Antologia personale 2023
Cinque poeti per la fine dell’anno: 
Laura Pugno, Enrico Testa, Cristina Alziati, Riccardo Olivieri e Massimo Morasso

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Laura Pugno (“I nomi”, La nave di Teseo, Milano, 2023)

…..Laura Pugno è una scrittrice poliedrica che si dedica al romanzo, alla saggistica, al cinema e al teatro, ma per me è soprattutto poeta. In questo suo ultimo libro ritroviamo il suo stile poetico sospeso, che procede per respiri, che ricerca lo spazio esatto tra la parola e il silenzio. Sempre più essenziale Laura Pugno s’interroga sul senso della scrittura e della necessità di dare con la parola un senso alle cose attraverso la nominazione. Ma nel fare questo esprime i suoi dubbi sulla condizione soggettiva, sulle relazioni tra le persone e le cose. Il tema è appunto quello della “relazione”: il cuore della poesia è l’altro, il “tu” come forma dell’identità mai data definitivamente.
E qui emerge il tema dell’amore e dei sentimenti. Per Laura Pugno è come vi fosse un circuito metafisico tra soggetto e mondo: il tu e l’io, il mondo intero e ogni sua parte, la sabbia e l’erba, il corpo e la lingua, la luce del sole e l’ardore del fuoco, il silenzio e la parola sono legate da un filo sottile, ma tenace. “Le parole sono il nome d’amore e gli altri nomi del mondo. Torna sempre però prepotente l’ansia per l’esito del dire poetico, del trovare la parola esatta per dire, con ritegno e garbo, la profondità dei sentimenti, senza enfasi, senza clamore.

La mente crea
il tu dalle menti e dai corpi,
il tuo,
i tuoi,

il tu che è il bosco dove si nasconde
quello che non ha nome
ed è detto
luce, stella, con intermittente
il suo – perduto, perduto –
codice Morse.

La sola lingua che conosci
la forma che conosci come amore,
in uno,

assoluto,
assoluto.

Così ti parla, mente corpo
tra menti e corpi, e le parole –
ogni tua parola –
sono il nome d’amore e gli altri nomi del mondo.

***

Dillo allora,
diglielo con lo stridio delle rondini
che siamo ovunque,
non esiste distanza,
quello che dicevano gli uomini della divinità.

L’umano del divino,
o delle anime dei morti.

Come il pensiero di te
appaiono all’alba e al tramonto:
il luogo comune,
la prima e ultima cosa. In realtà
il primo e ultimo movimento della luce
e il luogo della luce,

o giorno,
o notte.

Non esiste distanza, le rondini dicono questo
– diglielo –
ed è detto a te.

…..@@@

Enrico Testa (“L’erba di nessuno”, Einaudi, Torino, 2023)

…..Testa è certamente uno degli autori più rilevanti del panorama poetico. Egli rappresenta una sorta di congiunzione tra la grande poesia del Novecento e la contemporaneità. O meglio, egli incarna uno dei migliori esempi di come la tradizione sia in grado di rinnovarsi restando a se stessa fedele. Testa, inoltre, ha la capacità di proporre una visione del mondo che resta, per così dire, in equilibrio, tra il tragico e il disincanto, tra il “tiepido soffio” delle piccole cose e la riflessione universale sul nostro destino. Lontano dal nichilismo di maniera, Testa sa concentrarsi sui tema dell’ombra, sull’eco sfuggente delle cose offrendo una poesia riflessiva e profonda, una poesia che si confronta col mondo nel momento in cui cerca nella “vita plebea” delle piante, degli animali, dei morti una sana posizione di ascolto defilato, per nulla distratto o distaccato, per nulla ripiegato ma fortemente critico dell’inutile apparire, della vanagloria dei tempi “moderni”.
Testa è consapevole che la poesia è sospesa tra il “già stato e il mai pensato”, ma la sua poesia è così elegante e raffinata da apparire sorprendente e, soprattutto, capace di creare lessico poetico inatteso. Al centro di questo nuovo libro stanno quindi “le erbe di nessuno”, erbe che vivono in ambienti ostili, e che finiscono, come il taràssaco (già amato da Emily Dickinson), in un soffio nel vento. Ma ancor di più al centro abbiamo la riflessione sulla lingua, sulla posizione del poeta oggi che ben si identifica con le metafore che attraversano la raccolta. Il volume è impreziosito da alcune versioni da Quevedo, Larkin e altri grandi autori: poesie in cui Testa si identifica totalmente tanto da farle sue nella forma e nel senso profondo.

