“ANATOMIE COMPERATE” di Gabriella Montanari
(Whitefly Press – Vague Edizioni, Torino, 2018)

 

La nuova raccolta di Gabriella Montanari conferma che siamo di fronte ad un’autrice originale, consapevole della propria voce poetica, sicura nel passo letterario e convinta che la poesia resti prima di tutto un terreno dove sperimentare la lingua.

L’involucro esterno della raccolta è rappresentato da una sorta di viaggio di formazione, un gioco di specchi intuitivamente autobiografico, che diventa presto la voce di un soggetto autonomo. Un soggetto per nulla metafisico, tutt’altro. E’ un corpo che parla, che esplode in tutta la sua vitalità, ovviamente superando ogni vecchia dicotomia tra mente e materia, tra corpo e intelletto. Perché si vuole recuperare l’idea che in un mondo sempre più “virtuale” che lascia evaporare i sensi, si può ripartire anche a fare poesia, proprio dai sensi e dalla sensualità. E’ una poesia che non rinnega mai la sua radice personale, ma che ci presenta un “Io” per nulla abbozzolato nei suoi veli esistenzialistico-retorici; è una poesia che si fa carne scendendo nei meandri oscuri dell’interiorità materiale rivelando parti del Sé per nulla riconducibili ad ingenui lamenti.

“Anatomie comperate” è di per sé un titolo che provoca, titolo impoetico che proietta una luce di “attualismo”, una volontà di catturare l’attenzione del pubblico. Il gioco di parole del titolo ciascuno lo può leggere come vuole, ma a me pare che il senso stia nell’idea che è il corpo il nostro primo e ultimo rifugio che, giorno dopo giorno, mettiamo alla prova dei nostri vizi, dei nostri piaceri, delle nostre gioie e dolori, è attraverso il corpo che conosciamo il mondo e noi stessi (c’è un neosensismo illuminista in questa prospettiva?) e che ci mettiamo in gioco, confrontandoci anche coi rischi del “mercato”, del dare-avere dell’esistenza.

Così Gabriella Montanari parte da sé ed è consapevole che quel che diveniamo è frutto di una storia che è storia del corpo e dei corpi con cui abbiamo intrecciato i nostri passi, i nostri pensieri. Ma così facendo, scendendo prima di tutto nelle cavità dell’infanzia, come fa nella prima parte della raccolta, la memoria si confonde e la poesia va in cerca dei ricordi che mescolano realtà e immaginazione, finzione e verità. La realtà è proiezione di desideri che talvolta si realizzano e altre volte si sublimano diventando così ancora più “veri”.

“Lungo i filari/ in cima a trattori turgidi/le cosce delle stagionali svelano tagli di pesca./ il succo cola, /macchia la canotta dei ricordi”.

Voyerismo in prima persona, proiezione di immagini colte nel passato attraversano la pagina: “Di cosa odora la memoria?/ Quanto misura una meta?”. Montanari si affida ai sensi, all’olfatto, al gusto, al tatto più che alla vista, spiazzando così tanta poesia che si accontenta di una visione a metà, astratta, formale. “Nei tegamini della fantasia/la plastica odorava di vero./La farsa delle mascelle/ci formava all’ipocrisia”. Metafore da “realismo terminale” si intrecciano poi con la sua capacità di utilizzare cliché storpiandoli e liberandoli dalla loro banalità: “Il dottorino imberbe ci visitava/in cambio di lascivi tic tac,/ i genitali rivelavano il big bang/ a noi che del piacere intuivamo la casualità”.

La scoperta del sesso come esperienza determinata, concreta e al tempo stesso metafora del divenire altro da sé, metafora che spiega, che salva dal vuoto, ma che condanna, chi si scopre “poeta”, ad una posizione scomoda: “Le metafore lasciano lividi/ che il poeta scambia per dipinti./ “parli strano, bambina./ Ti hanno munta stamattina?”.

C’è tutta la sofferta materialità della realtà che affiora, ma c’è anche tutta la tenerezza della forza che può emergere nel tempo della crescita, dell’esperienza. C’è dunque un soggetto che, come detto, cresce: “Rifiutavo i codini,/ i costumi da bagno all’ uncinetto/” e che si rende conto anche della diversità dell’approccio poetico: “Non ci sono aggettivi ma stupori/ e nemmeno lettere, solo numeri da circo.” Perché “dell’erba appena tagliata, /di lei vorrei sapere”, dove la conoscenza e la sensualità si avvolgono in una figura unica.

Si noti anche l’uso attento della metrica, delle rime e assonanze: è come se, usando strumenti antichi, Montanari volesse inviarci dei messaggi nuovi. Messaggi che cercano, come vedremo più avanti, anche la chiarezza e luminosa timbricità di una frase ad effetto.

