“CENERE, O TERRA”
Fabio Pusterla – Marcos y Marcos, Milano, 2018

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PAROLE  SCOLPITE  NELLA  ROCCIA

Questo libro, come spiega lo stesso autore nella nota finale, raccoglie dei testi scritti tra il 2014 e gli anni successivi. Poesie che hanno come poli attrattivi gli antichi quattro elementi – terra, aria, acqua e fuoco – e questo non perché Pusterla abbia seguito “il calcolo di un progetto” ma perché preda di “un agguato dell’immaginazione”. E in effetti i quattro elementi fungono da impalcatura per organizzare i testi, ma non restano qualcosa di esterno. Essi entrano direttamente nel testo dandogli uno spessore, una consistenza evidente. Non è un problema “tematico”, è piuttosto una visione profonda che emerge da questa “organizzazione”, una visione che rimanda alle strutture mentali e letterarie di Pusterla. Che con questo libro si conferma un autore imprescindibile del nostro tempo, con una sua voce da tempo inconfondibile che qui trova anche nuove tonalità liriche.

Pusterla è resta un poeta per il quale il paesaggio è centrale e fa da tramite per l’attenzione alla vita psichica che qui non è però individuale, ma rimanda ad una humanitas più vasta. Questi tratti sono da sempre presenti nella sua opera, ma qui sono ancora più marcati. Un altro tratto della sua poesia è sempre stato quello della funzione etica della scrittura. Pusterla ha scritto e scrive “poesia civile” moderna ovvero mai retorica, attenta alla dimensione morale dell’impegno. Ma lo ha sempre fatto con passo meditativo, mai urlato, richiamando l’attenzione del lettore sulla necessità dell’indignazione, della resistenza senza trascendenza. In “Cenere, o terra” (verso dantesco dal Purg., IX, 115) Pusterla certo attenua questo aspetto così forte in altre opere (Pietra sangue, Folla sommersa) ma esso è sempre vivo nella sua lirica. La poesia di Pusterla è fatta di versi-frase molto netti, parole scolpite nella roccia, da descrizioni realistiche, precise che indicano una vigile attenzione del poeta alle cose, alle emozioni profonde; il suo incedere è fascinoso, ma sempre lucido, mai banalmente seduttivo e non lascia scampo. Tutto deve tendere ad una dicibilità, ad una leggibilità che non è mai scontata, ma che deve e può risuonare nella mente e nell’animo del lettore.

La raccolta è divisa in 4 parti incorniciate da un prologo (Preghiera della rondine) e da un epilogo (Lucio). La prima sezione è “Pasolini appeso”. In questa sezione, bellissima, abbiamo un saggio della poetica di Pusterla. “Luce invernale” ci mete dinnanzi allo stupore dell’esperienza del vento “luce/ dura scartavetrata dentro l’aria/immobile”, vento che “si è preso tutto, il vento, dolori e nostalgia, /sogni e speranze, quiete. Ci ha lasciato/ bottiglie sopra i prati, sparsi giorni/ increduli, stremati. E’ andato via”. La naturalezza disarmante e potente di questi versi sono la carta d’identità di questo poeta che si sofferma sulle cose senza storia restituendolo loro vita attraverso la poesia. Cose dimenticate, appartate, marginali, incontrate nelle sue passeggiate, incontrate per caso: “nessuna traccia del ponticello, /solo un nome/ fuori logica./…Ponte di terra. Resilienza. Lunga attesa”. Nelle cose, dicevamo, si riflette l’umano, ma non in maniera invasiva o padronale. Le cose restano se stesse “bocciolo che tace”, “terra stremata”, “rissa dei giorni”.

