“L’arco della poesia tra soggettività esplicata per l’eros
della persona
e soggettività dissolta nell’eros dell’anima”

Una riflessione in margine all’opera poetica di Marcel Proust
e a una silloge di John Taylor

di Piero Flecchia

…..In una società sopraffatta dalla ridondanza dell’informazione, in ragione della sua forma estetica raffinata e della necessità di contenuti complessamente elaborati, la poesia trova sempre meno spazi nel mondo editoriale, anche perché la legge economica che recita la moneta cattiva scaccia la moneta buona non è meno vera in ambito estetico. Ha quindi un suo valore prezioso la bella collana di testi di poesia che da alcuni anni Roberto Bertoldo, – straordinario poligrafo, non solo originale pensatore in proprio, come documenta una alta produzione a tutto spettro tra la metafisica e la narrativa, intorno ad alcune felici sillogi poetiche – ha affiancato alla rivista letteraria Hebenon da lui fondata e diretta, facendone, tra gli anni ’90 del secolo scorso e gli inizi di questo, luogo di importanti approfondimenti conoscitivi in ambito estetico letterario.

La collana di poesia della rivista Hebenon, oggi diffusa dall’editore Mimesis, ha il raro pregio di offrire spazio, accanto a nuovi testi in lingua italiana, a puntuali antologie e sillogi che illuminano lo status della scrittura poetica oltre i confini nazionali. E questa attenta opera di approfondimento estetico è puntualmente riconfermata dai due ultimi testi della collana: M. Proust, Poesie d’amore, traduz. R. Bertoldo pp 90 ed. Mimesis Hebenon, € 10; J. Taylor, L’oscuro splendore, traduz. M. Morello, pp 90 ed. Mimesis Hebenon, € 10; le cui scritture si dislocano significativamente, assunta una metaforica rappresentazione della scrittura poetica come arco, ai due estremi. E che proprio per questo possono scagliare nel più alto cielo della commozione estetica il lettore che affronti una lettura parallela dei due testi, idealmente collocandosi come freccia al centro delle tensioni delle e tra le due scritture.

Introdotta da una illuminante prefazione del traduttore: “Proust, l’amore e la poesia”, la raccolta delle poesie di Marcel Proust, tutte composte tra adolescenza e prima gioventù, ha il raro pregio di illuminare, come forse nessun saggio critico potrebbe, le pulsioni profonde originarie che sono poi approdate in quel sommo capolavoro che è la ‘Recherche’. Questa silloge poetica è infatti l’elemento che permette di risalire alla e individuare la genesi della concretezza poetica della ‘Recherche’. Una concretezza che è già agente nella scrittura delle poesie proustiane, la cui centrale ragion d’essere: di tutte, è la sottile, penetrante ebbrezza che per l’occhio del soggetto che osserva, abbandonandosi alle pulsioni istintuali profonde, suscita l’incontro con il corpo altro: il tu sociologico come viene esplicandosi e per la sua propria nuda fisicità anatomica e per il combinarsi e illuminarsi cinetico della fisicità nell’intreccio di dinamismi mimico e fisiognomico con la parola.

L’emozione che il soggetto osservante raccoglie e deliba per la percezione dei suoi sensi ha però sempre un momento di dolore, anche nel più pieno abbandono appagante, in ragione della coscienza della distanza incolmabile: e anche perché solo imperfettamente esplicabile davanti alla coscienza – da qui anche poi la ragione profonda del fascino della silenziosa fondativa comunicazione pittorica – e quindi linguisticamente imperfettamente dicibile, che separa la soggettività osservante dalla soggettività osservata. Una separazione dolorosa accentuata dalla coscienza del tragico irrompere della dilacerazione del tempo tra l’attimo dell’eros del soggetto e la sua dissoluzione inevitabile nella coscienza di quel pieno attimo al trascorrere del tempo. Una complessa dinamicità sentimentale che ben si compendia ed esemplifica in questa strofa proustiana: “Lasciate piangere il mio cuore tra le vostre mani refrattarie, / il cielo scolorito fa appassire lentamente / il fiore dei vostri occhi chiari che quietamente / abbassa sul mio cuore le sue corolle affascinate.” (op. cit. pg. 43)

Cuore ferito dalla vita, Marcel non aveva, per permanere in quel moto di ebbrezza originaria propria dell’adolescente che si ubriaca di mondo, (in metafora: il fanciullino pascoliano) che due alternative: nel mondo concreto degli adulti la pedofilia, aut nel mondo letterario la sciamanica evocazione poetica di quel tempo ‘perduto’, eppure solo tempo vivo: vero, come appunto per l’evocazione di una scrittura magicamente alchemica Marcel ha saputo realizzare poi con la Recherche, il cui nucleo esplicativo esplode illuminante nelle sue poesie d’amore dell’adolescenza e della prima gioventù.

