“Cronache di estinzioni” di Lucetta Frisa
(Puntoacapo, Pasturana – AL, 2020)

“Cronache di estinzioni”: la resistenza della parola

….Lucetta Frisa non si ferma mai e ci sorprende con la sua instancabile attività letteraria mostrandoci tutta la sua padronanza del linguaggio, dei registri poetici pur utilizzando forme e strutture molto diverse. E’ come se lei scegliesse con cura gli strumenti da usare per raggiungere il suo scopo. Così l’abbiamo incontrata narratrice, traduttrice, poetessa capace di scrivere sonetti, di spaziare nella sua produzione poetica, tra tonalità ironiche, riflessive, elegiache, corrosive senza mai far venir meno la pregnanza della parola e della sua cifra lirica.
Il suo ultimo è “Cronache di estinzioni”, libro quanto mai attuale visto il frangente storico-epocale che stiamo attraversando. Lucetta Frisa è sempre stata poetessa concreta, attenta al confronto con la realtà: lei non vive la poesia come fuga, come rifugio consolatorio. La poesia è il suo modo di essere al mondo e così si serve appunto di essa per dire quel che ha da dire.

…..Questo è un libro che si potrebbe facilmente rubricare come libro di “poesia civile”. Certo, è anche questo. Ma prima di tutto è la poesia che ha il dominio della scena, la poesia intesa come forma della lingua che sa tenere insieme dimensioni lontane, emozioni contrastanti, dialettiche impensabili con altri mezzi. Ho detto “dominio della scena”: già, perché c’è anche un che di teatrale in questi testi, nel senso che molti di essi sono proprio come dei brevi monologhi, un concentrato di energia, testi che danno uno spaccato della questione che intendono proporre, che aprono al lettore orizzonti riflessivi nuovi, poesie che sanno collegare il sorriso con la meditazione, l’invettiva rabbiosa con la leggerezza dello sguardo, l’indulgenza per la speranza con la bile più nera.
Il fatto è che qui è di noi che si parla, di questa umanità che si sta smarrendo proprio nel momento storico in cui pensava di aver tra le mani le chiavi del futuro, del benessere, del futuro. Invece si è sull’orlo della catastrofe. Lucetta Frisa, giustamente, non pensa che la poesia salverà il mondo: quello dipende da noi. Ma certamente affida alla poesia il suo punto di vista, la sua visione delle cose. E lo fa evitando toni apocalittici e profetici, senza enfasi ma con la giusta necessaria rabbia, con l’inevitabile disincanto e pure con un pizzico fondamentale di ironica fiducia.

…..Ma al di là dei temi, su cui torneremo, colpisce dicevo la lingua, il modo di gestire il testo. Come sempre il lessico è molto chiaro, diretto, mai banale, sempre appropriato al tono del tema scelto, in linea con l’idea che il poeta è spettatore del contemporaneo, ma ne è anche parte. Frisa, infatti, non si tira fuori, si mette in gioco, cerca di capire che cosa è successo, dove abbiamo sbagliato, come la macro-deriva sia collegabile al nostro mondo quotidiano, alle nostre emozioni. Lo slancio lirico non viene mai meno, non si cade nel didascalico, le immagini sono convincenti e soprattutto ogni testo ha una sua dinamica poetica, un colore che lo rende unico: fotogramma di una cronaca umana dolente, straniante, rabbrividente.
Ha scritto infatti Elio Grasso nella sua prefazione: “Il primato della denuncia quasi mai è giustificato dalla vera poesia, ma qui l’aria sentita è tesa, odora di concretezza fino al midollo perché l’esperienza sparsa a piene mani nel libro è un fatto radicale, inestinguibile e curato come un pane all’alba. La visione non scende mai sotto l’orizzonte, tuto è regolato perché l’esperienza sia al tuning massimo di onde portanti parola chiara e liscia” (pag. 7). Allo stesso modo ricordiamo quel che ha scritto Mario Macario nella sua divertente e divertita post-fazione “La Frisa ha la forza, direi la commovente capacità, di trovare lo spazio tra un verso e l’altro per ripiegare nella nicchia protettiva dei sentimenti e di trovare lì il suo rifugio antiatomico”. (pag. 68)

