“Averno” di Louise Glück
(Il Saggiatore, 2020)

La delicata tristizia di Louise Glück

…..“Averno” è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 2006, quattordici anni dopo L’iris selvatico, la raccolta che aveva fatto conoscere Louise Glück in Italia nel 2003.

…..L’Averno, ci dice la citazione della prima pagina, era l’oltretomba: «Averno. Dal latino Avèrnus./ Laghetto craterico a sedici chilometri/ a ovest di Napoli, che i Romani/ credevano fosse l’ingresso dell’oltretomba». Ma esso è una metafora che indica uno stato della vita dell’autrice che, rivissuto attraverso la lente della letteratura, consente una nuova visione del presente. Ogni sua raccolta (e qui mi riferisco alle due pubblicate in Italia) ha infatti sempre una struttura unitaria ed una narrazione sorretta da un progetto poetico.

…..Potremmo definire Averno un libro che racconta poeticamente la dimensione contraddittoria e ambivalente di una crescita, ovvero la maturazione di una donna attraverso esperienze dolorose che rimontano all’infanzia, alla vita matrimoniale che si mescolano con nodi esistenziali mai completamente risolti.
I riferimenti sono spesso autobiografici: la sua poesia resta all’interno, da un lato in questo confine e, dall’altro lato si apre a riflessioni e prospettive più universali. L’esperienza personale e familiare s’intreccia con il tema delle contraddizioni e delle ipocrisie sociali che investono la sua stessa educazione sentimentale, i rapporti coi genitori e da qui con una serrata e ossessiva riflessione sul tema dei disagi relazioni e poi con il dolore e l’incontro con il rischio della morte.
Non è un caso se il filo conduttore di queste poesie sia Persefone e la sua discesa – apparentemente forzata – nell’Averno. In questo modo l’autrice sviluppa una sua personale ricerca-meditazione sul tema, appunto, della morte che appare sia come mistero terrificante che come liberazione: così il vuoto, l’assenza pare essere una sorta di giusto equilibrio dopo la vita e, nella vita stessa, si mostra come una sorta di capacità di prendere le distanze, direbbero gli psicoanalisti, controllando le emozioni per “evitare” danni e sofferenze maggiori. L’autrice in questo libro si mette a nudo e si offre alla lettura come in un diario che descrive la vita che ha attraversato.

…..Ciò lo si afferra sin dalla prima poesia: Le migrazioni notturne:«[…] Allora cosa farà l’anima per rinfrancarsi?/ Mi dico che forse non avrà più bisogno/ di questi piaceri;/ forse già non essere basta del tutto,/ per quanto sia difficile da immaginare.»

…..Come ha scritto Josè Vicente Quirante Rives nella postfazione, la migrazione di cui si parla nella prima, decisiva poesia, è appunto quella che va da sé a sé: “i personaggi non sono persone. Sono aspetti di un dilemma o conflitto”. Louise Glück affronta i temi della maturazione, della crescita, dell’amore, della morte per riprendere il suo fondamentale filo poetico: quello di meditare sulla solitudine e sullo sgomento che nasce dalla sostanziale incomprensione tra gli esseri umani. La poesia si mette, ancora un volta, sulle tracce della sua “preda” direbbe Giorgio Caproni, ovvero il senso della vita, quella ricerca di sé che potrebbe in realtà rivelarsi qualcosa senza significato, senza logica e scopo.
Nei versi di Glück, sia direttamente che indirettamente, si esprime una continua riflessione sul tema dilemma, del conflitto. Eppure ci si trova anche a fare i conti con la spiazzante tenerezza dei versi che nasce da una sorta di “neo-oggettivismo” linguistico che crea instabilità, perché inaspettato, freddo, spietato nel suo dare voce a queste impressioni. La sua poesia oscilla tra il quotidiano e l’assoluto, tra la semplificazione disarmante delle cose così come si presentano e la complessità delle implicazioni esistenziali e filosofiche che lo scontro tra l’io e il mondo implica. Glück non si nasconde e racconta della violenza che ha dovuto attraversare, della pesantezza della sua esperienza personale, ma anche della leggerezza che ha saputo trovare e conquistare giorno dopo giorno: “Era un tempo/ governato da contraddizioni, come in / non sentivo nulla e/ avevo paura/ (pag. 99) e ancora “il mio respiro era bianco, una descrizione del silenzio” (pag. 99)“ non abbiamo sparso i semi, / non eravamo necessari alla terra, / le viti sono state vendemmiate?” (pag. 19). La sua poesia è “una ferita sempre aperta” eppure capace di riconciliare il lettore con una dimensione di pacifico distacco dal mondo che ha del sorprendente: “…Poi/ l’immagine sbiadiva/Sopra il mondo/ c’era solo blu, blu dappertutto” (102/103); oppure “Sono stanca dell’umano/ lei disse/voglio vivere sul sole” (pag. 127); “La nebbia e diradata – / E’ come una vita nuova: / non dipendi dalla conclusione; / conosci la conclusione” (pag. 147).

