CORPO DEA REALTA’ – CORPO DELLA REALTA’
di Fabio Franzin

(Edizioni Puntoacapo, Pasturana (AL), 2019

“Corpo della realtà” è un libro bello e potente che sfonda le pareti asfittiche di tanta poesia contemporanea troppo ripiegata su se stessa, troppo avvitata su questioni astratte e prevedibili; un libro che esprime un modo straordinariamente lucido ed efficace di fare “poesia civile” autentica.
Franzin va al cuore delle questioni che tratta poeticamente, Franzin non resta sulla soglia di una vaga denuncia, non si nasconde del dejà vu dell’indignazione da salotto e non cede, cosa assolutamente fondamentale, alle rabbie neopopuliste o movimentiste che potrebbero avvelenare la poesia di questo genere.
La poesia di Franzin è “politica” nel senso più alto del termine, poesia che affonda il suo sguardo nella vita delle persone e che restituisce ai lettori una visione della realtà che è concreta e al tempo stesso epica, universale, poetica. Perché questo libro è costruito su capitoli/sezioni, con poesie singole più o meno complesse, ma è in realtà esso è un poema che ci racconta il tempo che stiamo attraversando, un’odissea della contemporaneità in cui i nuovi sommersi dalla violenza più o meno evidente, agita o subita, sono i protagonisti, gli attori e le vittime. La poesia di Franzin si confronta con la nostra epoca segnata da una profonda crisi sociale, morale, economica, culturale, antropologica e ne mette in luce gli aspetti più veri, i più nascosti come i più dolorosi.
Come ha scritto Manuel Cohen nella bella introduzione: “l’autore veneto…ci reperta e referta l’oscenità del presente, la trasformazione in atto: entrando nel ventre della realtà, nel corpo della crisi, adottando le parole della crisi, interrogandosi sulla sopravvivenza dell’umanità dell’uomo, nell’epoca della crisi.” (pag, 6).

La poesia di Franzin ha il merito di restare sempre “poesia”, è capace di emozionare il lettore pur restando sempre aderente alla realtà che coglie e descrive. Franzin ha il dono di fare letteratura scegliendo sempre le parole giuste da mettere al posto giusto, cogliendo e comunicando il tono, il timbro, la tonalità, il colore della situazione che vuole mettere in luce. Franzin è quindi spietato e dolente; tenero, carico di pietas e al tempo stesso agisce chirurgicamente nell’individuare ematomi, ferite, malformazioni, tumori che affliggono il corpo della realtà di cui noi stessi siamo parte. L’autore sa quindi coniugare emozione e pensiero, sa muoversi nelle pieghe della psiche (con una capacità di lettura sociologica incredibile, senza mai fare il saccente) e nei meandri dei comportamenti (con una forza etica che non scade mai nel pedagogico irritante di tanta poesia sedicente civile).

Franzin sta dentro al corpo, è egli stesso corpo che si mette in gioco: la sua posizione è quella di chi vive ed ha vissuto ciò di cui parla, ma lo fa sempre senza essere banalmente elegiaco, consolatorio, nostalgico e neppure supponente. La sua lettura della realtà è fatta di sensibilità razionale, di razionalità emotiva; la realtà, poi, che ci presenta nelle poesie è quella del mondo delle relazioni umane, del lavoro, della famiglia, della comunicazione. Inoltre Franzin non scorda mai di essere poeta, ovvero di trovarsi, talvolta nella condizione di dover sottoporre a critica anche il proprio scrivere, la propria posizione più o meno privilegiata di intellettuale (che comunque si è sporcato e si sporca le mani).

Il gesto della scrittura che ci propone Franzin è gesto di resistenza, è tentativo di raddrizzare i quadri storti, è spazio-tempo della lucida presa di distanza, senza mai rinunciare alla vita reale, costellata da sconfitte, ferite, piccole gioie. I temi del lavoro, degli scarti generazionali, del degrado delle relazioni umane, della violenza quotidiana della nostra epoca segnata dal neoliberismo autoritario e populista, delle ingiustizie, dei fallimenti del “progressismo” vengono trattati con una “competenza” impressionante, con un linguaggio mimetico, scultoreo quanto amaro, con riferimenti all’oralità intrecciati ad altri di spessore letterario notevole.

