“Q. e l’allodola” di Vincenzo Mascolo
(Mursia, Milano, 2018)

QUEL CHE RESTA DELLA POESIA

Vincenzo Mascolo, come scrive nella quarta di copertina Guido Oldani, “sa della stagnazione tremenda della poesia italiana, e forse occidentale, attuale… sono questi i versi della consapevolezza di un tempo poeticamente frenato, che intorno al freno cerca l’unica apertura verso una letteraria possibilità. Ecco l’omega. L’amor che move il sole e l’altre stelle è la siderale e terragna allodola canterina dell’infanzia, ma il suo eventuale canto è più quello elegante delle sirene che non l’altro, coatto, del millennio terzo, nostra meraviglia”.
Così con il doppio riferimento a Queneau e Dante, Vincenzo Mascolo ci guida in un viaggio affascinante: quello che dovrebbe ricondurci a ritrovare il senso della poesia oggi: nel canto. Il libro però gioca tra un registro che può apparire quasi una parodia, una ripresa ironica di alcuni topoi classici della letteratura e della poesia ed il loro sviluppo seriorissimo, lucidamente controllato, curato, levigato come richiede un canto che nella sua “classicità” nasconde una potente vis polemica. Mascolo sembra dirci con questo libro che per uscire dalle secche della “finta poesia” contemporanea occorre rivalutare a tutto tondo la poesia come canto in sé.

Così, in un dialogo immaginario con Raymond Queneau, ispirandosi ai suoi “esercizi di stile”, Mascolo muta continuamente stile e linguaggio per sottolineare le innumerevoli potenzialità della parola poetica e la sua capacità trasformativa. Come vedremo, gradualmente, poi il libro abbandona (per certi versi) le riflessioni sulla poesia invocando un distacco dal suolo come l’allodola, che con il suo canto annuncia la luce del mattino. Ma ora andiamo…

Cantami, o diva, l’eterna lotta/ tra i significanti e i significati/ narrami l’attesa tra gli eserciti schierati/ del segnale che arrosserà quel campo/… cantami, o diva, l’ira del poeta/ la sua fatica che trasuda versi:/ portami il sangue della sua poesia”. Così si apre questo libro che subito dopo chiama in causa appunto Raymond Queneau, esponente di spicco dell’Oulipo (cui anche Italo Calvino diede un contributo) movimento della “letteratura potenziale” che considera le regole della lingua come base necessaria per la scrittura e che costruiva letteralmente testi sulla base di vincoli strettissimi, anche a costo di sfidare l’artificio, la retorica, in una dimensione anche ludica.
Mascolo, dal canto suo scrive che “non basta più esercitarsi nello stile”, che “…non ho fiato/ per intenerire quelle zolle/ormai pietrificate come il seme”; e aggiunge che “non basta adesso, credi, non mi basta/ stringere, costringere, forgiare la parola/ per disegnare le ombre sopra i muri”.
Per Mascolo “i poeti sopravvivono a fatica/ costretti a rovistare tra le scorte/delle loro animule sfibrate… ormai del poco fiato che rimane/ è meglio farne voce per la bile”“ai poeti non resta che affilare/ parole sulla pietra per raschiare/ il fondo limaccioso del barile”. La situazione è dunque difficile, il mondo della poesia è frammentato, disperso, un mondo “governato/ in questo campo/ da leggi che è impossibile capire”. Queneau si era illuso di proporre una via diversa: oggi le parole affondano “nelle pieghe/ della materia oscura che li avvolge/ in cerca del principio universale…l’Ego, l’Uno”. A che servono i poeti? si chiede il poeta… E non ci salva neppure l’idea di fare poesia per “resistenza”, per superare il vuoto di cultura, il malgoverno… Mascolo fa piazza pulita e lo fa con ironia e un mezzo sorriso sulla labbra, della poesia che avrebbe la pretesa di trovare soluzioni nell’Io o nell’impegno civile.
Mascolo sembra così proporre la sua idea di poesia che “Accade/per fatto naturale, come un frutto di stagione, talvolta ci sorprende/come un temporale estivo che scuote anche le zolle e libera l’odore/ della terra…”. Queneau sfidava l’arroganza dell’Io chiedendo alla scrittura di esprimersi a partire se stessa, anche a costo di apparire artificiale, finta, tecnicistica. Mascolo cerca una naturalità nel canto, nella rima, anch’essa “artificiale”… Siamo arrivati al punto? “Eppure sai, Queneau, non è nemmeno questo risalire/ dei fiumi e degli umori della terra…non è soltanto tutta la bellezza che ci sorprende e che ci meraviglia, non è nemmeno /questo solamente la cosa che chiamiamo poesia”.

