Marco Marangoni e “La passione degli anni”
Stampa2009, Azzate (Va), 2018
La nuova raccolta di Marco Marangoni è preceduta da una breve nota di Maurizio Cucchi che scrive “La delicatezza di una musica decisamente live e raffinata, di una riflessione pacata, condotta con sottigliezza per immagini… una serie molto coerente di testi brevi o brevissimi con efficaci soste o passaggi in prosa. Un libro, dunque, di sicura compiutezza ed eleganza.”…. e continua “Marangoni porta il suo sguardo sulla natura circostante, la confronta con l’atto dello scrivere… oscillando utilmente tra l’io e la realtà esterna”. Indubbiamente qui si coglie il senso generale del libro. Marangoni è capace di restituirci una cosa preziosa e sorprendente: egli sa cogliere l’atto poetico nel mentre che si fa, direbbe Raboni. Ovvero, la sua poesia si colloca qui in una zona di transito, in uno spazio segreto che è il pensiero del poeta che “pensa” la poesia. I testi della raccolta, i più riusciti, e sono la maggior parte, colgono la poesia nella sospensione del suo apparire, nello stretto varco che il poeta percorre, condotto per mano dai suoi stessi pensieri, per entrare nello spazio poesia stessa. Non è una “poesia di pensiero”, una poesia filosofica quella di Marangoni, è una poesia “nel pensiero” e nelle cose, che nasce nel gesto della riflessione, della sorpresa che il poeta vive quando si sofferma a leggere, sorpreso, ma lucido, se stesso e la realtà che lo circonda.
Così la raccolta diventa una sorta di metariflessione poetica sull’atto dello scrivere, sulla generazione della poesia come sguardo sul mondo, come spazio in cui costruire una difesa al degrado della lingua stessa. E poco importa che questa riflessione si innervi su alcune esperienze personali, su elementi che si sostengono sulle gambe della memoria o della lettura di eventi del presente. Il nocciolo della questione è la lingua, è la capacità di tenere fermo il punto su senso del linguaggio e sulla funzione dello scrivere poesia. Marangoni conduce qui, senza clamori né furori, una bella battaglia di resistenza che non scade mai nell’autoreferenzialità compiaciuta, al contrario apre a dimensioni di condivisione, non solo letteraria, ma etica e gnoseologica che vanno prese sul serio.
Il libro si apre con la sezione “Ad ognuno la sua storia” e la prima poesia è già dentro la materia viva del tema dominante: “…mi dico/che uno eredita i sogni/e le ansie/-noi siamo i tanti che corrono,/e per la pietà avuta/avremo la giusta misura/del valore/ ad ognuno la sua storia, che sola dà la morte, e dà a noi/una gloria”. Il soggetto poetico personale si intreccia con il destino stesso della poesia come forma della cultura umana, così in pochi precisi e lucidi versi. Segue una prosa che chiarisce ulteriormente: “Quanti labirinti ci sono,.. le tante voce. La comunicazione che studio (..) che non mi accontento.” E ancora nella successiva “E’ la resistenza al disordine…. / Ma le foglie hanno mantenuto/ la posizione/… e la poetica non è arresa”. Marangoni non gira attorno alle questione, va al centro. E non cerca di illudere il lettore con poemismi poematici, ma usa la chiarezza sospesa della poesia vera che sa cogliere il lato in ombra della vita e delle cose. Il linguaggio è costruito sulla riflessione: è come se il poeta ci comunicasse i suoi pensieri, è una poesia che viaggia “sovra-pensiero” come se la poesia non si limitasse a descrivere il tempo vissuto, ma fossa essa stessa quel vissuto. “E’ che la bellezza…non si vede,/ non si scrive”.. “ma tu che sei la forma, tu che sei/l’evento” sono alcuni dei segnali che il poeta lancia su questa pista fatta di passaggi tra riflessione sulla poesia ed esperienza umana: “Non verrà mai un altro tempo, dicevi,/se non da qui, dove c’è un termine come la stazione alla fine della corsa/ e i tramonti che abbiamo visto, la cosa/ effimera e meravigliosa..”.
