“AMORE DI FRODO” di Carla Mussi
(Edizioni Puntoacapo, 2019)


L
a raccolta è sostanzialmente divisa in due parti: la prima è “L’invenzione del ricordo”, la seconda “I luoghi”. Due grandi blocchi che potrebbero dare vita a due raccolte diverse. Non che la mano dell’autrice sia diversa, non che lo stile sia disomogeneo, ma emerge certamente un paesaggio poetico compatto, solido e diverso in ciascuna delle due.

Nella prima parte domina il tema del ricordo che impone al verso una tensione inquieta e costante. Il ricordo non sembra risolto, non c’è distanza olimpica, melanconia riparatrice. Certo, come ha scritto Giancarlo Pontiggia, il paesaggio è tipo mentale, ma è come se il modo stesso di funzionare del poetare di Carla Mussi fosse segnato proprio da una febbrile ricerca di sentieri scoscesi, pause taglienti strappi, squilibri che rimandano ad una forma di esperienza che non può essere esclusivamente mentale. Certamente il verso breve, la struttura formale sostenuta dalla ricerca del ritmo, della rima che dona sonorità al tutto, il carico di continue e cangianti metafore trasforma la tensione in qualcosa di letterario, di trasfigurato in altro. Insomma è come se la poesia, forma letteraria ardua ed evoluta, facesse da schermo a qualcosa di inquietante, indicibile e non detto, che dona a questa prima parte un sapore misterioso e notturno.

Così la poesia affronta il tema dell’amore che c’è stato, che c’è ma non si sa, amore forse ora finito… la poesia ci rende conto delle sue ferite e delle sue gioie, del senso di libertà (“libero volo”) e delle esperienze emotive che lo caratterizzano. Questo emerge con evidenza nelle poesie in cui l’eros intaglia la pagina: “…le parole proibite/seminate sui fianchi, /le parole dell’amore” ; “…dentro i tuoi occhi nudi/l’orbita dei miei fianchi,/baccanale celeste/ per saltimbanchi”. Ma tutto è sempre controllato, sottoposto al vaglio della cura letteraria e sempre ritorna l’ombra del ricordo a confondere le acque, le immagini, i piani del pensiero: “quando l’amore stride/ irriverente/ e inventa il suo ricordo/ perché il tempo si spogli/ di un Dio sordo.”.
Già, perché non c’è solo quel che ricordiamo, ma c’è sempre anche quel che pensiamo di ricordare, c’è anche quel che ci inventiamo e chiamiamo ricordo… Ma questo è un modo di essere della letteratura: che è capace di intrecciare finzione e verità, realtà e immaginazione e di essere comunque autentica, proprio perché in grado di restare in equilibrio tra mondi diversi. Non a caso una delle poesie di questa complessa prima sezione, s’intitola proprio “L’equilibrista”: “Uno stelo di fumo/ avvolge la sua fune, /ci camminai bendata/quando il circo/pronto per la partenza, /chiudeva gli animali nelle gabbie” … /Tesa sotto la corda per errore/la tua rete di pescatore”.

Colpisce in questa sezione la capacità di Carla Mussi di tratteggiare con precisione stati d’animo, situazioni, segreti, pensieri nascosti sempre, come detto, filtrati da una forma letteraria che funge da rifugio e argine alle tensioni stesse. E colpisce la stringatezza del verso: non è solo breve, ma è anche secco, carico d’asprezza sia pur placata dal bacio delle rime. “Nessuna geometria, /solo il passo di tango d’un artiglio/ il mio sorriso da ladra/la tenerezza dura, brada.” E poi ancora “Mi prendevi alle spalle/mi prendevi alla gola/eri dolore che conviene/la bussola impazzita, /garza che accoglie il taglio, /senza ferita” e più in là in un’altra poesia “L’amore ha un prezzo/che si paga in natura”. Questo, come altri versi successivi (“più che nel ventre/ti ho cresciuto /nel costato”, oppure “una mancanza che fa il desiderio/ lo appaga”) lascia intravedere un’altra caratteristica della sezione: la sua voglia di fissare un punto, di tanto in tanto, di stabilire una pausa, una definizione, una voglia di “sentenze”, un afflato epigrammatico che compensa il girovagare dell’immaginazione poetica, il faticoso viaggio della memoria.