…..E il dolore indicibile della perdita della concretezza visiva originaria: della archetipica emozione erotica per la mediazione e la coscienza di una soggettività naturale esterna, permea e caratterizza anche la silloge poetica di John Taylor, ‘L’oscuro splendore’. È solo a partire dall’archetipo dell’allontanamento e quindi dall’estenuazione progressiva, fino alla coscienza del decadimento: fino allo smarrimento nel ricordo della visione originaria, che si comprende il senso che per la scrittura il poeta John Taylor persegue. Una scrittura che si svolge come difesa perdente dell’originario senso archetipico, dalla coscienza che l’archetipo metafisico può solo essere intravisto, in ragione delle brume oscuranti della vita, intorno a questa coscienza della forma della conoscenza orchestrando la stessa forma del discorso: la selezione del lessico e la sua riorganizzazione retorico sintattica. Un lessico teso a una evocazione che ricorda le suggestioni degli spogliati, essenzializzati paesaggi della pittura orientale.

La poesia di Taylor procede infatti lungo un processo creativo opposto: antitetico, rispetto al percorso proustiano, a discendere dalla coscienza che la separazione dalla visione originaria non solo, come in Proust sia incolmabile, ma anche indicibile. Da qui, la coscienza della frattura assume la forma d’una nostalgia evocativa costruita circuendo la visione originaria per l’uso della parola in forma di allusione musicale, rintocco nell’anima che affiora nel discorso solo come indicibile perdita. Ergo perdita dicibile solo per allusioni, come si coglie fin dall’incipit della raccolta: “avendo lasciato indietro / così tanto / tranne la tua prima e ultima / debolezza / persistente / come un cuore dimenticato …” (op. cit. pg. 7). O ancora: “ … / forse c’era / un disegno nella tua vita / ma queste tracce che stai fissando / non possono essere riorganizzate / in un cammino” (op. cit pg. 41).

Se in Proust l’opposizione tra il soggetto che osserva l’altro e si esplica attraverso l’osservazione dell’altro permane chiara, nella poesia di Taylor questa linea è stata dissolta, per cui il tu è ancora e sempre l’io che si specchia nella coscienza di essere a un tempo l’osservatore e l’osservato, verso quell’inghiottimento della vita nel soggetto trascendente che all’origine fu operato dalla metafisica eleatica, e che oggi è risalito alla quotidianità, in ragione di quella cultura dell’indistinto che caratterizza l’ente umano contemporaneo, come si decifra nella metafora della pittura informale. E una cui possibile rarefatta nebbiosa rappresentazione è appunto quella del John Taylor de ‘L’oscuro splendore’, resa in italiano da Marco Morello; che nel tradurre dall’americano il testo poetico ha significativamente attinto al proprio ambito di poesia: esercitata per la mediazione stilistica di quell’esotica e suggestiva forma di scrittura che è l’haiku giapponese, il cui anelito alla sintesi caratterizza appunto ed è la forza della traduzione italiana della silloge poetica di John Taylor.

P. F.

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John Taylor – L’oscuro splendore
Mimesis Edizioni, collana Hebenon. Traduzione di Marco Morello

 

Secondo libro di poesie, questo di John Taylor, tradotto in italiano dopo” Gli Arazzi dell’Apocalisse”, a parte il libro di prose brevi “Se cade la notte” (Joker Edizioni), tutti nella versione di Marco Morello.
Bisogna ricordare brevemente, per chi non lo conoscesse, che John pur essendo nato negli States è uno scrittore molto europeo, non solo perché vive in Francia dal 1977 ma soprattutto perché ha con la cultura europea un rapporto strettissimo e profondo, che non è azzardato definire di vero amore. Traduttore di autori francesi o francofoni come Jaccottet, Dupin, Perros, Jourdan, Calaferte e altri, Taylor ha anche un forte interesse per la poesia italiana, che negli ultimi anni si è concretizzato in due eccellenti volumi antologici in inglese dedicati a Alfredo de Palchi (Paradigm: New and selected poems, 2013) e Lorenzo Calogero (An Orchid shining in the Hand: Selected poems 1932-1960, 2015), entrambi Chelsea Editions. Da ricordare anche nella bibliografia di Taylor, sempre in riferimento al suo legame con la cultura europea, i suoi importanti lavori Paths to Contemporary French Literature, in tre volumi, e “Into the Heart of European Poetry”, tutti pubblicati da Transaction, oltre al più recente “A Little Tour through European Poetry” (2015).

