“L’ingegneria della vita felice” di Gianpiero Casagrande(Ediz. Achille e La Tartaruga, 2016)

Questo libro ha già avuto importanti riconoscimenti, meritati perché Casagrande è poeta autentico e sincero. In questo suo ultimo libro è come se Casagrande facesse una “professione di fede poetica” smarcandosi definitivamente da quella parte di canone ormai post-novecentesco che metteva il poeta al centro di conflitti interiori, dibattuto e spezzato da dubbi e tormenti, in rotta con il mondo e con se stesso. Casagrande esce da questo cliché e dice che “il vero paradiso/ è fare se stesso giardino…/non migrare in luogo altro”. E invita a “immergersi nella terra totale/nel tutto terra nella terra dalla quale/ siamo partiti”. La visione è chiara e decisa e riallaccia Casagrande ai classici della classicità, ai poeti greci e latini e, più vicino a noi, a poeti eccentrici come Gianpiero (nome fatale?) Neri che della poesia della natura aveva fatto il suo baricentro. A Casagrande non interessa “la lotta insensata” delle sfide esistenziali, a la solida radice della vita vera fatta di cose reali, concrete, naturali. Ma attenti, il suo intento è di spingere l’uomo, attraverso la poesia, a ritrovare se stesso. Perché “l’uomo è altrove” troppo spesso distolto dalla sua natura “umano-naturale”. E così quel che sembra una poesia “senza l’uomo” diventa una poesia dell’esistenza dell’uomo, in uno scambio ora simbolico, ora figurato tra umanità e natura. L’uomo è natura, ci dice il poeta ed occorre ritrovare e coltivare quest’essenza per raggiungere una vita felice. Cosa che non esclude il senso del limite, dei nostri limiti “in fondo siamo foglie / attaccate per la coda” ed è in questa consapevolezza che emerge un’antica sapienza che al di là delle apparenze (“ciò che muore rinasce”) ci insegna che “a ricordare a chi fatica sulle rive/quanto quella fatica è niente/nel vortice di incalcolabili stagioni/dall’origine dei tempi all’esplosione del sole”. In tale riflessione non si cela una rinuncia, ma si ritrova il senso di una domanda fondamentale per l’uomo: “imperterrita l’erba cresce tra i binari/…Perché non temono (loro)/ il passaggio del treno?”. L’interrogativo ci trascina nell’incanto dell’immersione in immagini naturali che il poeta snocciola sul filo dei suoi versi che vanno a “colorare la vita”, a ricordarci che “sarà pur solo un vegetale/ma conosce bene il suo dovere” e che l’ “essere autenticamente divino/in forma d’albero e degno/ sopra gli altri di venerazione” va conquistato con forme di conoscenza e di comportamenti etici che troppo spesso sono stai dismessi dall’uomo, divenendo per così dire, infelice.

Tutta la prima sezione “La lunga ala del seme” ha questo compito: di immergere il lettore in medias res, nella materia della natura che ci riguarda, che ci è dentro e dentro la quale stiamo e siamo. La sezione seguente “Epifania” offre e provoca al lettore un senso di ulteriore straniamento. E’ come se il poeta ci accompagnasse in una serie di sue riflessioni dalla sostanza “narrativa” espresse in forma “poetica”. In altri termini, se nella prima sezione, la poesia ha un suo canto metrico, strutturale, linguistico, qui la poesia è “struttura” che organizza la riflessione, le immagini colte nel farsi del quotidiano, nelle passeggiate all’aperto, nelle piccole scoperte, nelle denunce civili. E la lingua diventa più piana, precisa, persino diaristica raccontandoci e denunciando storture e condividendo emozioni nell’incontro con la natura, gli animali, le piante. E’ come se il poeta ci invitasse a rinnovare lo sguardo, ad essere attenti direttamente alle epifanie della natura. Passaggio, questo, dialetticamente necessario che apre alla sezione “Incastri” in cui il poeta fa la sintesi del suo percorso fenomenologico ed esistenziale “sui generis” esplicitando il senso finale della sua ingegneria della vita felice. Ovvero di un progetto programmatico di felicità possibile che attraverso un rafforzamento del rapporto dell’uomo con le piante, con gli animali, con se stessi, quali esseri, appunto, «naturali» arriva agli affetti, ritornando all’umano più intenso: quello appunto delle relazioni affettive. “Incastri” è così la sezione dedicata all’amore e al corpo femminile quale perfetto tramite con l’elemento primigenio (la terra, il sole, il mare). Ma resta fondante il passaggio attraverso gli elementi della natura e lo scambio simbolico diventa esplicito: “Un incrocio di sguardi/un pensiero d’unione, della natura/nel come nome” perché “sei dovunque, Amore…. nella donna betulla, nel giovane larice/nella radice profonda dell’acero maschile/ nel respiro del bosco, nel veto nella/ terra nel muschio…”. Sino a dire “pensala come terra fertile che aspetta/ che ti aspetta/… corpo voglia idea amore: la tanto/inseguita passione pura” dove l’assenza di virgole esprime il senso di un’unità lessicale ed emotiva necessaria, panteistica in un certo senso. Perché quello è “incontro… ciò che tutto unisce e pacifica/ con l’universo che cresce”.