…..In Averno troviamo spesso immagini dell’inverno. Come già ne l’Iris Selvatico, in effetti la natura e, in particolare, le stagioni hanno sempre un ruolo anche metaforico importante. In più, qui, Persefone è figlia della dea della Terra e regola l’avvicendarsi delle stagioni. Come narra il mito, Persefone è stata rapita da Ade. Glück la rappresenta come una ragazza che fatica a trovare il suo posto nel mondo e rischia di rimanere schiacciata da forze più grandi di lei. Ed anche in questo il richiamo autobiografico è evidente (l’autrice è una ex-anoressica che ha attraversato quindi fasi difficili nella vita). “la violenza mi ha cambiato” scrive a pag.21 e nella stessa poesia si apre un contrasto tra il corpo e la mente: “Senti questa voce? E’ la voce della mia mente;/ ora non puoi toccare il mio corpo/… Il mio corpo è diventato freddo come i campi spogli;/ ora c’è solo la mia mente, cauta e guardinga, / con la sensazione di essere messa alla prova” (pag. 21).
E ancora “Gli esseri umani traggono profonda soddisfazione/ al fare del male, specie/ del male inconsapevole” (pag. 39). La questione è dura: “come l’interno della mia testa:/ puoi vere fuori/ ma non puoi uscire fuori” (pag. 137).
Per alleviare il dolore occorre mentalizzare l’esperienza, astrarre e astrarsi e la natura, coi suoi cicli precisi e ordinati, è un sostegno fondamentale: “Ancora una volta, il sole sorge come sorgeva in estate;/ ricompensa, balsamo, dopo la violenza.” (pag.22). E ancora “Dimmi che questo è il futuro,/ non ti crederò./ Dimmi che sto vivendo,/ non ti crederò” ( pag. 22) rovesciando continuamente le carte dal tavolo.

…..La sua poesia quindi gioca continuamente tra la fuga dal mondo e l’immergersi nel mondo: “Vieni da me, disse il mondo” (pag. 25)…”Ciò che altri hanno trovato nell’arte,/ io l’ho trovato nella natura. Ciò che altri hanno trovato / nell’amore umano, io l’ho trovato nella natura … Ma lì non c’era nessuna voce” (pag. 25). E la conclusione è coerente: “la morte non può farmi male/ più di quanto tu mi abbia fatto male, /amata vita mia” (27). Questa chiusa è semplice apparentemente eppure una bellezza spiazzante per via dell’improvviso rovesciamento di prospettiva, per il contrasto ossimorico della realtà che ricorda Eliot. Ma Glück gioca, come detto da un lato, a nascondersi dietro i vari personaggi mitici evocati: Persefone, appunto, disorientata e incerta nella sue scelte e desideri; Ade, che le costruisce una casa nel suo regno oscuro sperando che ci si trovi bene.
Ma, dall’altro lato, si offre nuda alla vista del lettore ed è proprio lei stessa che ci coinvolge nel suo conflitto di persona che desidera la vita ma sente che la morte è altrettanto vicina: «Una luce soffusa si alza sopra la distesa del prato, / dietro il letto. Egli la prende tra le braccia. / Vorrebbe dire ti amo, niente può farti del male // ma pensa / questa è una bugia, quindi alla fine dice / sei morta, niente può farti del male / che gli sembra / un inizio più promettente, più vero».

