MARCO GAL

Lutto nel mondo della cultura valdostana. Da tempo sofferente, è morto il 22 gennaio Marco Gal, 75 anni, poeta e scrittore valdostano, presidente onorario dell’associazione artistico-culturale ‘Circolo del Cardo’.

Se il segreto della grande poesia è riuscire a trovare il tono giusto di parlare a se stesso, non c’è modo migliore per conoscere un poeta che frugare tra i suoi versi. “Su me stesso” è, per esempio, il titolo di una delle poesie più personali di Marco Gal. In essa il poeta, nato a Gressan nel 1940, ha scritto: “non sono un giocoliere di parole, ho vissuto il dolore. Cerco la verità con la passione”.
Parole di mezzo secolo fa in cui c’era già, in embrione, la sua poetica “a l’ençon (sul limite)”, che lo ha portato a con­templare dai margini una vita dalla quale si è sentito dolorosamente escluso (“la vita è di chi non la pensa, di chi con incoscienza la divora”), interrogandosi sul disagio dell’essere al mondo.

Dopo una produzione giovanile in italiano, era stata la poesia in patois di Eugenia Martinet a spingerlo, negli anni Ottanta, a scrivere nella “lenva di san (lingua del sangue)”, scoprendo “che il suo utilizzo dava un altro suono ed un altro senso, più vero e diretto, all’approccio con le cose”. Nel 1991 la raccolta “Ëcolie – Acque perdute” aprì il nuovo corso che produsse anche “A l’ençon (sul limite)”(1998), “Messaille – Libere acque della sera” (2002) e “A l’aberdjà” (2007). In queste opere l’uso del patois si dimostrò lontano anni luce dai quadretti di “petchiou mondo conten (piccolo mondo contento)” di Jean Baptiste Cerlogne, il fondatore della letteratura patoisante.

Gal ha poi scritto anche libri di storia, curato antologie di letteratura e di poesia in patois e fatto parte di circoli poetici, ma è soprattutto in queste poesie che è venuta fuori la sua “intelligenza del cuore salvata dal deserto di ogni giorno”. E’ lì che si vede quanto, nonostante sentisse “la serpe del tempo (la bouye di ten)” sfuggirgli dalle mani, abbia continuato ad avere voglia di sragionare e sognare. “Perché la vita – scrisse – è sogno o, comunque, è molto simile al sogno. E ricordarsi di essere vivi, in fondo, è come ricordarsi di un sogno”.

“Il berettino blu” di Paola Lazzarini
(Vercelli, GALLO Edizioni, 2012)

La vita è nella vita, nella madre radiosa come una rosa. Certo Alessandro avrà di sé preistoria e storia, grazie ai versi di tenerezza della nonna, che con la magia della sua poesia percorre ogni attimo del suo venire ed essere al mondo e restarci in un nido di affetti tessuti dell’amore di ogni giorno. Questo mistero venuto dalle stelle ci pone davanti alla sacralità dell’incarnazione al suo mistero e al suo sgomento, che ci pone il dilemma di chi siamo e perché siamo. Sembra giusto gioire del miracolo dell’arrivo di questo extraterrestre che si incarna assumendo tramite noi i nostri geni, la nostra natura per una metamorfosi, forse per migrare, con la morte, ad altra vita percorrendo la misteriosa strada dell’esistenza. E, intanto, eccolo qui, sporco del sangue con cui si è incarnato, subito lavato, subito rivestito di una tutina meravigliosa immerso nella gioia, tenendo nel piccolo pugno… il dono dell’amore. Sarà l’amore per sempre, quello della madre, dell’imprinting dell’impatto col pianeta, un impatto d’amore infonde sicurezza, la sicurezza di tutti quei visi strani che ti scrutano e con cui intesserà un discorso d’amore/odio, di confronto, come con l’ambiente.

Ma Alessandro è fortunato, non solo perché gli hanno dato un nume illustre, ma specialmente perché la sua nonna, una delle sue radici biologiche, è un poeta; ma, lui, non lo sa. Lo saprà quando capirà. E allora capirà che il poeta è un essere strano, di questo e di un altro mondo, che gioca con le parole e che scava nei sentimenti, perché sente una sua musica da perseguire e cerca un senso alla vita sua e degli altri e perché anche si annoia un po’. Dice: la tua vita è innocenza… anche a te sarà dato conoscere / la nostra tara di piombo e, intanto continua a vezzeggiarti, ad adularti, come signore del mondo, piccolo delfino e ti canta per consolarti tenere ninnananne africane, misurando per te l’infinito. Perché un poeta anche questo può. E la prima neve vi fa stupire entrambi del mistero bianco / che dilegua in nulla / al suono della tua / fresca risata.

Poi per te, lei, si fa clown e compone filastrocche strampalate con rime persino baciate. Così la nonna diventa bambina e ripercorre la sua infanzia con Alessandro, insieme. Come una pulce salterina salta tutta la mattina, da una poesia ad un pannolino, da una padella ad una storiella, …salta su, salta giù / tu la vedi e non c’è più… Ti porta nella natura e nella vita insieme al gatto ed al leprotto e al contadino, che ama la terra e non fa la guerra. E tutto si veste di poesia, di quella dolce, sincera, nativa. La segui come un filo interiore che ti conduce dove vorresti sempre essere, nell’innocenza consapevole.
Apparizione

Si può anche navigare su questa apparizione
nel cervello pieno di noia:
con la primavera segreta all’angolo della strada
e la giovinezza che sorge e cresce
come un sorriso dentro
la luce di un certo sguardo raccogliere
tra le mani chiuse
come un male risplendente.

Marco Gal

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