“Notizie da Patmos” di Fabrizio Bregoli
(La Vita felice, Milano, 2019)

@@@

“La poesia non cambia nulla / è il nulla che la cambia. La fa possibile”

…..Fabrizio Bregoli approda ad una raccolta poetica decisamente interessante. “Notizie da Patmos” si lascia alle spalle ogni residuo di tentazione narrativo-poetico propria di un certo milieu lombardo, evita ogni naturalismo sociale che, in alcuni autori, rischia di diventare bozzetto melanconico popolare e punta diritto verso altre terre.

…..In primis è il linguaggio che ci avverte del fatto che è venuta l’ora di chiudere con i giri di parole, con le descrizioni urbane, i piccoli personaggi del quotidiano e ci dice anche che occorre “lavorare per sottrazione”. Ovvero cercare la parola esatta, precisa, semplice, ma scolpita, tagliente e tagliata come un diamante. Basta persino coi fronzoli lessicali, le “belle” o “difficili” parole non servono più a definire ciò che è “poetico”. La poesia s’impone di per sé stessa, senza altre mediazioni.
Certo, Bregoli non rinuncia alla sua cifra linguistica: come egli stesso scrive “ho sempre avuto il tarlo delle scienze esatte”. Bregoli cerca sempre nuove metafore, nuovi agganci della lingua col mondo delle scienze, della matematica, dell’algebra in particolare. L’algebra che “nasce per ampliare l’orizzonte della matematica”, come dovrebbe fare la poesia con la vita e la letteratura. E dentro questa scelta c’è un’aspirazione: quella di costruire ed abitare uno spazio “dominabile”. Finalmente nostro”. Una paternità restituita” (cfr. pag. 11).
Credo che il riferimento all’algebra (benché sia noto già con il precedente “Zero al quoto” come Bregoli prenda sul serio la sua formazione scientifica) sia anche una sorta di metafora, oltre che una cifra stilistica. Perché ciò che il poeta cerca nella poesia, come è giusto che sia, è una forma di autenticità, di verità kantianamente dominata perché definita da strumenti umani, appunto il linguaggio. Ma questo deve essere uno spazio “umano” in senso proprio, ovvero carico di humanitas, capace di accogliere le nostre aspirazioni e inquietudini, desideri e dispiaceri. La poesia come “arte della riparazione” ci dice lo stesso Bregoli.
Ma attenzione, la connessione con le scienze esatte non genera una poesia arida, secca, anaffettiva. Al contrario Fabrizio Bregoli è molto bravo nel proporre una poesia intensa, essenziale e al tempo stesso risonante, emotivamente densa. E qui c’è anche la scelta tematica ad indicare la direzione che ha assunto la poesia di Bregoli, direzione che già ovviamente era presente nei due libri precedenti, ma che in “Notizie da Patmos” è molto più chiara. Il focus è la relazione tra esperienza umana del nulla e aspirazione alla laica “redenzione” attraverso la poesia.

…..Scrivo le coordinate dei giorni che non furono, quelli incisi sull’ascissa di un nero perfetto. Scrivo una parola scorticata, tutta detriti. Quella dove- lì soltanto – sillaba il perdono. / Dico il nudo di ogni lingua, la sua resa oscena. Dico un ghiaccio raggrumato, compatto. Le primizie del gelo. La poesia è fiamma. La pietà del fuoco”. (pag. 17). Il poeta e la poesia cantano il nulla. “Scrivo di noi/ grammatica di un vento dilapidato” e lo fa con voce spoglia, ma con luce di lemmi ricercati eppure senza cadute retoriche. Scrivo/la vena innominata della pietra, /veglio l’angolo illeso del respiro/ quel suo retaggio fossile” (pag. 19).
E da qui Bregoli apre un dialogo con una figura che appare reale e metaforica al tempo stesso: il padre. Terreno scivoloso quello degli affetti privati. Bregoli trova, a mio avviso, una soluzione ottimale: da un lato s’intravede la necessità di un dialogo tra padre e figlio reali, presenti; dall’altra parte il padre diviene una sorta di figura mobile. Ora si fa natura, ora si fa poesia, ora è il mondo delle cose… In tal modo il bisogno di una radice si connette con l’esigenza di una distinzione (meccanismo naturale della relazione padre-figlio) e da qui col desiderio di essere sé stesso in quanto poeta: “nell’interregno un figlio/un abusivo” (pag. 23).

