute era però singolarmente assente il reato di immigrazione clandestina, oggi invece ampiamente recepito dalle varie legislazioni europee.

Oggi in Italia l’opinione pubblica non dubita che soltanto in ragione di questo vuoto legislativo – al quale infine oggi anche la patria del diritto, consule Berlusconi, ha posto rimedio – tra i secoli XVI & XVII si affacciarono nei paesi europei, dalle enigmatiche distese danubiane, gruppi di una misteriosa etnia, che avanzarono, dilagarono in tutto il continente, frazionati in piccoli gruppi, diventando in Italia e in Francia gli zingari, in Spagna i gitani, senza i quali come avrebbe fatto Bizet a trovare la musica della sua Carmen?
Erano gruppi portatori di una loro cultura, ma anche nell’Italia dell’800 e primo ‘900, di una loro funzione nel mondo agricolo: calderai, stagnini, commercianti di cavalli, artefici di minuta bigiotteria, detentori, soprattutto le donne, di loro forme di quel sapere divinatorio che l’inquisizione aveva imparzialmente cancellato e nei paesi cattolici e riformati, o quanto meno trasferito nelle zone d’ombra profonda, trasformando questo sapere religioso immemorabile in trasgressione, ergo reato.

Nel vuoto di strade e di mercati che separava, frazionava l’Italia ottocentesca, i nostrani zingari trovarono un loro ruolo di mediatori. In quel chiuso mondo agricolo i loro mestieri artigiani e i loro saperi magici svolgevano un ruolo, ma che si è dissolto con l’avvento dell’urbanesimo, mentre una furibonda persecuzione si abbatteva su questa etnia, che ha pagato ai lager nazisti un tributo tragico non meno grande di quello degli ebrei.

Negli anni dell’immediato dopo guerra in Italia gli zingari come entità distinta hanno perduto, con la scomparsa del mondo agricolo tradizionale, la loro specifica funzione economico sociale, che li aveva individuati: assegnato loro un ruolo nel tessuto sociale tra ‘700 & ‘800. Degli anni ‘950 del secolo scorso hanno partecipato della generale crescita economica del paese, attivi in alcuni settori particolari: giostrai, commercio ambulante, spesso muovendosi tra legalità e microcriminalità: dove hanno svolto un ruolo attivo centrale, in gran parte deliberatamente ignorato dal sistema repressivo, che considerava questa microcriminalità fisiologica e a un tempo irrilevante, in ragione del vero doppio problema criminale nazionale: la mafia e la corruzione, spesso pericolosamente intrecciate.

Questa lotta all’intreccio nefasto è stata dagli apparati giudiziariorepressivi italiani della prima repubblica hanno clamorosamente perduta. Tra gli anni ‘960-70, con la Sicilia, transitavano sotto il controllo della grande criminalità la Calabria, la Puglia, la Campania, e interi territori di Piemonte – un esempio la valle di Susa – della Lombardia e del Veneto.
La stessa caduta della Prima Repubblica, oggi imputata alla fine del comunismo, se in quel fatto storico ha la sua causa occasionale, ha invece nella perduta lotta al grande crimine organizzato la vera causa prima. Ergo, molto opportuno è stato il rafforzamento, nel pacchetto ‘Sicurezza’ del governo Berlusconi, delle misure contro l’area della grande criminalità mafiosa.

Putroppo in questo pacchetto il governo ha incluso anche provvedimenti repressivi mirati contro gli zingari e gli immigranti, inglobati in una unica partita di giro giudiziario, che è sostanzialmente un errore legislativo, in quanto le devianze criminali di soggetti di queste due minoranze vanno colpite attraverso il principio della responsabilità individuale, impensabile giuridicamente colpire come reato di gruppo l’essere zingari o migranti.
Un esempio concreto sul punto.