…..Nella raccolta, questi “passaggi di voce” identificano anche la necessità/desiderio dell’esperienza dell’incontro con l’altro che è sempre un incontro al buio, un rischio mai calcolabile. Ma né Persefone, né il poeta si tirano indietro, perché è nell’esperienza che si può crescere e comprendere la portata del proprio limite. Senza il rischio non c’è vita: “Voglio/ indietro io mio cuore/ voglio sentire tutto di nuovo – … perché “non è in fondo/ interessante ricordare”.
Questo desiderio di liberarsi dal passato si alterna all’inevitabile confronto con ciò che è stato. Sempre in “Le migrazioni notturne” l’autrice osserva il volo notturno degli uccelli migratori, contempla il ritorno dell’inverno, del freddo che stringe la terra, e le sue ferite ci ricordano quello che abbiamo perduto o sprecato. Ci ricordano anche che l’estate finisce sempre troppo presto, e che le tregue dalla morte sono sempre troppo brevi: «L’occhio si abitua alle sparizioni. / Non sarai risparmiata, né ciò che ami sarà risparmiato. // Un vento è venuto e passato, smontando la mente; / ha lasciato nella sua scia una strana lucidità. // Quanto sei privilegiata, ad aggrapparti ancora con passione / a ciò che ami; / la rinuncia alla speranza non ti ha distrutto. // Maestoso, doloroso: // Questa è la luce dell’autunno; si è volta su di noi. / Di certo è un privilegio avvicinarsi alla fine / credendo ancora in qualcosa».

…..Nei suoi versi Louise Gluck cerca un rapporto diretto con il lettore, costringendolo alla condivisione di quella esperienza: la lettura ricorda una forma di confessione narrativa che si presenta, come spesso in questi testi, ripetitiva, piuttosto ciclica, rituale (“è di nuovo inverno, è di nuovo freddo”, così si apre ad esempio la poesia Ottobre). Questa costanza del ritorno (dell’inverno, dell’autunno, del freddo, della morte, che per certi versi pure potrebbe far pensare a un Eliot riletto in maniera particolare) sta lì a segnalare il continuo impietoso ripresentarsi, come detto, delle ferite della brutalità del mondo, che Glück non guarda con autoindulgenza, ma racconta con chiarezza di linguaggio. Che colpisce per la sua immediatezza, per il suo essere diretto, quasi parlato eppure così straniante: l’apparente “ingenuità” non fa che aumentare l’impatto meditativo e coinvolgente del verso.

…..Così molto spesso il discorso cosmico, sulle verità generali, è riportato sul piano prosaico della vita di tutti i giorni (“devi augurarti, per il bene del contadino, / che l’assicurazione paghi” e si legge in Il biancospino che “gli esseri umani lasciano / segni di sentimento / dovunque”, e alla poesia spetta il compito di ricercarli) ma il rimbalzo è sempre verso qualcosa che inquieta si agita dietro l’apparente normalità. Probabilmente questa è la cifra necessaria di una poesia così lacerata dal dubbio: “Come se l’artista avesse / il dovere di creare / speranza, ma con cosa? cosa?” e continuamente protesa a interrogare se stessa tanto che il suo incedere auto-dialogico fatto di domande e risposte sospese, sembra creare una situazione da seduta psicanalitica.

…..La poesia di Gluck vive, lo abbiamo ribadito, in una condizione di ambivalenza: “La parola era un codice, misterioso, come la stele di Rosetta. / Era anche un cartello stradale, un avvertimento” e che tuttavia è in grado di offrire un certo conforto (“Non sei sola, / diceva la poesia”), proprio come il mondo naturale, che si presenta con le stesse ambivalenti caratteristiche dell’arte: la terra è sia bellissima (“mi è apparsa di nuovo / una visione dello splendore della terra”) che fonte di dolore; è miticamente madre e donna e morte. Così accanto al tema della fine, la poesia di Glück è anche animata dal riproporsi di immagini di luminosità, di nascita e di rinascita, spesso connessi, come detto, con la natura, ma anche con la memoria (intesa come processo di evoluzione e non come rimembrare puro).

…..Questa è una poesia d’aria e di luce, che si tratti di quella fredda e gelida della neve dell’inverno o di quella del biancospino; altre volte è poesia terrigna e scura: “Terra. Frammenti/ di roccia scheggiata/ Su cui/ il cuore esposto costruisce/ una casa, memoria: i giardini/ pratici, di piccole dimensioni, le aiuole/ umide al bordo del mare” (pag. 49) . E ancora: “Un volta che la terra decide di non aver memoria/ il tempo sembra in un certo modo senza senso” (pag. 151).
Perché di fronte a tutto il dolore, a tutta la violenza, a tutto lo spreco che questa poesia così precisamente racconta, il corpo, attraverso cui mondo è vividamente esperito, rimane tenacemente ancorato alla vita e al desiderio “depressa, sì, ma in qualche modo / appassionatamente / attaccata all’albero vivo, il mio corpo / effettivamente / rannicchiato nel tronco spaccato, quasi in pace, / nella pioggia serale / quasi capace di sentire / la linfa fermentare e salire”.