La storia continua tra amarezze e nuovi incontri, tra le disillusioni dei legami familiari e nuovi personaggi che emergono nel “racconto” poetico; tra pause e lampi di immagini adolescenziali e fughe consapevoli in mondi paralleli, letterari; mettendoci di fronte, con metafore interessanti, anche a pensieri nascosti (amare gli uomini, invaghirsi delle donne come accade in “Arti a due corsie”.)

Montanari collega con forza emozioni materiali, sensuali e metafore cerebrali; il sesso e il cibo si scambiano i ruoli, i versi alternano lampi sapienziali, epigrammatici a salti immaginifici; descrizioni crude a voli lirici.

Si legga: “Un giorno mi direte/ se nella mia fuga/ c’era la vostra salvezza” e ancora: “Il sole spruzza speranze che nessuno vede” oppure “Io svendo casa, compro la distanza”; “..risorgo dalla schiuma del luppolo/come una venere/uccisa dalle perle”. E infine “Cantami, o Diva/ perché ne ho bisogno”.

Il gusto dissacratorio dei versi si sposa con un desiderio da ultima parola: sono, quelli citati, i versi che chiudono alcune delle sue poesie, versi che aspirano ad una firma finale, ad una definizione ultima che vada oltre “il naufragar verdastro nella noia”. Montanari, come è anche giusto per un poeta, cerca la frase “memorabile” che resti impressa nella memoria di chi legge, witz estremo che fissa il verso al senso desiderato.

Come detto, Montanari sa riprendere immagini “pop”, usurate, provenienti persino dalla pubblicità (“Sarà una notte di luna in ammollo”, oppure “ho un vago sentore di madre”), ma questi versi, che in parte alleggeriscono per la loro ironica cifra, stanno dentro ad un mondo fatto di smarrimenti, sofferenze , stupori inquietanti così come ci dice l’autrice nella sezione dedicata alla maternità.

Dall’utero dilatato/uscivano voci antiche/che consigliavano la resa/”…. “Primo fra gli stupori/tu che indossi femori di cicogna/ non potevi saperlo”…”Avevi fretta,/fu un parto precipitoso./Ricordo pioggia, rigagnoli di ossitocina,/un viavai di neon./La vergogna di accogliervi in disordine”.

In questa sezione Gabriella Montanari si scioglie in alcuni versi lirici molto belli, per semplicità ed efficacia: “Ma vi amo/per l’odore di vita/e di pane all’olio/con cui mi sfornate le albe”“Nella conca dove il fulmine attende il tuono/il tuo silenzio si rannicchia/prima d’intonare quel motivetto/ con cui ogni feto saluta il suo inferno”.

Come si vede, lei non rinuncia mai alla sua cifra sensoriale, alla sua vicinanza con il mondo delle emozioni carnali, ma qui si va oltre e tutto si fa “carne lirica”. Nella quarta sezione leggiamo infatti: “Un boato e un silenzio/mi fecero di carne lirica./Salata in superficie/acre nei risvolti del sentire”: professione di fede poetica? E si prosegue con tono diretto ed esplicito: “A capodanno succhio cervello d’astice/ per non ungermi di buone maniere, /amo le interiora di pesce, le uova d’uomo./ Quaranta euro a chilo e auguri a tutti!”.

Leggendo queste poesie ho trovato assonanze con una certa produzione anglosassone e nordica. Penso ad Anne Sexton per la sua visionarietà e la potenza trasgressiva, a Carol Ann Duffy per le immagini stranianti, le libertà linguistiche connesse ai cliché usati ironicamente, per il caleidoscopio di personaggi che appaiono e scompaiono, per la sincerità dei sentimenti; ed ho pensato a Merja Virolainen per l’idea che la sensualità del verso produce come effetto una sorta di sciamanismo poetico capace di eccitare senza volgarità. Pensando a ad altre figure “italiane” mi sembra di sentire nei versi di Montanaro, con le dovute differenze, l’eco di Maria Marchesi per il cortocircuito sdoppiante delle immagini mentali, Laura Pugno per il carattere talvolta enigmatico dei testi capaci di saltare da uno “stato” di senso all’altro; o quelli di Antonella Bukovaz (che non è proprio totalmente italiana) per il senso complessivo narrativo che emerge comunque dal libro.

Ogni persona, ogni poeta potremmo dire ha “l’odore della tana che meritiamo” e che “siamo fatti di clima e sviste. Duriamo solo se concimati” visto che “La maturità è cogliersi in tempo” che può anche bastare, ad un certo punto, dire con ironia “Tu pensami monella attempata/e svaporami in un pasto lento”.