Così la poesia può essere compresa, può trovare una sua ragion d’essere nella forma? Mascolo se lo chiede: “Trascorro notti insonni comparando/ poetiche teorie sulla poesia forme chiuse/ versi liberi prosastici la metrica gli accenti/ le metafore il ritmo la sua musica le immagini terzine/ strofe ottave stanze rime endecasillabi i doppi settenari alessandrini”. Mascolo sembra dolorosamente prendere in giro, con ironia (e ne prende le distanze) tutti gli sforzi che la poesia ed i poeti compiono oggi per darsi un tono, cercare una ragione per esistere in quanto tali. Così fa ancora un passo e usando uno stile ed un lessico, un tono ed una forma più discorsiva tenta di sciogliere il nodo. Ci riuscirà?

Mascolo entra nel labirinto della creazione poetica, nell’officina della scrittura e traccia le linee di un proprio ragionamento sulla poesia in quanto forma espressiva e letteraria. Qui il testo si fa persino saggistico mescolando ad arte le carte della forma. La poesia attraversa indicibile, l’invisibile: essa è la “raffigurazione logica del mondo”, “partecipa alla formazione del linguaggio”, è “la rappresentazione dinamica del mondo”, è la celebrazione del “mio essere sospeso tra io sublime e l’ordinario”. Resta il fatto, per Mascolo, che la poesia è un’ossessione, è il gesto stesso necessario dello scrivere come avrebbe detto Roland Barthes; è qualcosa che toglie il sonno, è “il vizio capitale della parola vana”, il “perdersi in eterno” del poeta che tuttavia va in cerca di “modalità espressive originali che saldino tra loro presente e tradizione…. In una visione della contemporaneità di continuo mutamento, di frammento del perenne divenire che in sé contiene i germi del futuro…” .

Mascolo critica tutte quelle poetiche artificiali ed artificiose a suo dire che inchiodano la poesia all’” aderenza del linguaggio alla realtà” e chiede di salvarsi “dalle sinestesie, dalle contaminazioni vicendevoli, dall’emozione pura, dai flussi di coscienza, dai testimoni del proprio tempo, dai manifesti dai movimenti dalle scuole dai gruppi dalle antologie, da avanguardie retroguardie da qualsiasi appartenenza…”. Occorre essere liberi da tutto ciò che può essere collegato ad un’intenzione pregiudizievole: Mascolo chiede solo di “restate qui tra i miei alberi da frutto e fiori di lavanda a gioie del ritorno della luce, di questa perfetta necessitò della natura”. E chiede aiuto alla musica tanto che troviamo nel teso addirittura degli spartiti di Max Richter e Silvia Colasanti presi a modello di una “poesia” autentica liberata dagli orpelli di sovrastrutture artificiali. Addio Queneau, dunque.