Tutti ricordano l’omicidio, nel bresciano, della giovane Hinna, uccisa e fatta a pezzi perché aveva rifiutato di sposare uno zio in Pakistan, preferendogli un giovanotto del luogo. Accettando di registrare la differenza etnica come produttrice di norma giuridica repressiva, lo stato italiano oggi dovrebbe applicare agli assassini di Hinna la legislazione islamica, ergo consegnarli al diritto pakistano, che li manderebbe assolti.

Non solo lo stato italiano, ogni stato per esistere deve stabilire, entro i propri confini, una rigorosa eguaglianza di tutti davanti alle proprie leggi, e questo viene meno con il reato di immigrazione clandestina, ovvero la trasformazione di un comportamento dettato dalla disperazione in devianza criminale. Produrre la norma giuridica che stabilisce l’immigrazione cosiddetta clandestina comportamento criminale è introdurre una pericolosa dilatazione arbitraria del crimine, un cui primo effetto sarà di rafforzare il potere, ergo il ruolo nefasto dei cosiddetti caporali nell’organizzazione del lavoro dei migranti clandestini, facendo in potenza di ogni clandestino un manovale della nostra grande criminalità, raforzandola pericolosamente. Questo è il vero pericolo per il vivere civile che il reato di immigrazione clandestina innesca, in termini di civiltà giuridica da collocare nella stessa classe delle leggi contro la lesa maestà o la divinazione, in quanto orineta verso la vasta area del nostro grande crimine gente che sta semplicemente evandendo da inferni ai quali molto spesso l’Occidente ha contribuito.

Il problema non è l’intoppo che il reato di immigrazione clandestina crea nel traffico di badanti e altra mano d’opera. Un tal modo di ragionare è perfin più rivoltante del puro sciovinismo razzista, in quanto realizza questo razzismo aperto in forma implicita devastante; a dirla con una aggettivo molto intellettuale: forma manzoniana. Dun Lisander Manzoni, infatti, oltre che di corrotti costumi, accusava Cristina Trivulzio di alfabetizzare e insegnare delle professioni artigiane ai braccianti del suo feudo di Locate, perché se tutti imparano una professione, chi farà più il domestico?

Il Manzoni separava il servidorame agricolo e lo isolava, collocandolo in una sorta di eternità metastorica, dove nel suo ruolo di conte borghese bigotto si realizzava una sorta di eternità intangibile garantita da una trascendenza. Questo stesso bigottismo saccente e presuntuoso, anche se in altre forme: noi siamo i migliori, ha condotto al disastro l’attuale classe dirigente moralmente povera e intellettualmente comica del centrosinistra, dove perfin un Tonino Di Pietro svetta.

E c’è questa stessa logica in chi pensa un mondo dove i vecchi italiani hanno diritto a badanti rumene, filippine, ispanico-americane, le nostre fabbriche a braccia africane e slave: alla fine di tutto questo nostro mondo italiano, suo vero tocco di stile, ci sono poi i film tratti dai romanzi dei Veltroni, questi sì veri reati di immigrazione clandestina nei reami della cultura, ma questi non perseguiti bensì celebrati dalla repressione dei critici letterari.
La vita è un gioco, ma che val la pena d’essere giocato solo dove e quando, se non le opportunità, almeno le regole sono uguali per tutti, altrimenti diventa lerciamente manzoniana: riduce le anime oneste quali la Trivulzio a puttane; peggio a pubbliche minacce, secondo una logica rovesciata della clandestinità.

Nella gente la paura dei Rom non sorge dal nulla. Essa, a differenza degli apparati repressivi della prima repubblica, aveva già metabolizzato, negli anni ‘970-80 una massiccia esperienza negativa circa gli zingari nostrani, ai quali, dalla fine del comunismo, si sono aggiunti, dall’area danubiana, nuovi gruppi di questa minoranza etnica, che in Europa si aggirerebbe oggi sui dieci milioni. In Italia sono circa 180mila, mentre in Francia sono 400mila, eppure soltanto in Italia gli zingari-rom sono diventati un problema drammatico, ma per la totale assenza di ogni intervento di politica sociale, coniugata con la sostanziale tolleranza degli apparati repressivi, indifferenti alla microcriminalità.