calpestato sui crocevia,
s’abbassa esita poi tira su la testa.
Resiste a ogni angheria.
Strappato, di lui resta
– là sotto, nel profondo buio –
un pezzetto di radice
che rigermoglia
tra pietra creta limo e carestia.

Taràssaco, povero nome sliricato
che sa di terra remota e familiare
crepitio di sibilanti
benditura della voce
Biscia della lingua
figura e cancellatura,
taràssaco – viva vita
taràssaco – poesia a matita

***

…..Dermografismi

non c’è bisogno di tatuaggi,
di caratteri esotici, iniziali,
figure, spade o fiori.
Il mio corpo si scrive da solo
senza mani, stili o aghi altrui:
appaiono linee dritte, arabeschi,
serpentine, linee curve e involute.
Ricordano quelle
che sulle braccia di antichi marinai
disegnavano perduti salmastri cuori.
La mia pelle è una pagina
dove s’incide
quanto mi si agita dentro
quanto mi tocca da fuori.

…..@@@

Cristina Alziati (“Quarantanove poesie e altri disturbi”, Marcos y Marcos, Milano, 2023)

…..Undici anni dopo Come non piangenti, Alziati ripropone la sua poesia misurata e misteriosa, evocativa quanto diretta: i suoi versi sono attraversati da un’urgenza, dalla necessità dell’invocazione autentica a conservare ciò che rischia di andare perduto («Fate presto, nulla sarà risparmiato / dicevi alle ombre, al fogliame / ai resti nella macchia»).
Nel suo mondo poetico vibra la dolente considerazione per un mondo che «ha odore (…) di perdita», in cui continuano ad aprirsi le tremende ferite della Storia. In questo libro troviamo infatti anche una sorta di mappa degli sconfitti, da Rosa Luxemburg a Lenin, dall’Iraq a Kabul alla Bosnia. Alziati ci allerta sulle sorti di «una stirpe / fecondamente intenta / a sterminarsi» e la sua sola «certezza», come persona e poeta, è la sua inimicizia al proprio secolo («posso dire soltanto / contro che cosa, a volte, ho scritto»). Restano fermi il dialogo con la figlia, che è parte di questa poesia, prima come dedicataria e poi come voce interna al testo. D’altra parte, abbiamo l’elemento naturale, nel suo splendore oggettuale, nella sua intatta immanenza: un vero e proprio contraltare della transitorietà e della piccolezza anche morale dell’umana specie: «I favolosi nuvoli e i germogli / e i rovi esistono, e l’insensata / chiarità dell’alba (…). / Alla mia porta invece / non ha mai bussato nessuno»). Il testo è ricco di presenze naturali: le ghiandaie, la lucertola, l’acacia, i larici che sembrano racchiudere una enigmatica, «ignara» sapienza: «Dentro il muro sonoro di cicale / di sghembo al mio passare / si alza in volo, dall’ombra, l’airone cinerino».

…..Autoritratto

Lungo tutto l’inverno
ho spezzato i rami all’alloro
ho reciso i nudi steli della rosa
divelto fra le crepe dell’argilla
ogni verzura. Ma durano radici
sotto terra, e mostruosi a febbraio
spaccano il suolo germogli.
Io ora ho sonno per sempre.
Dunque alzati, Lazzaro, per un’ultima volta.
Per un’ultima volta sparisci.