Franzin usa il dialetto Veneto-Trevigiano dell’Opitergino-Mottense: la bellezza della lingua dialettale, tanta è chiarezza del messaggio e del testo, non viene mai messa in ombra dalla traduzione in italiano e, viceversa, il testo italiano conserva un’aderenza, una limpidezza sua propria anche rispetto al testo originario. Il suo stile è asciutto, diretto, senza fronzoli: Franzin ha un ritmo poetico ed un lessico che sconfina direttamente nella prosa, col parlato, ma egli ha come una sorta di dono nel trasformare in “poesia” le sue “frasi”.

Franzin, da bravo poeta qual è, sa anche cogliere i particolari, sa leggere con occhi acuti gli imprevisti della realtà, i frammenti, gli eventi apparentemente secondari vagando tra paesaggi post- contadini e post -industriali per accompagnarci in un viaggio nel post-umano che alberga ormai come una malattia nella nostra cultura quotidiana. Il Nord- est di Franzin è lontanissimo dalla narrazione ufficiale, fatta di lustrini e denaro, di imprese felici e di socialità garantita. Franzin ci racconta la faccia nascosta di questa visione patinata, ci ricorda le radici e la storia di queste terre e getta una luce sull’azzeramento delle relazioni nell’epoca del cinismo usa e getta della comunicazione, del lavoro, delle persone.
E’ l’aria che respiriamo ad essere malata, è l’acqua che beviamo, la terra che calpestiamo che non regge più l’impatto con il nostro declino. Franzin ci propone un libro carico di sentimenti, che si fanno carne, e che come tali subiscono il peso della realtà, del travaglio dei tempi, che vivono la sconfitta del passato e del presente. E’ l’umanità ferita che grida nei suoi versi, un’umanità sempre composta, dignitosa, autentica: in qualche modo Franzin riprende il testimone di Fabrizio Brugnaro (nato 1936 a Mestre), la nostra voce operaria forse più nota.
Chi prenderà in mano questo libro non si aspetti panegirici moralisti, non si aspetti pistolotti politici, non pensi di trovare le solite lagne più o meno ipercritiche di sedicenti rivoluzionari. Chi avrà voglia, coraggio e cuore di leggere “Il corpo della realtà” si troverà come dentro ad uno specchio in cui riflettere la propria immagine, dentro ad un libro in cui lo slancio etico è così vero e potente nella sua lucida e discreta che potrebbe persino cambiare le nostre vite.

Stefano Vitale

*Propongo alcuni estratti.

Scrivo, e mi pare di cancellare
tutto ciò che ho tentato di trattenere
qui con le mie parole: un mondo
che potesse stare in equilibrio
sull’asse obliquo di una verità
che non fosse in vendita,
ancora attuale. Parola
dopo parola tutto è mutato
attorno a me, parola dopo
parola, quasi tutto si è cancellato…

Così sempre meno sono quelle
che mi restano per resistere, per
rimanere a galla nel fondale della storia.

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Erbe specchio

Perché proprio qui erbe? Gramigna
o bardana, non so definirvi
(voi che site considerate come la peste),
perché crescere anche in luogo
così inospitale, nella terra striscia sotto
quella fessura fra asfalto e cemento,
fra parcheggi e cordoli, nel piazzale
in ombra di questa fabbrica grigia,
fra ruggine, cassoni e bancali,
morsi di ferro e sfiati di tir.

Perché qui erbe? Perché rispecchiare
La mia condizione anche durante la pausa?

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…..Quando le macchine si accendono, nell’uomo
si spegne l’anima, dentro le carni
qualcosa si indurisce, ci si muove
a scatti fra i fili e le grate. Ferro fra
ferri, da robot feriti. Come essi
freddi, senza cuore. Già transformers.

Odissea (nel grigiore)

Questo nebbione che oggi non vuol più
diradarsi, stasera, dopo il lavoro,
sarà un’odissea uscire da questo
labirinto di stradine tutte uguali
e buie, fra capannoni grigi,
in questo grigio che rende ancora più fitta
la malinconia…

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Basta

Lo urlo da qui, da questa periferia
in pianura, basto, lo dico dalla torbida
acqua immobile di fossi che non hanno mai
visto nessun narciso o cielo chiaro specchiarsi
basto lo afferma questa terra seppellita,
la pallida grazia degli aironi statue
afflitte fra le ultime zolle brune.