…..In questo movimento Bregoli non perde di vista il suo demone che qui lo spinge al confronto coi temi profondi dell’esistenza: “L’eterno non ramifica nel solo/ arrendersi del tempo al suo compiuto, / è invece il suo negarsi…/ di noi rimane/ ciò che non è stato” (pag. 24). La vena filosofica (espressa anche in chiave epigrammatica) si appoggia su una visione dialettica che trova, in un andare e venire del pendolo dell’ispirazione, una figura appunto, di nuovo, che è il padre: “A volte penso a noi come a due isotopi/diversi solo per peso specifico/stesso ceppo, radice condivisa” (pag. 26). E da qui si rimbalza verso il nodo della poesia stessa: “Nostra missione/ vivere quella zolla inabitata/ la divisione il solo nostro spazio” (pag. 27). Si vive separati, talvolta per necessità, altre per scelta (come anche nei rapporti umani e in quelli tra padre e figli), ma questa è anche una condizione personale, interna oltre che uno spazio fecondo per la poesia. In questo groviglio di richiami, di rimandi si colloca il grumo limpido della poesia di Bregoli. “In fondo restiamo unità imperfetta/materia discorde, ibridata./… Siamo il buio del seme…./Quel noi/ che avrebbero potuto, e che non sono.” (pag. 29).

…..Questa forma di consapevolezza ci fa sentire affini agli oggetti, alle cose che “esigono un epilogo”, che come noi dovrebbero estinguere “il debito ai giorni”.. in “una risata / sconcia in un buio compatto. Perfetto” (pag. 30). Ma quel che resta è appunto la parola, la poesia come chiave di lettura del senso che faticosamente cerchiamo, “preghiera… dove fa deriva la parola” (pag. 31) ed infine “Rimane la poesia, spietata e imbelle/ tutt’intero il suo soldo bucato, /l’ovvio scrivere ciò che non sai dire/ – assioma sghembo di un figlio scontato. /onora il nulla/ il solo che ci è dato” (pag. 32).
Dopo la fine di ogni riferimento certo resta appunto in piedi la poesia che salva proprio mettendoci a confronto con le nostre sconfitte, con il nulla che è lo spazio-tempo della nostra possibile creatività. Così si chiude la prima parte di questo libro ed in essa mi pare sia definito tutto il percorso successivo. Cosa questa è propria della buona poesia: restare fedele al proprio dettato senza scarti, ma con ricchezza di forme, suoni e pensieri.