Dunque come si vede John è davvero, sotto molti aspetti, uno scrittore europeo. E non solo per i suoi studi, ovviamente, o perché vive in Europa da lungo tempo, ma anche perchè quella cultura e quelle frequentazioni letterarie le ha accolte, quegli stimoli li ha fatti permeare nella sua scrittura creativa. Questa raccolta ne è una buona testimonianza, poiché mi pare vi si possa rilevare per prima cosa, almeno ad una prima lettura, una distanza dalla poesia contemporanea americana (per quanto essa sia una categoria troppo generica) non minore di quella che c’è tra le due sponde dell’Atlantico. Naturalmente questa affermazione va presa con una certa cautela, poiché John, al di là delle suggestioni culturali, elabora in questi versi una sua personale idea di poesia, una sua visione delle cose che certo trasmettono nei versi anche le sue origini (“frammenti di patria sbiadita”) e i suoi studi, ma indubbiamente accoglie in pieno (poiché la ama) la lezione soprattutto dei suoi prediletti autori francesi. Una influenza che è sostanzialmente lirica e forse, sullo sfondo, simbolista, orientata a gettare sul suo personale mondo uno sguardo attento ma sufficientemente disilluso, che non guarda tanto gli “oggetti” quanto l’atmosfera, anche interiore, nella quale essi e l’autore sono immersi e si trovano ad esistere. Manca qui, tornando a quanto appena detto, quella “concretezza” anche un po’ pragmatica che si ritrova in tanta poesia americana, quel confronto dell’uomo con la natura e l’ambiente, sia esso quello dei vasti spazi o quello urbano delle strade di New York (e tuttavia nelle “cose” – things – che qui troviamo c’è un pizzico di imagismo statunitense).

L‘uomo europeo, e con lui Taylor, guarda soprattutto dentro sé stesso, anche per tradizione filosofica e, per tradizione letteraria, almeno fin da Baudelaire e dai suoi eredi. In Taylor ci sono certo queste suggestioni e potremmo ritrovare anche molta della leggerezza malinconica e venata di ombre di Paul Verlaine, trasfusa in un linguaggio trasparente e aereo (talvolta un “verso scarno”, come lo chiama Marco Morello) che ben trasmette inquietudini e interrogativi sospesi, alla ricerca di qualcosa che penetri l’ “oscuro splendore”. In questo ossimoro si cela il mistero stesso dell’esistenza di ciascuno, sempre esposta ad un imperscrutabile destino o al caso, al calare di una notte anche in pieno giorno, di una “luce striata di nero”, che tuttavia, portando appunto in sé un arcano, non può che essere splendida per la mente del’uomo, e ineludibile per l’artista. Una dimensione crepuscolare (ma non nel senso letterario del termine, o non solo) in cui è presente la coscienza “che questo crepuscolo sarà oscurità / alla fine // un’assenza di luce // non questa mezza luce consolante / sopra la neve”.

C‘è spesso nella poesia di John uno sguardo che tenta di penetrare l’incerto, trapassare una foschia reale o metaforica, andare oltre una marea che svela e nasconde fondali o scogli anch’essi simbolici, giungere fino a decifrare “iscrizioni / sul fondo del lago deserto” (Il fondo del lago è la sezione principale del libro) che ha sommerso “qualcosa che era prezioso // i suoi bordi incerti smussati / dall’acqua”.

Come in un cerchio creativo, quell’ “incerto” nebuloso (che è in ultima istanza ricerca di senso) che John cerca di diradare con i suoi versi, è lui stesso che lo tratteggia per mezzo di una scelta appropriata di termini “blurred”, sfumati, deittici “vaghi” (qualcosa, talvolta, forse, tutto questo, come se solo allora) o interi versi (“eppure le onde // sono questo / e quello // e nessuno dei due // e uniche // anche se / vengono / e vanno”; “o semplice ombra // o miraggio // cosa si trova oltre // ma è difficile da guardare”) che concorrono a dipingere questo “incerto” (vago, indefinito) e che, soprattutto a un lettore italiano, richiamano inevitabilmente certi stilemi, questi sì, del decadentismo, che tuttavia devono essere ricompresi in una matrice simbolista a cui tutta la poesia francese e europea attinge.

C‘è da dire che nella traduzione italiana questo senso di indeterminatezza viene in qualche minima misura accentuato, sia per una naturale scelta di termini legati alla cultura di chi traduce, sia – per fare un piccolissimo esempio – per l’eliminazione di elementi determinativi come gli articoli o i pronomi soggetto, in inglese sempre presenti. Ma, al di là di queste marginali considerazioni, la cosa importante è che il verso tayloriano derivante da tutto ciò è assai suggestivo, limpido, efficace nell’espressione e tutt’altro che incerto sui suoi obbiettivi, anzi perfettamente consapevole riguardo a ciò che intende dire a chi legge. Qualità che da un certo punto di vista risultano ancora più evidenti nei testi in prosa poetica, come John aveva già dimostrato ne “Gli Arazzi dell’Apocalisse” dove erano una gran parte, o nei frammenti (qui presenti nelle sezioni Il boschetto e Il recinto), brevi aforistici lampi illuminanti nei quali con grande piacere ho ritrovato echi e suggestioni di Pierre-Albert Jourdan, un grande autore a cui Taylor ha dedicato molto del suo lavoro ( The Straw Sandals: Selected Prose and Poetry – Chelsea Editions, 2011). Testi nei quali, potremmo dire per concludere, John trova una intensa rarefazione.

G. Cerrai
Dal sito “Imperfetta ellisse” (http://ellisse.altervista.org) del 9/4/2018

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