L’inefficienza del nostro sistema repressivo è parte, dettaglio esplicativo della generale inefficienza del sistema nazione, con al centro l’inefficenza del ceto politico. Questo ha creato in Italia il trauma sociale Rom, ma la nuova ondata di zingari balcanici, i cosiddetti Rom, ha soltanto rafforzato una deriva dei nostri zingari, che in ragione delle congiunte assenza di politiche di integrazione e inefficienza repressiva hanno organizzato e sfruttato spesso i nuovi venuti, facendo un passo in progresso nel mondo criminale. Un dettaglio a chiarire.

In Italia il più clamoroso furto di oggetti d’arte degli ultimi anni è stato il saccheggio di mobili della palazzina sabauda di caccia di Stupinigi: cassettoni, stipi, sedie per qualche miliardo di euro. Questi mobili furono caricati su due camion e portati via mentre i guardiani e l’impianto di videosorveglianza latitavano. Per alcuni anni la polizia le provò tutte, e soprattutto le assicurazioni: che dovevano risarcire una fortuna, ma ecco che le forze di sicurezza trovarono il tesoro di mobili in un prato. Un giudice volle vederci chiaro in un furto che sembrava opera della ‘ndrangheta, o almeno in questa direzione i confidenti e la stessa polizia cercarono di indirizzare le indagini del magistrato, che invece accertò che il furto era stato opera di quegli stessi che avevano fatto da informatori della polizia e permesso di recuperare la refurtiva. Loro i ladri, decisi a patteggiare un premio attraverso la polizia con le assicurazioni per consegnare la merce: erano zingari piemontesi.

Nella vicenda dei mobili rubati di Stupinigi emerge tutta la fragilità del sistema repressivo italiano, fino all’uso spregiudicato che una parte della criminalità fa dell’altra: nel caso specifico, la banda di zingari della criminalità calabrese. Ma prima di diventare un problema politico, gli zingari sono stati a lungo, nelle aree metropolitane, e non meno nelle aree turistiche delle seconde case, un problema criminale, del quale la macchina repressiva italiana si è fatta ben poco carico e per questo diventato: asceso a problema politico in ragione della sua incidenza sociale. E nulla lo descrive quanto una macroscopica trasformazione strutturale del sistema di difesa delle nostre abitazioni private.

Ancora alla fine degli anni ‘970 in tutte le città italiane i portoni dei condomini erano aperti e le porte avevano serrature normali. Poi, e molto prima che dalla Romania arrivassero i ‘Rom’, in breve tempo, al volgere del decennio degli anni ‘980 tutti i portoni delle case sono stati chiusi, mentre a Torino due artigiani hanno creato forse le sole due rampanti, tra le declinanti industrie metalmeccaniche della città: due fabbriche di serrature e porte blindate.

Dagli anni ‘980, da prima dunque che gli zingari diventassero ‘Rom’, in Italia non si costruiscono o restaurano più appartementi senza porta blindata e serratura di sicurezza con chiavi ad esplusione, per vanificare lo scasso con il trapano. Questa trasformazione urbana: trasformazione effetto di una clamorosa inefficienza del sistema repressivo, ha posto fine a una vera età dell’oro degli zingari nostrani, quando giovani zingari con palanchino e trapano potevano svaligiare anche dieci alloggi in un giorno. Antifurti, alloggi blindati, videocitofoni sono stati la reazione dei cittadini, ovvero l’autodifesa con mezzi leciti, che ha inevitabilmente spinto gli zingari delinquenti a una illegalità violenta, che in un paese civile dovrebbe essere un problema di polizia, ma che in Italia è diventato un problema politico in ragione delle lungaggini processuali, dell’invasiva pressione sulle forze dell’ordine della grande criminalità organizzata, dell’assoluta assenza di un vero governo politico della realtà sociale. Da qui poi, negli anni ‘990 la rivolta contro i partiti tradizionali, la loro liquidazione elettorale e il forte discredito complessivo della classe politica che ha gestito l’autunno delle Prima Repubblica, tra l’altro caratterizzata dall’industria del rapimento, che quanto nulla descrive la perdita del controllo sul territorio da parte dello stato.