…..La raccolta si apre con una bella poesia dedicata alla madre proprio a suggello dell’idea che questa raccolta di poesia nasce da dentro, dal profondo della propria esperienza e visione della vita, cosa che è il primo richiamo etico-cognitivo da seguire: “Chi sono io/ se dimentico ciò che è stato e neppure/ un bel paesaggio un angolo di città/ vengono a illuminarmi la memoria?” (p.11).
Questo il punto di partenza per il poeta che sa di essere comunque dinnanzi ad un compito enorme: “Travolta dal vuoto/cosa ormai c’è da sorvegliare?” (p.12). Ma tant’è, Frisa non si sottrae e ci propone una serie di poesia dedicate ai vulcani risvegliatisi catastroficamente (“l’orrore dormiente dei vulcani” p. 12); al crollo emblematico e tremendo del ponte di Genova, la sua città, accomunato ai crolli di “alberi, palazzi, chiese, fabbriche, scuole” .pag. 15); ai ghiacci dell’Antartide che si sciolgono (“basta lo sciogliersi/ di un qualcosa che subito si scioglie piano piano/ tutto il resto trascinato da questo alzarsi di maree/ da questa energia segreta” p. 19); alle stragi di migranti nel Mediterraneo (“Non diventeranno mai divinità./E li lasciano soli nella morte/ anche gli dèi si sono inabissati/ in quale mare morto non si sa” pag. 25).
Sulla stessa falsariga altre due poesie: la prima è per l’Etna: “In che punto del tempo e dello spazio/ l’Etna iniziò a scivolare? /Tu ed io ad invecchiare? Era notte? / a che punto ci amammo di meno o di più?/…. Lascio andare. Mi lascio andare. L’Etna continua a scivolare. / Io sulla sabbia scivolo verso il mare” (pag. 31). La seconda per il Cervino: “Il Cervino si è spogliato di tutto/…senza applausi solo/ là in fondo al palcoscenico del cielo/ un osso nudo e lontanissimo/ brutto. (pag. 32). Queste due poesie testimoniano della capacità di Frisa di essere dura, caustica e al tempo stesso attenta al lato “sentimentale” (in senso montaliano) delle cose. Una forma di resistenza umana che connette esperienza lirica e personale con la partecipazione civile. “L’ironia ci tiene in vita per un po’ impedendo/ e smanie di assoluto. Ma non basta” pag. 34)

…..Le cronache poi si spostano ed esplorano anche altri territorio del nostro tempo scomposto: “Un tempo la parola/saliva su dalla gola/ dentro la voce risvegliata/ avvolgeva le cose che voleva toccare/ si inebriava di silenzio e di suono/ accarezzava e uccideva/ nel suo vagabondare. / Almeno così si diceva” pag. 35). Quasi una dichiarazione di poetica che illumina l’intera intensa raccolta e che coglie la poetessa nel momento in cui denuncia il decadere della pregnanza della lingua. Altrove Frisa ci dice della fine della meraviglia di scoprire antiche e splendide città come Palermo, Praga, Istanbul, Lisbona luoghi amati dalla poetessa, ora invase dalla paccottiglia turistica, dal “tragico quotidiano” che è commedia ripentiva, quindi ancora peggiore. Oppure in “Plastica” denuncia la catastrofe della plastificazione del mondo e l’ironica capacità dell’uomo di adattarsi alla rovina: “Per fortuna non siamo eterni e anche lo fossimo/ ci adegueremmo perfettamente a un pianeta su misura/. Le zolle/ saranno protette da una griglia sciale/dentro certe riserve/ per turisti nostalgici molto anziani. (Ingresso a pagamento-pag. 44).