Poi, d’improvviso, un cambio di tono: “E’ la casa del tempo, /fuori un’aria di pioggia/ apri la porta, presto/apri la giacca/apri le braccia/ tutto era così chiaro/ apri gli occhi/apri le labbra, /strappa via quella stella/che corrompe l’aurora/non c’era traccia di nuvola, non fu notte, ora”. La lirica irrompe improvvisa e lo fa usando strumenti linguistici tipici della tradizione novecentesca consolidata, ma qui efficaci e tutto qui suona esatto, atteso, attenuato e limpido, come a spiegare il perché delle tensioni, degli ferite precedenti. E da qui in poi la stessa sezione si apre ad altri passaggi. “Per un dono affilato/che affonda nella carne/ avere troppo amore, /non sapere che farne”: siamo in una sfera più aforistica adesso: “La gioia è una corrida/che infilza nell’istinto/la sua eleganza cruda”, oppure si legga “Sei la periferia/del sogno che rimane” o ancora “la memoria si impara” anche se è “un calendario appeso/senza più giorni/dove ora scrivo/ a chiare lettere/torno a trovarti”.

La seconda parte (“I luoghi”) non abbandona il tema della memoria, del ricordo, ma lo declina in maniera diversa. La poetessa ora sembra in qualche misura cercare un riparo dalla tempesta del ricordo stesso. Se prima si era come esposta, sia pure in parte protetta dalla forma poetica e dalla lingua, ora cerca una nuova via d’uscita in una riflessione, ovviamente sempre di natura poetica e poetante, che è letteraria certamente, ma che aspira ad un livello più alto.

Come ha sempre notato Pontiggia nella sua prefazione “la seconda sequenza della raccolta sembra presagire una volontà di fuga e di evasione dal bosco d’amore finora delineato: ancora una volta la poesia si snoda in figure di consolidata materia narrativa, come quella del doganiere che sbarra ogni via di fuga”. Già perché è alla poesia che non si può sfuggire, a quel filtro che obbliga lo scrittore a trovare un modo diverso di dire se stesso, aprendosi ad altro, a qualcosa che può appartenere a tutti noi.

Le scale qui non hanno provenienza/tranne che nel respiro/ e da sotto la porta/un ago sottilissimo di luce/aspetta il suo fachiro” (Il ritorno”); “Lungo il viale delle cose/l’ombra diventa gelo/dirama l’ossatura/ che scherma il cielo/affonda la radice/ apre le fondamenta” (“Piccole cose crescono”); “lo strabismo d’un volo/sbanda verso una terra/senza promessa/ per voce sola” (La preda non si cura”): “teneva in bocca una stella…pendeva dal grecale della cattività/il mio doppio/ il mio cappio/”. E così Carla Mussi propone dei versi belli e freschi. “- Senti come cospira/come scocca/ la violenza che siamo” (“Memoria del giudizio”); “…frattura le radici/con la zampa sinistra/la sporca zampa dei ladri” (Memoria della coscienza”); “Stacco un fiore di ghiaccio/da appuntare ai capelli” (“Parlatorio”); “Ammalare le cose, /custodire l’oscuro/fare nuda la soglia/rivestire la morte/col guardaroba accorto/ della banalità” (“Infiniti imperativi”). Tutti versi che esprimono una consapevolezza poetica, uno stile compiuto e, come detto, più riflessivo: “Gli orari ferroviario sanno l’ora/di ogni coincidenza/non il tempo sospeso/d’una casa accostata/ al chiasso del binario/…”; oppure “la gioia criminale/di scavalcare il tempo”, gioia che appartiene al poeta come a tutti noi.

E dopo le risonanze collegabili a Giorgio Caproni della prima parte, qui incontriamo (a parte alcuni passaggi legati addirittura alla canzone d’autore: “io che non ho giudizio/ e non ho temperanza” è la parafrasi di una verso di Ivano Fossati e Fabrizio De André; così come il gioco tra “Dormi come si deve/ tra un cucchiaio di gelo/e una fetta di neve” ricordano ancora Ivano Fossati ) anche Sandro Penna: “Al ragazzo che fuma/guardando brulicare/ il sole sull’intonaco,… l’attesa assoluta/ di poter contare,/la cifra è il mare” (“Lucignolo”). E non solo per l’eco tematico o lessicale, ma anche per il gioco sonoro: ”Il tempo rovesciato/dietro al reticolato/… Lascia una macchia greve/ una corolla aperta sulla neve” (“Il tempo rovesciato”).