…..D’Europa

O forse nemmeno il lichene
verrà risparmiato, o la luce di oggi
è già oltretomba. Le settimane andate
possono alternativamente dirsi
pace o deserto, ormai fa uguale.

Io a malapena qui odo
tubare il colombo che all’alba
viene a posare sopra la ringhiera
su una coltre di neve. Nel panificio
più costoso d’Europa
in largo La Foppa a Milano
cercava briciole di pane.
Ammazzalo, gridavano – elegantissimi
a quello di loro con il bastone in mano.

…..Culla
…..(a mia figlia)

La biologia che in un istante
me porterà a non più esistere
mentre tu duri, l’immagine
che sarai tu a soffrirne, questo
vorrei dirti, è il doloroso lascito
che porta il nostro amore.

Ma tu, cosa ne sai del mio soffrire?
risponderesti, e invero
è solo tuo il sapere.
Ma nostra è la chiara mattina
e il vento, in cui guardiamo
le foglie tremanti e le gracili tele
da qualche ragno tessute nella notte
cullare imperturbata la rugiada.

…..@@@

Riccardo Olivieri (“Restare vivi”, Passigli, Firenze, 2023)

…..Scrive Claudio Damiani nella prefazione: “Colpisce di questo libro, fin dalle prime poesie, il «tremore nascosto di ognuno», oppure, similmente, un «delicato immortale brulichio / di fronte al mare». Un vibrare che pervade tutto, come il respiro del tutto (come se il tutto fosse vivo, come vivo è ogni essere particolare). ….Riccardo osserva, ogni verso è un’osservazione, di cose semplici e quotidiane, una persona, un gesto, gente in tram o per strada e l’immagine si illumina come di una sabbia d’oro che rivela il sacro dell’essere. E nasce immediata una preghiera”.
Ma molta parte ha quella che potremmo definire “osservazione sociale”. Perché Olivieri è attento, come lo è da sempre, al mondo reale, alle sue contraddizioni politiche e storiche. La sua è anche poesia civile, poesia che si schiera dalla parte dei deboli, degli sfruttati, di chi lavora e coglie il lato poetico della lotta, della sofferenza: “ha una scatola gialla e soffre pedalando” (Rider che mi passa a fianco).
Olivieri è un poeta perché pensa in modo poetico, anche quando si abbandona alla forma epigrammatica. Olivieri cerca l’immagine, il sussulto, lo scarto, la pausa e la vertigine e che non si lascia mai accalappiare dal nichilismo. Certo “sente” la nostalgia, esprime la sua fragilità umana fatta di sentimenti (c’è il lui una sorta di “sentimentalismo” montaliano), si scioglie al pensiero dei suoi affetti più cari, è consapevole delle maschere che ogni giorno ci e gli tocca indossare e sa che “la nostra parola contro/tutto quel ferro/ che può fare?”. Ma sa bene che “…una partita/ tutta giocata in difese/ cos’è?”.

…..In ultima analisi

Cercare – incessantemente –
Ripetutamente nella vita
Quell’unico momento lì:
luce che ci penetra e
……………………..a lei
ci concediamo inesistenti.

***

…..18 agosto

Sulle panchine in Corso Fiume
……………………..figli di papà
di qualche famiglia bellissima
…………come ne cent’anni fa,
purissimi florigiovni sorrisi,
sedicenni di Capitali
si sorridono
……………….si parlano pacati
come chi ha
………………………come chi è
………………………………..già

***

Che il mio manichino resista

lo chiedo da tempo, ma non mi basta.
Quando il mio manichino pronuncia una parola, quella
………………………………………………………….è mia
non sua. Lo abito ma non so se sono lui.

Ha preso forme strane – ultimamente – il mio manichino,
colori di vecchio, argentei e più vicini alla morte.

Ma in fondo cos’è, la morte di un manichino’ (cos’è?) Io
Non sarò con lui quando muore.