Altro elemento è la memoria. Ma non quella retorica e stanca del tempo passato, ma quella che illumina il presente, ora in uno squarcio di vita metropolitana che coglie lo straniamento del vivere quotidiano, ora assistendo ad un concerto (del figlio) ora in “Stanze del crepuscolo” ripensando al senso, in tedesco, della parola Angst, paura: “economia semantica, riassumere/ in cinque lettere tuto il veneri meno/ della luce. Tutto lo sprofondare/ fra noi”. Il lessico poetico di Pusterla, come detto, è sempre attento, raffinato ma netto e non nasconde l’eco montaliano che gli è proprio: “danzano i cavi adesso in un riverbero/di ferro e di vetro. Danza la coda,/ s’attorce. Una morsa/ stringe il paesaggio impedisce/ non impedisce di sperare. Chiude/ o pare, a seconda. Avvinghia l’aria”. Si noti l’uso dell’enjambement, la ricerca di sonorità interne, la forza evocativa. Capacità di evocare, di cogliere l’apparire-scomparire delle cose la ritroviamo in “Tre apparizioni a Wassen” dove una povera chiesetta è colta da tre angolazioni diverse durante un viaggio in treno e collegato a tre storie di tre ragazze diverse incontrate sul medesimo treno. Guardare la vita con occhi di poeta: davvero speciali questi intrecci inattesi.

Pusterla è poeta della realtà e in “Sovrapposizione a Berlino”, in “Via Trinchese” è la parte “civile”, etica che ritorna in primo piano prima di immergersi nella poesia “Paziente zero” che partendo da un dato di fatto (il paziente zero è il primo umano affetto da una malattia epidemica) esplora poi il senso della poesia stessa che è obbligo interiore, necessità che va controcorrente; che esprime la solitudine dello scrittore, che vive di proiezioni e che “per vivere, muori” trasformandosi “in perdita, in volo/nostalgia”. “E’ il silenzio che protegge la parola”, dice ad un certo punto Pusterla che vede nella poesia uno spazio speciale, una zona appartata, ma lucida, presente proprio perché mai gridata, anzi taciuta paradossalmente. E i suoi versi hanno proprio questa risonanza, questo ridondare di senso dietro l’apparente semplicità lirica: “parto da quel silenzio/in cerca di parola./ Con me porto l’assenza, Stella che non consola”. La sezione si chiude poi con “Ponte del cimitero” poesia costruita come un puzzle di brevi componimenti di quattro versi in rima, pensieri raccolti in una struttura leggera dove la rima appunto sostiene lo sgomento, lo stupore dinanzi alla realtà.

La terza sezione “Nella luce e nell’asprezza” è come se il silenzio delle cose fosse visto come il rovescio del silenzio del poeta che parla dal silenzio, che naviga nel silenzio come le cose stesse senza voce: “Tacciono l’acqua e i boschi, /tacciono gli animali/tace il cielo deserto/ e tacciono le ali” e in “Lettere da Zingonia”: “perché non c’è altro nel mondo/svuotato di senso//soltanto la voce/che chiama”. Paesaggi scomposti, periferie degradate sono lo spazio della poesia in questa porzione di libro in cui il silenzio è la patria elettiva del poeta civile e lirico che è Pusterla, capace di intrecciare lo sguardo morale con i paesaggi sospesi, gli istanti fissati in una frazione di secondo che diventa riflessione ampia sul destino delle cose e dell’uomo. A volte il poeta si domanda se la sua è “la parola che si pente d’aver tentato di dire?”, ma la natura si rovescia in pensiero ed emozione e sempre viceversa in uno scambio di ruoli. “Torsioni e torture senza grida/slogamenti della crosta della terra/ movimenti del magma. Costellazioni nere… Bruciate, lande senza parola”. Questa sezione è fatta di composizioni brevi, sintetiche dove il respiro è un’apertura nella contrazione compositiva. L’uso dei punti e degli incisi fanno trattenere il fiato in una forma di apnea del pensiero che si fa poesia, linguaggio diretto, ma composito, levigato, ma aspro, ossimoro che dispiega senso. La sezione è caratterizzata da poesia molto belle: “Nebulose oscure”, “Notturna pietra”, “Stelle di calcite”, poesie notturne, ma cariche di luce.