Ma non basta: questa sezione ha come una sorta di sotto sezione: “Il rumore della notte”, che propone 17 componimenti che per Pontiggia sembrano esprimere un io poetico “ormai alla mercé dei suoi stessi strumenti espressivi, delle parole e dei segni con cui ha ordito la sua vicenda di luoghi e di memorie”. E certamente entrano in campo immagini inattese rispetto al lessico sin qui usato: “zanne di ciminiere….l’odore acido e sicuro/del ciclostile”, oppure “Oltre il girone del laminatoio/la conchiglia del buio riecheggiava/un canto di murena/ e l’eco ruzzolante/ d’altoforno mai spento”, immagini pittoriche che ricordano Sironi e i suoi paesaggi industriali (infatti leggiamo, come in una dolente filastrocca “Sahara industriale/ cielo di sciarpa berbera/scarti di cokeria/macerie, archeologia…”; e colpisce il gusto estetizzante, ma efficace, di versi quali “Distilla la vertigine/spirale di serpente/d’ogni ramo il glicine/che preme verso l’alto/contagio delle foglie/divina sproporzione/luccicante d’insetti/di sogni infetti”.
Oppure incontriamo il gusto della metafora definitoria che come in un caleidoscopio rincorre il suo senso e significato: “Senza elettricità/guida in silenzio, /la proiezione in scena/ è la forma del corpo, /lembi di stanza, lune di candela/epifanie terrestri, /tagliole d’ambra/ serpi di chiarore, /il nucleo della vita…”. Oppure ancora, e ritorna precisa, l’idea di una poesia pensante in mezzo a tanto clamore di emozioni: “Il vizio che le afferra/viene al mondo/dalla parola aperta, /meretrice/ offerta”; o ancora in “Foto sul documento”: “Un sorriso che resta/senza attecchire/ lo scarto del tempo/una denuncia di smarrimento” … Come quando il “Desiderio” è colto nel suo sfiorire “Ora è tempo di stallo. /Il mio regno per un cristallo”; come quando la “Conoscenza” è “quel salmastro che in gola/è la risacca della tentazione/ di conoscere il vero…”.

L’ossessione del tempo è propria della poesia di ogni tempo e qui la ritroviamo dispiegarsi lungo tutta la raccolta che si chiude con due poesie significative. Una che rimprovera il tempo della sua arroganza, ma che coglie anche l’impossibilità del poeta di sottrarvisi: “Il tempo era arrogante/faceva piazza pulita, /teneva un talismano tra le dita. /Avevo di che resistere. /Sapevo che sapere la memoria/è insistere/ insistere”. L’altra, l’ultima, chiude il cerchio del ricordo dell’amore e dei luoghi in uno spazio tombale necessario, quanto paradossalmente aperto: “L’unzione estrema da te, /l’incoscienza dell’acqua, un oblò di occhi chiari, /giochi subliminali/che ingannano lo sfondo. / I luoghi ci abbandonano”.
E l’apertura sta, a mio avviso, nella consapevolezza del poeta che è proprio la letteratura che ci salva, che apre una dimensione altra al nostro dolore, al nostro smarrimento. Uno schermo che protegge nel mentre che ci espone. Magari c’è della finzione, ma è bene che sia così perché così diviene poesia, letteratura.

Stefano Vitale

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Note sull’Autrice
Carla Mussi è nata nel ’62 e vive a Piombino. 
Ha pubblicato “La vera morte del pesce viola”  (Edizioni Gazebo,  Firenze, 2000), il racconto “Il filo freddo” all’interno dell’antologia “Scene da una storia mai scritta” (Edizioni Moby Dick, Faenza 2003), la raccolta di poesie “Il cattivo dono” (Puntoacapo editrice, Novi ligure 2014)  (Premio Energia per la vita 2014, Premio Internazionale letteratura Napoli 2014), la plaquette di foto poesie “La notte delle faine” (Puntoacapo editrice, Novi ligure 2015), la raccolta “Sconto di pena” (Puntoacapo editrice, Novi ligure 2016) (Premio Il Sigillo di Dante  2016; Premio Città di Latina  2018 ).

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