…..Il registro ironico prende spazio, in modalità “spirito di sopravvivenza”, un po’ teatrale come dicevamo, ma soprattutto lume che rischiara, che rende la visione più nitida e se vogliamo ancora più tagliente. Anzi è proprio quando alleggerisce che più profonda è la sciabolata. Come in “Food” (pag. 45) dove Lucetta Frisa si prende gioco dell’ossessione alimentare, dei cuochi ovunque; come in “Sottrazione” (pag. 49) dove scrive: “Non dobbiamo godere il bel paesaggio/ nascosto dalle alte barriere autostradali/ che ci tutelano dagli impulsi suicidi/ (pag. 49); oppure come in “Bus” (pag. 50) dove ci racconta “il dramma” di utilizzare oggi questi mezzi inospitali e spericolati.
Il tono è appunto divertito, ma dolente, ironico e sagace. In uno scambio di ruoli persino le acciughe che diventano “sempre più piccole e sottili… Perché hanno voglia/ di non esserci/ andranese/ sparire dal mare” (pag. 51) non sfuggono allo sguardo di Frisa. In “Pelle” ci dà la sua visione dell’ibridazione culturale cui saremo obbligati: “Tanto lo sappiamo che cambieremo pelle/… crolleranno per sempre i confini/ tra i colori/ tra conscio e inconscio…/ Di questo lento passaggio di consegne/ non saremo i testimoni” (pag. 53).

…..Ma se anche fosse è “l’insensibile adattabilità umana” (pag.55) ad essere un problema, la nostra indifferenza, tanto che Lucetta Frisa in “Riscaldamento globale” (pag. 56) dopo aver ironicamente immaginato che questo potrebbe portare l’uomo a ritornare sentimentale con “nelle vene sangue solidale vibratile di pathos/ come nei quadri di El Greco: saremo fiamme puntate al cielo?” infine chiude coi versi: “Traslocheremo su altro pianeta/ più fresco/ giovane/tiepido e/ innocente?”. (pag. 57).
Il rischio è grande tanto che Frisa immagina che la luna ci cada sin nella salotto di casa senza che ce ne si accorga (“Caduta della luna” pag. 58) assuefatti come siamo ai consigli per gli acquisti. Persino la caduta del sole non ci sorprenderà: “… spaccato a metà/ come un’arancia accoltellata…” Perché abbiamo perso il contatto con ciò che “genericamente chiamano Mistero” (pag. 62). Che possiamo ancora ritrovare proprio nel verso, nella poesia, specchio possibile di una attenzione, di una nuovo stato di allerta, passaggio segreto da attraversare per ritrovare nuova intelligenza e lucidità che, in questo piccolo libro di 35 poesie, trabocca.
Non è un caso che l’ultimo testo ci dice: “Comporre un verso o un ponte/ è strutturare/ la vibrazione di una colonna vertebrale/ sognare/ ancora un nesso/ perché le parole con le macerie non restino/ inerti strumenti sul fondo./Ciò che è compiuto appartiene subito al regno dei morti./ solo quello che ancora da fare è eterno”. (pag. 63)

…..Stefano Vitale

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Annegati

Nell’antico Egitto chi annegava nel Nilo
diventava un dio ed era onorato
forse perché entrando nel mistero
sarebbe un giorno o l’altro ritornato
a raccontare il vero.

Ora davanti al mare occidentale
nessuno prega né guarda l’orizzonte
davanti a sé eppure questo mare
pullula di annegati sul fondale
di ogni razza ed età.

Non diventeranno mai divinità.
E li lasciamo soli nella morte
anche gli dèi si sono inabissati
in quale mare morto non si sa.

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Acciughe

Sono sempre più piccole e sottili
da molti anni non sono più le stesse
forse hanno perso la voglia di nuotare
sempre nel mare
Pescate e mangiate pescate e mangiate
Non si divertono più.
Hanno cominciato a rimpicciolire
da quando hanno aperto gli occhi
e la testa si confonde con la coda
anche se continuano ad affacciarsi
in branchi frementi nelle notti di primavera
e la luna maligna le accarezza e svela
agli occhi rapaci dei pescatori
e si rintanano negli angoli più scuri
del mare e nel fondo delle reti da dove
tentano di fuggire senza sapere
dove andare. Perché hanno voglia
di non esserci
andarsene
sparire dal mare.