Questo tema fondamentale non si placa anche se pare emergere un altro elemento della sensibilità poetica di Marangoni, quello del riferimento alla memoria ed anche alla sua storia personale di insegnante che appunto ha fatto della lingua il suo mestiere: “I fiori sono lì davanti/come guerrieri/alle parte del vento, /nella tempesta…” “l’orologio si è fermato/nel centro della scuola…e si sbiancano per il silenzio/ la fuga misteriosa della voce/ e dei secondi”… “siamo solo noi/ come persi, vulnerabili/perché il talismano non si trova/ e non sapevamo di averlo,/siamo cresciuti”; “ e sono rimasto non so quanto (…) quella sera,/in un mondo che esisteva lì vicino/ e che non c’era”. Marangoni parla a se stesso, ma parla a tutti noi: “Ragazzo, altrove da qui/ si scioglie un canto, ma da qui/dove corrono i numeri dei giorni, /e presso la polvere/ sarà il saldo…”.
“Un ponte istoriato” è la seconda sezione dove troviamo ancora evidenti intrecci tra la riflessione sulla poesia, la scrittura e propria esperienza di vita. Perché quel ponte siamo noi speso presi da “troppa realtà / e non poter apprezzare la polvere” che nel poeta può trasformarsi in “aurora boreale” qualcosa di surreale ed effimero, ma di fondamentale. E qui Marangoni fa come un elogio della materialità dello scrivere, del gesto fisico della scrittura, del rapporto privilegiato, ma scomodo che il poeta ha con la carta, con la penna, con i propri sensi e con la difficoltà profonda del senso di questo sforzo. Servirà a qualcosa scrivere “del lucore – che aveva il giorno/ d’inverno” sembra chiedersi il poeta che resta “in bilico tra la morte/e il mondo, tra il fiore/ e la carta”. Che, tuttavia, non può fare a meno di scrivere: “E’ questione di un po’ di chiaro, /come se il foglio in cui scrivo/ avesse dall’alto e intorno bisogno…di che’/domando, mentre cerco e rispondo:/d’amore, non so/d’altro”.
In questa “battaglia cruenta” il poeta dice “io non sono che questo,/ lo sguardo alle vie illuminate/ nel caos ordinato della sera” che cerca di cogliere relazioni nascoste tra le cose “tra le lancette e il lampo/che mi innamora/ e feconda la mente…”. Questa vocazione del poeta di restare nel mezzo delle cose, di cogliere il movimento stesso della realtà è poi dichiarato: “Sento che c’è “più spazio” e vorrei farmi intimo, alle cose, con un taglio”.
Nella terza sezione, breve, ma non meno importante, il paesaggio ha una suo spazio, ma sempre collegato alla ricerca principale del senso del poetare. “Paesi e spaesamenti” si apre con una bella prosa poetica: “nel moto del linguaggio, del corpo quando cammini, del respiro… a volte si fa una curva, si devia e si prende tempo. Ci si estranea… attenti ad un ri-chiamo, ascoltato come se si andasse dietro a un sogno, a una rêverie che non è esattamente l’opposto dell’esser desti, ma un cambiare stato credo…”. Il poeta sta dentro questo stato diverso, a mezz’aria, ma proprio per questo può dire che è nella scrittura che cerca “un dialogo chiarificatore/un sentiero nel caos della storia/ di tutti, una vita…migliore”. Come accennato, il linguaggio di Marangoni è sempre preciso, chiaro, mai banale, raffinato e lucido. Capace di rendere le sospensioni del suo incedere, di coinvolgere l’attenzione senza abusare mai della passione che, sempre, agita, queste pagine. La stessa struttura spaziale dei testi, l’uso talvolta di parentesi con punti di sospensione inclusi, sembrano voler rappresentare proprio questo sforzo di riflessione che spinge la mano del poeta a esporre i suoi pensieri.