…..Nella motivazione del premio Nobel si citano la chiarezza, la severità e il desiderio di essere universale della poesia di Glück, con un riferimento a Emily Dickinson. In effetti, la poesia di Glück è oggettivamente severa: si esprime attraverso una parola semplice, colloquiale, un lessico con metafore scarne, essenziali e su cui, tuttavia, si condensa una densità semantica forte, grazie alle pause, ai vuoti, ai silenzi, alle ellissi – che danno aria al testo: in quelle faglie della lingua, seguendo la lezione di Emily Dickinson, il lettore è chiamato a interrogare il testo, a condividere la voce individuale dell’io. E infatti Glück è stata spesso accostata alla confessional poetry (si pensi ad Anne Sexton) alla poesia come autoanalisi (“Se la tua anima è morta, di chi è la vita/ che stai vivendo e/ quand’è che sei diventata quella persona” scrive a pag. 73) che cerca comunque una comunione con l’esperienza reale, cosa che esprime il suo versante più whitmaniano: “Il corpo/ si rannicchia nel sottobosco onirico” (pag. 79).
Louise Glück non adopera un linguaggio sofisticato: è fatto di una “strana lucidità” che inquieta e al tempo steso aiuta a “difendersi” dal mondo: “Non sei sola,/ diceva la poesia,/ nel buio del tunnel” (pag.35). Viene poi sfruttato l’ambiente circostante alla narrazione per creare situazioni e significati a cavallo tra la retorica poetica e l’ironia: “Sorge la mia amica luna:/ è bella la notte, ma quando mai non è bella?” (pag. 37).

…..Si può dire che a Louise Glück interessi il “non detto” che si cela dietro l’abituale che fa parte della nostra vita, cosa che le fa dire. «E voglio gridare/ vivete tutti in un sogno». Ed in questa prospettiva assume un valore anche la musica: “Poi iniziò la musica, il lamento dell’anima/ che guarda il corpo svanire” (pag. 87). Musica che è lo spazio/tempo del mistero della vita nascosta nel silenzio della luce ancora da scoprire, luce che “ha il potere di consolare” (pag. 91) dal confronto con “il campo inaridito, secco/ l’assenza di vita già in atto/ per così dire” (pag. 107).
Forse la sua poetica è alla fine racchiusa nella poesia “Presagi” (pag. 167) dove scrive “La mia anima innamorata era triste.. / A tali impressioni innumerevoli/ noi poeti ci diamo assolutamente,/ traendo, in silenzio, presagi al mero evento,/ finché il modo riflette le necessità più profonde dell’anima”. Una delicata tristizia che ci apre al mondo dell’anima, spogliata, infine, da ogni forma di mistica o religiosa vernice.

…..Stefano Vitale

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…..Note sull’Autrice
Long Island è appena fuori dalla città, un tempo era stata rifugio di poeti e artisti eccentrici. Nella primavera del 1943, in questo isola fuori New York, da una famiglia ebrea di origine ungherese, è nata Louise Glück. Suo padre, Daniel Glück voleva essere uno scrittore, tuttavia, l’America della Grande Depressione non era il terreno adatto per i romanzieri. Così, mise in piedi un’impresa di coltelli e sbancò il lunario.
Louise ereditò dal padre l’inclinazione letteraria, ma Beatrice, sua madre, tra le poche donne a laurearsi, trasmise alla figlia l’interesse per la letteratura e per la mitologia classica.
Negli anni del college Louise incomincia a soffrire di anoressia nervosa e riesce a guarire attraverso la psicoanalisi che costituirà uno dei temi principali dei suoi versi. Alla Columbia University, frequenta un seminario di poesia tenuta da Leonie Adams che le mostra una poesia metafisica che vuole deragliare dagli schemi tradizionali.
Louise Glück è stata nominata nel 2003 Poeta Laureato degli Stati Uniti vincendo il prestigioso Premio Pulitzer. Quest’anno (2020) è stata insignita del Premio Nobel per la letteratura. In Italia è stata pubblicato
L’Iris Selvatico (Giano Editore 2003) e Averno (Dante e Descartes Editore 2019) e riproposte in questi mesi da Il Saggiatore.

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