Montanari ha voglia di stupire il lettore, di metterlo alla prova con salti inattesi di registro, con immagini giustapposte, ricche di fantasia e di irriverente realismo. Nell’apertura della V sezione troviamo: “Dopo l’amore/sale la voglia / di pecorino dolce e vernaccia./Scende una mestizia/ di cui sospetto il nome. / si sta muti e molli./ e più avanti: “Nel mercimonio dei corpi/ – io do una mammella a te, tu dai uno scroto a me/ – l’etere è un subdolo mezzano/ a cui bastano prurito e connessione”, oppure “Russava e mi dormiva addosso/ come una lapide sulla terra./ Ho fatto male ai ranuncoli, senza volerlo”.

Nelle ultime sezioni (ve ne sono altre due e così siamo a VII) Montanari si placa in riflessioni che attraversano la quotidianità (Schizzi di cocker sul prato/ e ricompense di nuovi lanci/ nel tramonto di una palla da tennis”); che propongono osservazioni inusuali e punti vista inattesi (“Mai provato il punto di vista del rapace?/I testicoli rasoterra, le gote gonfie di nubi. /Uno sguardo alla piattezza tolemaica/delle giornate magre di rivoluzioni”; senza mai rinunciare all’ironia del verso (“Mi manca una moglie/ e un incavo in cui farmi cucchiaio” oppure “Tra le ortensie slavate/la salma della vicina/ si congiunge all’humus salino.”, In altri passaggi subentra l’autoironia (che mai è mancata nel libro) con versi tipo. “Mi preservo/tra tannini loquaci/e piaceri all’antica./ Vivo anch’io come se” e non risparmia come dovuto neppure la poesia stessa che trova una bella auto definizione: “Poesia è scegliere la mela guasta, /preferire il gusto al rossetto” che personalmente sento risuonare anche in versi quali: “Affittiamo piroghe/ per sfidare dell’oceano/l’immoralità, l’orgoglio”.

I toni sono più melanconici, ma è sempre il corpo, come detto all’inizio, a sintetizzare il viaggio del libro, il corpo che è “prima e ultima dimora,/ corpo che mi guardi/covo di anatomie comperate coi risparmi./ Il divino è nelle tue meccaniche, sacro è il rigore con cui profani l’anima/… Il tempo è il più caduco dei nostri organi./ Non sappiamo inneggiare al giorno”.

Così chiude Montanari il suo libro: con una sorta di epitaffio del soggetto, che dopo un lungo viaggio attorno al sé, ai propri irriverenti pensieri, al sesso e alle sue melanconiche gioie, agli affetti dati e ricevuti, agli addii e agli incontri inattesi, sente il bisogno di convocare il più terribile dei fantasmi, il tempo appunto.

Certo non sarà tempo perso leggere e rileggere questa raccolta che, come il buon vino, vedrete, migliora lettura dopo lettura. Consumandosi e non certo conservandosi. Immagino che si tratti di un libro che si può anche detestare, respingere … perché questo è un libro aperto, diretto, coraggioso anche editorialmente e graficamente, diverso da un paludato classico libretto di poesia, ma sono certo che Gabriella Montanari se la riderà, sorseggiando un buon vino di Borgogna davanti al caminetto della sua casa.

Stefano Vitale

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Note sull’Autrice
Gabriella Montanari (1971, Lugo di Romagna), italo-francese, laureata in Lettere Moderne (Università di Bologna) e diplomata in Pittura (Scuola d’Arti Ornamentali San Giacomo di Roma), è poeta, scrittrice, sceneggiatrice, critica, giornalista e fotografa. Traduttrice di poesia e narrativa dal francese e dall’inglese, collabora con riviste letterarie, d’informazione, di viaggio e d’arte. È stata co-fondatrice e direttrice editoriale della casa editrice WhiteFly Press (Lugo).
Esordisce in poesia con Oltraggio all’ipocrisia per le edizioni Lepisma di Roma (2012, Prefazione di Dante Maffia), a cui hanno fatto seguito Arsenico e nuovi versetti (La Vita Felice, Milano, 2013, Prefazione di Lino Angiuli), Abbecedario di una ex buona a nulla(Rupe Mutevole Edizioni, Parma, 2015, Prefazione di Enrico Nascimbeni) e Si chiude da sé (Gilgamesh Edizioni, Mantova, 2016, Prefazione di Davide Rondoni).
Pubblica per Supernova di Venezia (2016, Prefazione di Carla Menaldo) il suo primo romanzo, Donne di cose e per Danilo Montanari Editore (Ravenna), il libro d’arte Reattivo di Valle (poesie e fotografie) con acquarelli di Sergio Monari (2017). La sceneggiatura del cortometraggio “Il miglior nemico dell’uomo” ha ottenuto la Selezione Ufficiale al Firenze FilmCorti Festival 2017. Sue poesie, racconti e traduzioni sono raccolti in antologie italiane e internazionali. Attualmente vive e opera a Torino.

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