Vincenzo Mascolo si interroga quindi sulle modalità del fare poesia oggi e sul senso della scrittura poetica nella contemporaneità. In tale direzione, la parte VI del libro, l’ultima dovrebbe permetterci di leggere la proposta di Mascolo, di gustare la sua poesia. Non che sino a quel punto del libro non sia accaduto, tutt’altro: ma si era come in una sorta di ipertesto, quanto di più “oulipista” si può immaginare. Mascolo si aggancia subito alla Divina Commedia (“mi ritrovai nella palude oscura/ della poesia di questo divenire”) mescolando ancora una volta il sorriso dell’ironia, della ripresa di pagine conosciute con la serietà della riflessione sul tema che si è dato, la poesia e il poetare, appunto. E ci dà la sua “soluzione” (anche se poco prima aveva scritto di voler essere libero da scuole, manifesti e movimenti…): “…. e la palude in cui mi persi/ è quella del realismo oggettuale/ secondo Guido Oldani malattia/ e simbolo di un’era terminale”. La poesia “si sente stringere la gola/da grumi di realtà già masticata” ed allora “Leggerezza è quello che ci vuole” “rose rosario rosa della croce” …”rimane la pietà per le radici/ per questo mio tronco incenerito”… “e quale gioia essere immerso/ in quella melodia che si sprigiona/ dai mondi lontani che attraverso/ quando la mia mente si abbandona/ e l’energia vitale del creato/ diventa vibrazione che risuona/…. “La sua bellezza voglio che sia canto/ parola naturante della rosa/ sbocciata sulla croce per incanto/… Mi trasformerei, cenere eterna/ dispersa nel silenzio del creato/nel canto dell’allodola che sverna/”.

La poesia è allora l’allodola, è il canto che salva. Vale la pena, per capire meglio, riportare il Manifesto del “Realismo Terminale” di Guido Oldani del 2010 cui fa rifermento Mascolo:

“La Terra è in piena pandemia abitativa: il genere umano si sta ammassando in immense megalopoli, le “città continue” di calviniana memoria, contenitori post-umani, senza storia e senza volto. La natura è stata messa ai margini, inghiottita o addomesticata. Nessuna azione ne prevede più l’esistenza. Non sappiamo più accendere un fuoco, zappare l’orto, mungere una mucca. I cibi sono in scatola, il latte in polvere, i contatti virtuali, il mondo racchiuso in un piccolo schermo.  È il trionfo della vita artificiale. Gli oggetti occupano tutto lo spazio abitabile, ci avvolgono come una camicia di forza. Essi ci sono diventati indispensabili. Senza di loro ci sentiremmo persi, non sapremmo più compiere il minimo atto. Perciò, affetti da una parossistica bulimia degli oggetti, ne facciamo incetta in maniera compulsiva. Da servi che erano, si sono trasformati nei nostri padroni; tanto che dominano anche il nostro immaginario. L’invasione degli oggetti ha contribuito in maniera determinante a produrre l’estinzione dell’umanesimo. Ha generato dei mutamenti antropologici di portata epocale, alterando pesantemente le modalità di percezione del mondo, in quanto ogni nostra esperienza passa attraverso gli oggetti, è essenzialmente contatto con gli oggetti. Di conseguenza, sono cambiati i nostri codici di riferimento, i parametri per la conoscenza del reale. In passato la pietra di paragone era, di norma, la natura, per cui si diceva: «ha gli occhi azzurri come il mare», «è forte come un toro», «corre come una lepre». Ora, invece, i modelli sono gli oggetti, onde «ha gli occhi di porcellana», «è forte come una ruspa scavatrice», «corre come una Ferrari». Il conio relativo è quello della “similitudine rovesciata”, mediante la quale il mondo può essere ridetto completamente daccapo. La “similitudine rovesciata” è l’utensile per eccellenza del “realismo terminale”; il registro, la chiave di volta, è l’ironia. Ridiamo sull’orlo dell’abisso, non senza una residua speranza: che l’uomo, deriso, si ravveda. Vogliamo che, a forza di essere messo e tenuto a testa in giù, un po’ di sangue gli torni a irrorare il cervello. Perché la mente non sia solo una playstation”.

Vincenzo Mascolo in qualche modo riscrive questo manifesto, lo traduce in poesia, usando a piene mani la rima e chiedendo ai poeti, a se stesso di “fare poesia” a partire “dalla trama della vita che s’impiglia”, nella ricerca della “quotidiana meraviglia/ rosa d’inverno, luce che germoglia/ da quei cozzi aguzzi di bottiglia”. I poeti sono anime che volteggiano, “fiori di ghirlanda/ nella penombra dove consumiamo/ l’attesa che l’allodola ritorni/ risponda finalmente al mio richiamo”.