Non siamo cose anche se ci hanno rubato
l’anima. Non siete soprammobili
cari aironi, appoggiato sulla tavola
di un campo ad abbellire il saccheggio.

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…..le case dicono chi siamo:
la muffa negli angoli,
il buco mai più stuccato,
le crepe sulle piastrelle,
la piantina secca sul davanzale…

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Menzogna ingollata in un sorso

Se ciò che sappiamo non serve più,
se ciò che pensiamo ci lascia da soli
a ferirci con le schegge di un passato
passato via senza neppure voltarsi
indietro un secondo, così, a farci
ciao con la mano, per dirci schietto: non
ci sarà più il futuro che attendevi
alzandoti dal letto, lavandoti
il viso di fronte allo specchio….

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Allegri a tutti i costi

Come vive certa gente,
come ride sguaiata nelle foto
che si scatta da sé fingendo
di essere allegra a tutti i costi,
con uno spritz, un cocktail in mano
di fronte a una piscina, un cane
grande o un mitra in braccio, qualcuno
persino accanto a un cadavere
ho visto l’altro giorno alla televisione.

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Ora ti confesso che abbiamo perso

Ora ti dico che abbiamo perso, caro padre,
ti confesso che mi arrendo. Non basta
il gesto di pochi a salvare una realtà
sempre più cinica e canaglia, ormai
la piega storta non si raddrizza più,
anzi, si è così adattata, che pare
persino naturale, che sembra essa, in fondo,
la verità. Sono riusciti a stravolgerla,
un poco al giorno, come spostare la linea
di un confine un millimetro alla volta,
che quali non ci siamo neppure accorti
di averla varcata, trovarsi in pochi,
persi, spaesati, fra le belve e i mostri.

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Realtà

Ora che non sono più tempi di grandi speranze,
di fortune da costruirsi contando solo sulle proprie forze
o tesori da attendere come manna a mani aperte
e neppure l’amore sembra possa contenere in sé
l’antidoto a questo malessere che ci avvelena,
si vive come belve chiude nelle gabbie
di stanze per tre quarti proprietà delle banche,
beccandoci, graffiandoci, spesso senza motivo
altro che sfogo a smania stolta, alla miseria
maledetta da sempre avvinghiata alle nostre carni.

Così si tira avanti, col sacchetto ecologico
che si squarcia, le arance sparse per terra,
con gli scontrini sopra il tavolo. Si vive scoglionati,
incarogniti. Si scola la pasta, il polpettone
nel microonde, si condisce l’insalata già mondata.

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Note sull’Autore
Fabio Franzin è nato nel 1963 a Milano. Vive a Motta di Livenza, in provincia di Treviso. E’ redattore della rivista di civiltà poetiche “Smerilliana”.
Ha pubblicato: “Il groviglio delle virgole”, Stamperia dell’arancio, 2005 (premio “Sandro Penna”); “Pare” (padre), Helvetia, 2006; “Mus.cio e roe” (Muschio e spine), Le voci della luna, 2007 (premi “San Pellegrino”, “Insula Romana” e “Guido Gozzano”); “Fabrica”, Atelier, 2009, (Premi “Pascoli” e “Baghetta”); “Rosario de siénzhi” (Rosario di silenzi – Rožni venec iz tišine) Postaja Topolove, 2010, edizione trilingue con traduzione in sloveno di Marko Kravos; “Siénzhio e orazhión” (Silenzio e preghiera), Edizioni Prioritarie, 2010; “Co’e man monche” (Con le mani mozzate), Le voci della luna, 2011, (premio “Achille Marazza”, finalista al premio “Antonio Fogazzaro”); “Canti dell’offesa”, Il Vicolo, 2011; “Margini e rive”, Città Nuova, 2012; “Bestie e stranbi”, Di Felice (I poeti di Smerilliana), 2013; “Fabrica e altre poesie”, Ladolfi editore, 2013; “Sesti/Gesti”, Puntoacapo, 2015; “Erba e aria”, Vydia, 2017.

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