Chiude il libro la sezione che dà il titolo alla raccolta. “La passione degli anni” ribadisce con forza l’idea che il poeta trova il suo destino appunto nella scrittura “è la tua figura redenta/dalla pazienza, dalla fatica…/la tua figura, e in essa la vita”. Può sembrare strano ma “un’astrazione si fa meta…ed è un pensiero/amorosa l’erranza, che trasforma l’ansia del seme”. Marangoni affida così alla poesia, alla letteratura, alla cultura un compito difficile, ma necessario. “Nelle nostre parole stanche, trite, si attende sempre/un riscatto, uno strappo/che qualcuno infranga/l’ordine dato. /Nelle nostre /vite si attende che si faccia più spazio”. La poesia dovrebbe così aprire lo sguardo, portarci a comprendere altri mondi, a non accettare l’omologazione. Non in una visuale egocentrica ed aristocratica, ma in una comunità più ampia di senso, che faccia da argine a quello che lo stesso Marangoni ha definito “l’antipoesia” ovvero un mondo fatto di ipocrisia, volgarità, ignoranza, violenza. “Dev’esserci, negli spazi interiori, /qualcosa che, qui intorno non c’è; che siamo diventati il tempo che non c’è/ – quello che siamo”.
Marangoni non è certo della riuscita del progetto: “mi donando chi guidi il linguaggio, se abbia un senso chiederlo; se l’umano è visto… se è possibile che qualcosa ci sia a vederlo…. E ne soffra, se non può gioirne, data la congiuntura… la parola gira a vuoto, si estenua; ma cosa posso fare se non dirmi che lo so, e che allora…”.
E’ nella fragilità della poesia che si cela dunque al sua forza, nella sua possibilità di dire una verità nascosta, “sequenza di vento (…) nella terra di mezzo,/ nell’afasia dei poeti…”. Ma c’è una passione che non si placa in questa ricerca di senso “la passione di una vita intera/degli anni, trascorsi a poco a poco/ e tutti insieme” e in una poesia secessiva troviamo “Ma questo fiato/ è quel che mi resta, /ed è la porta del bosco, inselvatichita: la sola porta/ aperta”. Perché “la poesia non cambierà il mondo; / ma neanche il mondo/cambierà la poesia”.
Maragoni fa così i conti anche con la sua, la mia, generazione che ha coltivato il desiderio, la volontà di cambiare il mondo che oggi si trova ancora a cercare di capire se questo sia davvero possibile. Il poeta, a amni nude, accetta ancora una volta la sfida e lo fa con maggiore consapevolezza, non rinuncia all’impegno, che è passione e ragione, rigore e immaginazione, che è strenua resistenza al dilagare del banalità, dentro sui si nasconde il male.
Stefano Vitale
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Note sull’Autore
Marco Marangoni (1961): Tempo e oltre, Campanotto, Udine 1994, con Prefazione di Giuseppe Conte; Dove dimora la luce, I quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme, 2002, con Prefazione di Tomaso Kemeny (da questo testo, in collaborazione con il compositore Mario Pagotto, ha tratto il melologo omonimo per musica da camera, presso la casa discografica Velut Luna, Padova; con Mario Pagotto ha anche collaborato come poeta alla creazione dell’ode musicale per voce femminile, flauto, viola, arpa Acqua disteso fluire, commissionata dall’Acquedotto del Basso Livenza, Duplison, Codroipo, UD, 2002); Per quale avventura, Raffaelli Editore, Rimini, 2007, con Prefazione di Milo De Angelis (sette liriche di questo libro sono apparse anche in Almanacco dello specchio, Mondadori, 2006).
Nel 2013 ha pubblicato Congiunzione amorosa, Moretti & Vitali Editore, Bergamo, con Introduzione di Giancarlo Pontiggia e Postfazione di Maurizio Cucchi (di questo lavoro sono apparse alcune liriche in Almanacco della poesia, 2013, Raffaelli editore, Rimini, a cura di Gianfranco Lauretano e Francesco Napoli). Suoi testi poetici sono apparsi in riviste e antologie nazionali e straniere. La sua poesia è stata tradotta in sloveno, tedesco, inglese. Collabora con interventi critici alla rivista letteraria Clandestino, trimestrale di letteratura e poesia. E’ membro della giuria scientifica di “Premio di poesia San Vito al Tagliamento” e promotore della “Casa di poesia“ di San Vito al Tagliamento. Collabora con il Dipartimento di Italianistica e Filologia classica dell’Università di Bologna per progetti sulla poesia contemporanea. Conduce da molti anni, in collaborazione con le scuole, laboratori di scrittura creativa.
Ha ideato e curato “Senso/Suono”, festival di iterazione tra poesia e musica di ricerca, facendo collaborare nomi prestigiosi della poesia con compositori e docenti di Conservatorio.
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