Da qui poi lo slittamento verso la dimensione personale che riporta il senso universale al privato, per così dire: si vedano i versi “Amore basta a se stesso/ tu/io/ adesso” , oppure i versi “con i capelli poggiati sui capelli/i pensieri compenetrati nei pensieri/il silenzio del profondo comune respiro/” o ancora “fra sabbia insetti e sassi/un incrocio di mani”, e puoi “E si sta bene/in due, insieme, in mezzo alla gente” o anche la poesia “Acqua naturale” dove bere alla bottiglia di plastica “è un modo delicato/ma struggente di posare/le labbra sulle tue/quando non sei presente”. Il poeta fa così delle dichiarazioni d’amore esprimendo la sua gioia per la scoperta dell’esistenza “di incastri perfetti/dai meccanismi semplici; le forme /coincidono…esistono poi le persone/e raramente combaciano alla perfezione/ come noi due”. Qui il tono poetico è prevedibilmente basso e confidenziale, come a ristabilire una vicinanza familiare. C’è un richiamo evidente alla poesia di un Attilio Bertolucci nei temi ma anche nei toni. Attraverso la «poetica della genitura» – scrive Beppe Mariano nella presentazione del volume – «si amplia il concetto stesso di natura». L’autore «diventa padre e figlio allo stesso tempo degli alberi, degli animali, di tutta la varietà della natura “innocente”, espressa con qualche venatura animistica, in una sorta di sotteso panteismo. È anche un modo di riaccostarsi alla sacralità naturale tramite un tono medio – basso e confidenziale».

L’elegia assume connotati lirici evidenti, distesi e commoventi nel cogliere le piccole grandi felicità della vita amorosa, semplice e naturale. Ma il poeta sa che questo è un “giardino”, non è tutta la natura, è il prodotto di uno sforzo umano ed è una combinazione casuale che va appunto coltivata, seguita. Non tutto è dovuto, tutto va accudito con dedizione religiosa. Ma di una religiosità laica avverte Casagrande, perché la sua poesia vuole essere “un laico canto alla natura/..alla lunga ala del seme” perché “il cosmo concentrato in un albero” chiede cura così come lo chiede la parola che il Poeta. Giardiniere deve riportare “in quell’ordine primordiale, lo asseconda/non sconvolge, sottrae il superfluo, scolpisce/senza scalpello, lavora di fino, con punta/ sottile/interviene a suggerire una direzione”.

Così l’ingegneria della vita felice fa coincidere l’esercizio della scrittura con la cura della natura e di se stessi, dell’attenzione per gli affetti, le persone care come insegnavano i grandi classici che avevano fatto del giardino, appunto, il locus elettivo della felicità, della piccola felicità che ci è riservata come “esseri naturali”.

L’immagine finale del libro sta nella poesia di pag. 95 che dà il titolo al libro: “da un lato prato, dall’altro bosco/sull’altura la casa e un piccolo/ gradevole giardino/…dove attendono Orazio e Virgilio/Ovidio e Giovenale, l’ingegneria/ della vita felice”.

Stefano Vitale

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– Note sull’Autore
Torinese da anni felicemente trapiantato a Saluzzo, Gianpiero Casagrande è bibliotecario di mestiere. Attualmente è direttore delle biblioteche di Pinerolo. Cura anche le attività culturali della città e, in particolare, le iniziative poetiche: dagli incontri che si tengono regolarmente in «Poeteca» al festival «Pinerolo Poesia», che ha luogo in maggio, in collaborazione con il Salone Internazionale del Libro di Torino. Laureato in Storia moderna, ha pubblicato diversi interventi saggistici di storia locale, dell’editoria, delle biblioteche. Ha all’attivo quattro libri di poesia, editi tra il 2002 e il 2016.

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