…..Avevi la passione dei confini/ tracciare fronti di demarcazione/la loro geografia compita…/ciò che serve a dare ordine alle vite”: ma come abbiamo detto, ora siamo in mare aperto “perché c’è sempre una metà che manca, l’amore che rimane impronunciato” (pag. 35). Bregoli insiste “Forse fu il credersi semplici. Atomici./Come elementi al proprio posto esatto/un’ordinata tavola periodica/…. Semplici, fino a renderci/inerti, repulsivi./ Gas rari. Troppo nobili. /compiti, e irrespirabili” (pag. 36). Viviamo in una condizione in cui le parole devono fare i contri “con tutto il peso del silenzio” (pag. 37). E questo percorso trova un punto alto d’arrivo proprio nella poesia che dà il titolo alla raccolta in cui Bregoli sintetizza, in questa nostra prospettiva di lettura, la sua idea di poesia (che s’intreccia con quella di altri strati della vita): “La poesia non cambia nulla/ è il nulla che la cambia. La fa possibile” (pag. 58).
Così chiude questo testo che poco prima diceva: “Comprendi davvero d’essere lingua/quando il futuro diventa ipoteca, /passato da riscrivere, scandire/polso a polso la ruggine dei chiodi”. Fabrizio Bregoli è bravo dunque a mischiare le carte, a saldare tra loro piani diversi (la relazione personale col padre, i riferimenti ad altri poeti come Caproni, Montale o Hesse, la sua riflessione sul ruolo della lingua e della poesia, la propria visione dell’esistenza, alcuni passaggi filosofici mediati dalla propria cultura scientifica…) e lo fa sempre con sicurezza, precisione e padronanza del tema e della lingua che intende usare. Lingua che è capace di produrre novità, di uscire da binari prevedibili, cosa oggi rara, pur mantenendo saldi i propri numi tutelari.

…..Il centro del libro è poi, indicativamente, segnato da una sezione denominata “Digressione quantistica”, titolo scritto emblematicamente tra due parentesi, sezione che, come scrive lo stesso autore può essere tralasciata o considerata la più importante. Cinque poesie, ciascuna delle quali prende le mosse dal riferimento ad un fisico (Planck –Heisenberg – De Broglie –Pauli – Schorodingen) che ha dato un contributo essenziale per lo sviluppo della teoria dei Quanti, una teoria che ha superato le certezze della fisica classica ed anche di quella einsteiniana, per introdurre elementi di incertezza, probabilità nella fisica moderna. Poesia e teoria dei Quanti si specchiano una dentro l’altra e se da un lato esprimono il disagio, lo sgomento dell’uomo di fonte all’ignoto, dall’altra parte esorcizzano questa paura affrontandola. Esattamente come dovrebbe fare oggi l’umanità con la realtà, oggi e sempre. Assumersi la responsabilità dei propri limiti, accettare il senso del vuoto, fare i conti con le proprie illusioni, tentare di cogliere l’attimo “che rende indistinguibile/ materia ed onda”, comprendere che “siamo l’impermanenza necessaria/l’obbligo alla coabitazione/ nell’interstizio fra collasso e vuoto”; sino a raggiugere “soltanto l’essenziale. Un padre, un figlio./L’eresia necessaria, /quella sua luce salda”. Questa la progressione poetico- esistenziale che porta Bregoli appunto a “lavorare per sottrazione” sino ad arrivare al quid dell’emozione che è anche intima ed ultima ragione delle cose, attraverso la poesia.

…..In fondo non è proprio quest’ottuso/dialogo col silenzio, la poesia?” (pag., 62): il poeta è consapevole dei suoi limiti, ma sa anche che ha fatto una scelta altra: “Io invece preferisco la poesia/ la scienza bellicosa del disarmo. /Quel suo sparare a salve/per non fallire un colpo” (pag. 63). E questa relazione tra parola e silenzio che in realtà dice, trova una perfetta risoluzione nella poesia “John Cage 4’33” (pag. 65): “Nessun verbo migliore per descriverci/dell’intenzione che si fa rinuncia, quel suo zero assoluto. Boreale. / Tutto il blasfemo/del suo parto gemellare/ suono e sua scomunica. /Noi siamo entrambi. Quella voce inabitata e tutto l’impossibile/del suo silenzio”. Perfetta metafora della poetica bregoliana: in cui la consapevolezza del limite è la spinta per una nuova inaspettata forza. Siamo fragili dice Bregoli: ma è proprio cercando di dare voce a “ciò che non si compie”, è solo nella volontà di scrivere (e vivere, dico io)” del coraggio/che non si fece verso, vi si perse/per difetto di vita, debito di cielo” (pag., 66).

