“Afasia” di Silvia Comoglio
(Anterem Edizioni, Verona, 2021)

…..Il titolo non inganni: Silvia Comoglio ha tanto da dire con la sua poesia e, soprattutto, con lo stile che le è proprio. Uno stile che, sul piano linguistico in sé, non cerca l’effetto sperimentalista o autoreferenziale, neppure aspira alla parola ricercata che potrebbe far pensare ad un vezzo ornamentale ed esteriore. Il suo è uno stile, invece, che si serve di lemmi distesi, abituali, senza fronzoli, quasi quotidiani e che predilige il verso breve, folgorante. Semmai Comoglio sa far risuonare i significati, sa costruire forme poetiche scavando nelle parole, scomponendole talvolta, affidandosi alla ricchezza semantica, sonora, metaforica dei versi, lavorando sulla variazione e sulla ripresa dei versi, rimbalzando il lettore dalla punta dell’iceberg di ciò che fluttua sulla pagina alla più vasta sostanza che resta nascosta a prima vista.

…..Ma attenzione, nessun esoterismo e direi nessun estetismo decadente. Certo in esergo troviamo ampie citazioni da Jorge Luis Borges a testimonianza di una poetica precisa: “Ho nutrito spesso il sospetto che il significato fosse qualcosa di aggiunto in poesia. Do per scontato che noi sentiamo la bellezza di una poesia prima ancora di pensare al suo significato” e ancora “Ci sono, ovviamente versi che sono belli anche se privi di senso. Comunque, un senso ce l’hanno, non per la ragion ma per l’immaginazione”.

…..In queste due citazioni potrebbe essere racchiusa la miccia che accende la poesia di Comoglio. “L’enigma dovrebbe bastarci. Non dobbiamo decifrarlo. L’enigma è lì” e questo è sempre Borges.

…..Nessun esoterismo orfico, ma certamente in Comoglio c’è la richiesta esplicita di uno sforzo, c’è la volontà di spostare altrove il baricentro della comprensione per accedere, se possibile, ad una maggiore, più alta e profonda idea di poesia, come lei la sente. Uso questo verbo perché c’è una ricerca sinestetica, un approccio sensoriale, uditivo significativo.
Nessun estetismo, d’accordo, ma troviamo comunque esplicita la ricerca della bellezza versica che non può prescindere dalla cura levigata e riflessa di una forma che sia bella perché pensata, strutturata, composta (ed uso questo termine in senso musicale e se volete anche nel senso che Amelia Rosselli dava a questo termine nel suo fare poesia).
La poesia di Erica Comoglio si dice nel momento in cui si sottrae al senso comune, pur usandone gli strumenti apparentemente abituali, e diventa a-fasia in quanto parola autentica liberata dalla voce inutile della “chiacchiera” direbbe Heidegger. La poesia a-fasica di Comoglio cerca l’idea dell’essere senza fondamento, che è tale proprio perché non poggia su altro che se stesso. Ma è una prospettiva che in Comoglio non sprofonda nel buio di una notte senza tempo, ma vira prepotentemente verso le cose, verso la realtà, verso un mondo per nulla freddo, ma bensì carico di emozioni.

…..Scrive Elio Grasso nella sua postfazione: “Gli strumenti delicati di questo libro hanno un candore sorprendente a cui non manca una certa sottile e arguta malizia, una solitaria libertà di stratagemmi. Novità e conquista si sperimentano a ogni pagina, impedimenti e salti del tempo non sono un controcanto ma il non convenzionale sistema idiomatico che prende forza tramite la vicinanza alle civiltà remote, quelle che – è presumibile – attestavano più allora di ora la sostanza vitale, corporea, degli umani. Ne sapeva qualcosa Emilio Villa, e ne sappiamo qualcosa noi accostando i codici di questo seduttore d’abbondanze linguistiche. Il discorso sarebbe lungo, si accompagna a storia di enigmi, dissipazioni, sforzi inauditi, solitudini e reperti malinconici. Il vocabolario di Comoglio è sempre più segnato da una fermezza priva di equivoci, concreta al punto da misurare ogni millimetro della pagina. E in questi millimetri fioriscono baci, sentenze amorose, attitudini plausibili. Corpi di leggenda, richiamati e scritti, anche se già vaganti da tempo immemore, tramandati fino ai giorni nostri, fino alla soglia della poetessa che un giorno – sentendo bussare – aprì l’uscio, e rispose”.