…..@@@

Massimo Morasso (“Frammenti di nobili cose”, Passigli, Firenze, 2023)

…..Dopo la recente riproposizione in un unico volume (La leggenda della primavera) di precedenti poesie scritte tra il 1997 e il 2000 già edite in tre placchette, Morasso ci offre sul finire dell’anno una raccolta nuova. Colpisce ancora una volta la necessità di interrogarsi sul senso, sulla direzione della poesia che già dalla prima poesia guarda verso l’interno.
Ma non c’è intimismo, quanto ricerca di verticalità e intensità. E’ come se il poeta volesse restare dentro di sé per poter meglio far luce fuori di sé. Ermetismo filosofico che si pone contro il mondo, non per negarlo, polverizzarlo, ma per coglierne i valori e gli elementi essenziali, autentici. Ritroviamo qui dei modelli di pensiero poetico già incontrati negli autori di questa piccola antologia personale. La natura, il paesaggio, il senso dell’essere nel paesaggio e nella natura sono qui importanti perchè permettono all’uomo, al poeta di guardare alla “fine del mondo” come si trattasse, giustamente, soltanto di “un fatto come un altro”. Morasso non è lamentoso, epidermico, non cerca l’autoassoluzione e la consolazione.
Eppure la voce del poeta è consapevole di tentare di “dare voce alla scintilla/dell’eterno che mi abita nel tempo” e che il suo destino è di perdersi “nello splendore dell’istante”. Forti sono i riferimenti alla grande tradizione poetica, a Caproni primo fra tutti (“… il problema di Dio/ non lascia scampo all’io”), ma anche a Luzi (“Luce, però, tu non abbandonarmi/al mio sgomento: avvicinami.), oltre che Montale (“Schiocca la lingua/ e asserve le parole al sillabario/ soltanto quando mi possiede” – anche in controcanto: “Spesso / mi è capitato di incontrare/il bene di vivere”…smaltandoci d’azzurro”).
Morasso scrive “per salire sprofondando/alla casa della parola” e c’è un pathos religioso, sicuramente spirituale nel suo incedere, qualcosa di nobile, appunto che lo induce a spossessarsi “del poco che io sono” per “abbandonare tutto/ nel vuoto senza nomi” e finisce per chiedersi come sia possibile “che qualcuno ascolti/ il nostro vocio/la parola/l’ininterrotto ronzio che facciamo/ per misurare quello che c’è/ e quello che non c’è”. Eppure è la parola ancora che può “costruire un fortino contro il nulla” e con essa la cura per le cose belle perché con semplicità e sincerità “le cose belle danno sempre gioia”.

Il vento che mi detta
soffia, stamattina, ricordandomi:
per me tu parli,
per me tu susciti i significati
e unifichi le cose alle parole
sposandole nei nomi.

Il refolo che soffia

al mio risveglio ha sussurrato:
per me tu insegui il vero,
la luce del tuo fuoco,
la tua chiarezza oscura, solo tua,
di te che incontri un tu
nella semenza, provvida, del Bene

***

Se la smettessi di scrivere poesie
diventerei un ostaggio del pensiero
che tende a far del Tutto una materia
del comunicare: il reservoir
di uno sproloquio cosmico, infinito.

***

Se all’improvviso, in un sentiero di campagna,
dietro a una curva mi apparisse un sorbo
forse neanche me ne accorgerei,
e il sorbo rimarrebbe lì a guardarmi
dalla compressa densità di un cosmo
chiuso in sé, anch’esso in viaggio, come me,
meno terragno, chiamato a evocarne la bellezza
in qualche frase esatta, solidale.

***

Sazio di sciocchezze, di versi scritti
per costruire un’immagine
mi sono mosso per salire sprofondando
alla casa della parola.
Qui i suoni fluttuano simili a ectoplasmi.
È bellissimo il silenzio dei poeti!
M’imbatto nei nomi come in un miracolo,
li assemblo tra i segni in cui mi riconosco
e sillabo, sgranando in una riga
a mezza altezza, terra e cielo,

poesia non è, dove non c’è mistero...

***

…..Stefano Vitale

***

 

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