…..La sezione “Padre nostro” (titolo assolutamente coerente con l’intreccio di cui abbiamo cercato di dare conto) sviluppa, in quanto parte terminale del percorso, alcune vie di uscita che, coerentemente, sovrappongono la riflessione sul fare poesia con una postura morale ed intellettuale utile a contrastare sia le derive velleitarie che quelle nichiliste (dentro e fuori la fuori; dentro e fuori il nostro scalcinato presente). “Raccogliere e impilare sfalci d’erba,/gusci di noci, fondi di caffe/filtri del tè, ossa, altre immondizie buone./Rivoltare due o tre volte l’anno, piano/per riattivare il ciclo del silenzio/….Talvolta – dopo un terremoto d’anni -/ vi affiora una poesia” (pag. 73).
Il compostaggio, ancora una volta, è realtà e metafora di una condizione umana e di un compito da assolvere; “Ci sarà un rifugio buono, la luce/ residua di un albero, un’acqua estrema/ dove giungere mano a mano…” (pag. 74). E ancora “Pinzetta e lenti, ferri del mestiere/ per l’ostensione dei feticci in ghingheri, /negli album come in scrigni di reliquie” (“Esercitazioni di filatelia” pag. 75). Oppure: “Occorre preservarli certi istanti/la loro pace ingenua, provvisoria. /Quegli attimi che dicono famiglia/ semplicemente, nel nulla di un gesto”. Pag. 76); “Sovvertire gli assiomi, curvare/ e avvicinare i mondo: in fondo, a questo/ serve la poesia, quella sua elementare/geometria ellittica, /a conferire campo e gravità/ alla parola, attrarla al suo silenzio” (pag, 78).
Forse non è molto quel che ci resta: ma è senza dubbio qualcosa di profondamente umano ciò a cui aspira Bregoli.: un modo fatto di pazienza, attesa, cura e dignità. Non c’è retorica o epica dell’etica. Ma c’è una nuova forza morale intima e robusta che si affida alla parola ed alla sua lotta eterna col silenzio, da cui trae comunque linfa e prospettiva. Perché la poesia è qualcosa che può “sopravvivere/ a noi noi malgrado, perché/ è sempre di un domani che si scrive” (pag. 79). La poesia sarà anche uno “spuntato rompighiaccio sotto il letto” ma fa si che l’assurdo sia “praticabile”, magari anche solo come un sommesso “controcanto”: “Ogni fiore è spietato. Vi sublima/tutto intero, l’insano della terra/quel suo buio/compiuto. Minerale…/E’ lì, che risiediamo…./benché sia questo pensarlo dicibile, l’errore,/ l’equivoco di fondo, come fosse/ possibile spiccarne il cuore opaco,/nostro chirurgo inerme la poesia” (pag. 80).

…..E’ questa fiducia nella parola, nella poesia che Fabrizio Bregoli ci propone, una fiducia non banale, non autoreferenziale, non certo fondata su un approccio solipsistico ed esangue, bensì sulla necessità interiore “di ambire a senso” andando oltre ciò che è dato e il paradosso della resa necessaria si trasforma in una forma di silenzio dispiegato “sull’arco della parola.”

…..Stefano Vitale

@@@

….Note sull’Autore
Fabrizio Bregoli è nato a Leno (Brescia) nel 1972, vive a Cornate d’Adda in Brianza e lavora nel settore delle telecomunicazioni.
Di poesia ha pubblicato: la plaquette 
Grandi poeti (Pulcinoelefante, 2012), le sillogi Baedeker. Libro di viaggi (Montedit, 2014), Cronache Provvisorie (VJ Edizioni, 2015), Il senso della neve (Puntoacapo, 2016), Zero al quoto (Puntoacapo, 2018), il poemetto ENIAC incluso in iPoet 2017 – Lunario in versi (Lietocolle, 2018), Notizie da Patmos (La Vita Felice, 2019).
È incluso in numerose antologie e presente con i suoi testi sui principali blog di poesia.

***

 

CONDIVIDI