La domanda è quindi: che cosa resta della poesia? Che cosa può ancora dire la poesia? E come lo può dire? “Q. e l’allodola” è un libro di poesia paradossalmente “teorico” che, trasforma una presa di posizione, un’analisi critica, in una forma poetica in sé. Il libro di Mascolo appare quindi come una raccolta di poesia che riflette sulla poesia, che muove una critica consapevole a tanta poesia contemporanea ed invoca un cambio di rotta che si dovrebbe tradurre in un ritorno a forme poetiche più semplici, dirette, naturali, liberate da ossessioni e dipendenze. Tutto ciò è possibile?

…..Stefano Vitale

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Da “Q. e l’allodola”

Cantami, o diva, l’eterna lotta
tra i significanti e i significati
narrami l’attesa tra gli eserciti schierati
del segnale che arrosserà quel campo
i riti per propiziare la vittoria
cantami la furia di quella battaglia
che non ha avuto vincitori e vinti
raccontami la torsione dei corpi
il sudore che impregna anche il terreno
la tensione dei muscoli allungarsi
quando sferrano colpi, nel ritrarsi
fammi sentire gli zoccoli che battono
i nitriti, il clangore delle armi
il cozzo delle spade sugli scudi
le grida per gli squarci delle lance
narrami le ferite, la paura
la polvere che copre chi è caduto.

Cantami, o diva, l’ira del poeta
la sua fatica che trasuda versi:
portami il sangue della sua poesia.

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Oh, Queneau Queneau
non basta adesso, credi, non mi basta
stringere, costringere, forgiare la parola
per disegnare le ombre sopra i muri
figure che volteggiano nell’aria
vagule, blandule, leggere
forme senza mai sostanza
nemmeno la volatile dei sogni
corpuscoli di polveri sottili
che arrochiscono la voce dei poeti.

Oh, Queneau
Queneau
parlavo seriamente della bile
perché stanno esaurendosi le scorte
delle anime ridotte al lumicino
e per nutrire ancora una speranza
che adesso si fa sempre più sottile
ai poeti non resta che affilare
parole sulla pietra per raschiare
il fondo limaccioso del barile.

Oh, Queneau
trascorro notti insonni comparando
poetiche teorie sulla poesia forme chiuse
versi liberi prosastici la metrica gli accenti
le metafore il ritmo la sua musica le immagini terzine
strofe ottave stanze rime endecasillabi i doppi settenari alessandrini
ABAB ABAB CDC

il canone del nostro Novecento versi lirici civili quotidiani d’amore
religiosi minimali classici moderni d’avanguardia versi eterni
transeunti di ogni continente lingua forma visioni
urgenze ispirazioni l’etica l’estetica il linguaggio
generazioni entranti entrate uscite uscenti
ABBA ABBA CDE

Oh, Queneau
trascorro notti insonni
ma ancora mi domando
se sia davvero questo solamente
la cosa che chiamiamo la poesia.

A ripensarla ora fa paura
quella distesa torbida, stagnante
che mi bloccò la voce e l’andatura.

E come ragnatela che all’istante
intrappola l’insetto nel suo volo
per trasformarlo in cibo fluttuante

così quella palude era crogiolo
di oggetti, il pane quotidiano
di poeti con il fisico del ruolo.

e particella dopo particella
in me compone tutto l’universo
con le armoniose corde di viella.

E quale gioia essere immerso
in quella melodia che si sprigiona
dai mondi lontani che attraverso

quando la mia mente si abbandona
e l’energia vitale del creato
diventa vibrazione che risuona

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…..Note sull’Autore
Vincenzo Mascolo, nato a Salerno, vive a Roma. Ha pubblicato Il pensiero originale che ho commesso (Edizioni Angolo Manzoni, 2004), Scovando l’uovo (appunti di bioetica) (LietoColle, 2009), Q. e l’allodola (Mursia, 2018).
Per la casa editrice LietoColle ha curato le antologie Stagioni (con Stefania Crema e Anna Toscano), La poesia è un bambino e Quadernario – Venticinque poeti d’oggi (con Giampiero Neri).
Dal 2006 è il direttore artistico di Ritratti di poesia, manifestazione promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro.

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