Un esempio: alcuni anni or sono, quando non solo a Torino gli appartamenti, ma fin nelle Langhe e nel Monferrato si blindavano i cascinali, trovandomi in Aspromonte per una gita con una persona del posto, scopersi che tutte le case disabitate erano aperte, ovviamente per dare rifugio a ‘ndranghetari di passaggio, ma in queste case nessuno si sarebbe azzardato a rubare, e però non per l’azione repressiva dello stato, ma della grande criminalità organizzata: ecco come finì la prima repubblica, ecco il vero nemico della seconda.
Questo il quadro giudiziario-repressivo della nazione, a oggi ben poco mutato, introdurre il reato di immigrazione clandestina è introdurre nella nostra già troppo manzonisticamente conformista cultura, un elemento di trasformazione negativa della più antica e sacra delle leggi umane; la legge che fonda tutte le civiltà, legge che Ulisse invoca sulla soglia del Ciclope: la legge dell’ospitalità.
Chi emigra sulle carrette del mare, affrontando un cammino che per portarlo in Europa a volte si protrae per tre-quattro anni, è incalzato da quella stessa disperazione che portava i nostri emigranti ad attraversare l’Atlantico, o cinesi e i giapponesi ad attraversare l’oceano Pacifico.

Questi disperati inseguono una speranza come quelli, e la nostra civiltà occidentale, e soprattutto l’Italia sia cristiana cattolica di Cristina Trivulzio di Belgioioso, che quella laica dei Cavour e dei Gobetti, non può trasformare la loro fuga in crimine. Che la si pensi in Cristo o in Darwin, l’unità del vivente è oggi il fondamento della civiltà globale in costruzione, dove la globalità del mercato deve procedere e svolgersi soltanto come valore subalterno, regolato e funzionale. E la regolamentazione dei flussi di migrazione al filtro di una legge criminale: al suo crebbio e del sano egoismo di chi vuole solo il necessario numero di badanti e manovali da fonderia o di panifici, segna d’una deriva degenerativa la nostra società.

Trasformando per azione giuridica politica in devianza criminogena la fuga dei migranti verso l’Occidente si produce un evento legislativo che, come ieri il delitto di divinazione trasformò il mondo della dissoluzione dell’imperom romano nell’uovo del drago inquisitoriale, trasforma oggi l’Occidente nella caverna del Ciclope, e gli europei in un popolo di monocoli, in quanto la criminalizzazione del diverso etnicamente reintroduce un corrosivo principio giuridico capace, come già il delitto di lesa maestà, o il crimine di divinazione, di portarci per gradi verso forme di diritto inquisitoriale, la cui proiezione nell’individuale si realizza in forme mentis come quella del cattolicissimo Alessandro Manzoni.

La descrizione di quanto aberrante questa forma mentis è tutta incisa nella sua rappresentazione fantastica della forma mentis deviante che il Manzoni si dava della non meno cattolica principessa di Belgioioso, dettaglio entro le manzoniste visioni del mondo circa le donne e il contadiname, dov’ è in potenza molto più che il presagio della forma mentis che poi diverrà, per la mediazione mussoliniana, la forma metis fascista della nazione italiana. In quali forme menti future di definirà la deriva degenerativa della nostra cultura occidentale sotto la spinta dal reato di immigrazione clandestina lo chiarirà il sistema di relazioni perverse che questa legge inevitabilmente produrrà, ma verso l’esito finale certo di una nuova forma di schiavitù: come appunto quella che il Manzoni riteneva assolutamente necessaria al suo vivere civile, e oggi molti dei figli dell’occidente svelano quando comprano per i loro vecchi badanti dal terzo mondo, e operai. Si può anche volere tutto questo, ma si abbia ben chiaro verso quale deriva sventurata apre.

Piero Flecchia

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