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Caduta della luna

La luna è schizzata fuori orbita
stufa di stare dove stava
rotolata acciambellata nello spazio vuoto
inciampata dentro i buchi neri
giù giù
un tuffo
fino al salotto.

Lì è scivolata quatta quatta dentro le tazze
allargando i suoi raggi borghesi
sulle tende che non l’hanno nemmeno vista
e sono rimaste chiuse anche di giorno.
Nessuno si è accorto della luna in salotto
neppure del gran buco che aveva lasciato in cielo
(i fenomeni naturali sono ormai così naturali)
che la luna è diventata una tetta gonfia di latte
non scremato da mungere presto sennò sarebbe scoppiata
o una torta gigante di panna con zucchero a velo
postata su facebook dalle donne social che amano tanto cucinare
ed esporre le loro deliziose creazioni populiste
all’ammirazione del mondo.

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Caduta del sole

Il sole si è spaccato a metà
come un’arancia accoltellata
Esatto il taglio, nessuna sbavatura e finalmente
ha dato chiare indicazioni. O stai in una metà o
dall’altra
scegli l’emisfero unico, la sua religione, la segnaletica
senza incroci.
Non ci saranno più i dubbi tormentosi
le risposte imbarazzate
Si tornerà alla prima infanzia
dentro la gioia senza occhi della luce.
Ciechi. Assoluti. Decapitati.
Nessuno si chiederà che cosa c’è nell’altra metà.
Cosa sia il chiaroscuro
che genericamente chiamano Mistero.

*

È dal buio che scrivo.
Le parole ad una ad una escono alla luce, prendono un corpo,
sfavillano. Legano te a me.
Se le cancello
rientrano nel buio.
Ma il ponte crollato
non esiste più.
Ne rifaremo un altro,dicono.
Comporre un verso o un ponte
è strutturare
la vibrazione di una colonna vertebrale
sognare
ancora un nesso
perché le parole con le macerie non restino
inerti strumenti sul fondo.
Ciò che è compiuto appartiene subito al regno dei morti.
Solo quello che è ancora da fare è eterno.

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…..Note sull’Autrice
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Lucetta Frisa nasce e vive a Genova. Attrice, poeta, traduttrice.
Opere poetiche: Modellandosi voce; La follia dei morti; Notte alta; L’altra; Se fossimo immortali; Ritorno alla spiaggia; L’emozione dell’aria; Sonetti dolenti e balordi. Narrativa: Fiore 2103; Sulle tracce dei cardellini; La torre della luna nera. Ha tradotto opere di C. Baudelaire, H. Michaux, S.J.Perse, A.Borne, B.Noël, P.Quignard, S.Durbec, J.Sacré, C.Esteban. Diversi poeti inglesi tra cui G.M.Hopkins.
Ha collaborato con i suoi racconti per ragazzi al quotidiano “Avvenire”. Con Marco Ercolani pubblica, in prosa; L’atelier e altri racconti; Nodi del cuore; Anime strane; Sento le voci; Il muro dove volano gli uccelli; Diario doppio e Furto d’anima.
Vince nel 2005 il Lerici-Pea per l’inedito e nel 2011 l’Astrolabio per Ritorno alla spiaggia e l’opera complessiva.
Suoi testi sono tradotti in antologie, riviste cartacee e libri collettivi ed è presente in diversi blog letterari. Nel 2016 raccoglie, per puntoacapo, un’antologia della sua opera poetica: Nell’intimo del mondo. Poesie 1970-2015, finalista al Camaiore. Nel 2020, sempre per le stesse edizioni, pubblica Cronache di estinzioni.
(www.lucettafrisa.it)

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