…..Può apparire un paradosso, ma è così: Comoglio non si allontana dalle cose e dalle emozioni. Al contrario tenta di avvicinarsi il più possibile al nocciolo della realtà, esterna e interna. La poesia è quel che è perché dice le cose reali diversamente, cogliendo altri punti di vista, spiazzando il lettore che si aspetta il solito mormorio stanco di tanta poesia di oggi, nata vecchia, anzi morta. “Ci sono occhi che vanno al fondo delle cose. Essi scorgono un fondamento. E ce ne sono altri che sprofondano nelle cose. Questi non scorgono fondamenti. Ma vedono più profondo” (Paul Celan, pag. 102 “Microliti”). E ancora: “Chi dispone di “parole”, la lingua gli si nega. Chi si dispone alla lingua, anche le parole… lo trovano” (ibidem, pag. 103).

…..La lingua: è questa la vera ossessione di Comoglio. Perché un poeta senza la lingua (e senza una voce) non è tale. E qui torniamo al paradosso che solo una poesia a-fasica ha voce. Ed è la voce, col suo suono, a volte canto melodico, altre volte ritmo, salto scosceso, mai ruvida dissonanza che tesse la trama poetica di queste pagine che giustamente non portano da nessuna parte. Poesia come luogo u-topico della bellezza, della lingua, della infinita ricerca di senso. Poesia non sempre comoda, ricca di immagini impreviste, di salti scenici, vuoti improvvisi, sorprese lessicali che non annoiano mai, che sforano talvolta in una forma di oralità che obbliga il lettore ad affidarsi, appunto, non alla ragione, ma all’immaginazione. E questo determina un nuovo paradosso: quello del dialogo tra il poeta e il lettore.
Una poesia di questo tipo potrebbe essere respingente, evitante, ed invece apre ad una comunicazione altra, che passa attraverso strade diverse, a volte tortuose, ma feconde. Comoglio sa abbandonarsi al piacere delle parole, senza ammiccamenti, senza sconti, inseguendo una propria visione, un proprio suono che, come detto, gioca sulla variazione di tempi e contesti lirici.

…..Hanno scritto sul blog “Anterem”: “Questo libro, innervato da una costante e forte maturità espressiva, è una partitura per voce sola, voce narrante, dialoghi, suoni cristallini. Come “luce a eco rivoltata” le parole si trasformano in una grande, inedita sinestesia, resa ancora più percepibile dal variare di corpi e spazi testuali, come fossero toni differenti della voce e pause, brevi prese di respiro. Con la precisione dell’orafo, Silvia costruisce una filigrana verbale ricca di intensità, ricostruisce un mondo vero e finalmente reale, senza le tante maschere delle apparenze. E pagina dopo pagina, l’apeiron, l’indefinito, da un “cubicolo di lingua” prende forma e sostanza. Afasia, antimondo, chiaroveggenza, luminescenza, sono i punti nodali di quest’opera. Passaggi che ci portano dove non eravamo mai stati”.

…..Stefano Vitale

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…………………Da “Afasia

mólto, somiglia molto la frombola che dici
allo scalare dell’ultimo soffitto dove, esplose,
folto di silenzio l’ago! del tempo che si appunta
dietro l’albero e l’orecchio
*
la terra ha tua leggenda cullata di rimbalzo.
le forme, stupite a bosco, di un tempo –
trainato a mondo
*
Un giorno avrò un sogno che uscirà dal bosco –
prezioso ordine a saperci identici contrari, specchiati.
a mondo di traverso, dentro il suo chiarore –
di cuspide di sguardo único d’amore
*
che salpi ora della bocca il lungo —
stato di paura vibrato, in bella lontananza,
a stupenda maschera d’insieme
*
la scena ora sorge ad albero che tiene
quésto puro farsi di soffio che biforco
a febbre di coscienza
*
disse: saremo il tempo sceso dalla riva?
l’incompleta stella di materia trainata
– a peso di fessura – nel vortice che bacia
il mondo della guancia?
*
… pure se tu fossi nudo bacio nudo,
terra di cigno iridescente
*
le terre tu strepiti a bugia spostando,
pensile dei pini, la luce a eco rivoltata
dove, attonita a ritroso, la brace —
divampa! gravida di baci
*
la lunga terra che qui venne fu incompleta
stella sopra l’acqua : questo solo dirci,
tentato a guscio d’aria, che fende di traverso
pesi di fessura, la baia trainata a legno
di una sola pianta
*
astro, in cento grammi!, la terra
mutata a bosco? il – disimparare
dell’albero del mondo
la maschera d’insieme, l’occhio
che sale a fiore
*
Amotanto la luna frantumata nel tempo di parola,
tersa piccola vedetta di amorose notti tra-sudate a labbra
*
nello stagno gridato a fior di loro
venne, venne il pesce d’oro,
senza lisca e senza spine –
E senza nulla, nulla, tenere al mondo

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