La quarta sezione è “Confuscazioni”, dedicata all’acqua “sempre bella/ e irraggiungibile persa/paesaggio per paesaggio”; acqua che è distruttiva “viene la tumultuosa” che “minaccia, cupa”.; acqua che è scenario della storia (“sparavano ai fuggiaschi nei canali” , che avvolge i sogni “in sogno, città nera/di pece sulle pietre alte dei muri/ e degli argini. Un fiume/ muto largo ai suoi piedi e pronto al balzo”); e fiume siamo noi umani: “Ritornare all’origine fuggendo. /Spazzare, anche facendosi/ del male. No, non è breve/ il corso delle cose. Né indolore. / Questa l’alte ripe sconquassa e ruina”. Ma ancora “Non ho memoria di me, ma precipito/sempre. Sono un’acqua costretta dal basso/ che chiama”. La poesia che chiude è significativa: “cara acqua, ma io ti guardo sempre/ anche se tu non ci, se corri altrove…/e mi fido di te/anche quando minacci, e ti gonfi/ anche quando porti via/ tutto con te./ I giorni, i ponti, i tetti./ anche me”.

La quinta sezione è “Lo splendore” dove domina il fuoco, ma anche lo sguardo di una poesia che ora consola come accade in “Ponte bruciato” oppure in “Madonna dei campo”, poesia che si fa ancor più riflessiva come in “Lo splendore” in cui Pusterla dialoga con Milo De Angelis (“La vertigine dunque lasciamola muta…/Si arrende, forse?/ O invece la parola scocca dopo,/conquista della luce, e il male è muto/da sempre, deprivato/ di senso, condannato/ al silenzio dell’osso e della carne?”. Pusterla sa che “vivere più realtà, come ‘è difficile” , che le rotte dell’esistenza sono vaghe, che le parole sono in fuga, le foto sbiadite, che nei giorni “albergano parvenze./ Invisibili mosche/ calcinate latenze”, ma sa anche, e lo dice con forza che “c’è letizia persino nel dolore, c’è luce/ nell’esilio e nell’embargo degli affetti…/nel posto/ che accetto e che è mio/definitivamente”. Poesia dell’ombra e della luce, di contrasti tesi tra speranze e disillusioni, poesia che vola tenendo i piedi a terra, che non cede e che resiste, invitandoci a vedere il mondo con altri occhi in modo da comprendere come fare, come essere affinché “la strada che prosegue fa un po’ meno paura”.

Stefano Vitale

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Note sull’Autore
Nato a Mendrisio nel 1957, Fabio Pusterla si laurea a Pavia con Maria Corti. La prima raccolta di poesie, Concessione all’inverno, esce da Casagrande, a Bellinzona, nel 1985. Suscita il consenso immediato di critici e poeti. La sua poesia selvatica, luminosa, molto comprensibile, conquista il pubblico. Una poesia che combina tempeste e spiragli. Nature sublimi e catrame. Lampi lirici, ma anche tuoni politici. Moniti, carezze, visioni. Da allora, si succedono BockstenLe cose senza storia, Pietra sangue, Folla sommersa, Corpo stellare e Argéman. Nel Nervo di Arnold propone un ampio itinerario tra le pieghe più feconde della letteratura contemporanea. Significativa anche la sua amicizia con Philippe Jaccottet, celebre poeta francese di cui traduce varie opere:
Il barbagianni. L’ignorante, Alla luce d’inverno, E, tuttavia. Ha tradotto per Marcos y Marcos anche l’opera di Antoine Emaz, Sulla punta della lingua.
Ha ricevuto il Premio Montale (1986), il Premio Schiller (1986, 2000, 2011), il Premio Dessì (2009); i Premi Prezzolini (1994), Lionello Fiumi (2007) e Achille Marazza (2008) per la traduzione letteraria; il Premio Gottfried Keller (2007), il Premio svizzero di letteratura (2013) e il Premio Napoli (2013) per l’insieme dell’opera.
Fabio Pusterla vive ad Albogasio, sulla frontiera fra Italia e Svizzera, e insegna letteratura italiana al liceo e all’università. Le sue opere sono state tradotte e pubblicate in molte lingue. Per Marcos y Marcos dirige anche la collana poetica
“Le Ali”. Marcos y Marcos ha pubblicato le raccolte di poesia Pietra sangue, Bocksten, Folla Sommersa, Il nervo di Arnold, raccolta di saggi sulla poesia contemporanea, Le cose senza storia, Corpo stellare, Argéman e Cenere, o terra.

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