CUSTODE DEL GIARDINO
di Franco Canavesio
(Ricerche poetiche, Aurora Boreale, Prato 2019)
Scrive Mario Marchisio nella sua lucida e densa introduzione al libro. “Non credo di esagerare paragonando Custode del giardino al diario di bordo di un poeta sonnambulo. Quelli che evoca, infatti, sembrano meno pensieri e azioni sognati che non piuttosto realmente accaduti”.
Difficile dissentire da Marchisio, critico acuto nonché profondo conoscitore dello specifico poetico di Canavesio. E pertanto mi permetterò semplicemente di sviluppare questa idea. Canavesio, in questa sua prima corposa raccolta, mi appare come un poeta errante, un poeta alla continua ricerca di visioni, di immagini, a caccia di pensieri e colori così come farebbe un bambino perso nell’inseguire farfalle in un prato d’estate. Canavesio cerca incessantemente il suo destino di poeta nelle cose che incontra, oggetti, elementi della natura che cerca con lo sguardo, negli spazi reali che attraversa, nelle persone che incontra, tra cui anche se stesso (penso alla sezione ”Autoritratti”) . Egli si muove, deambula nello spazio e nel tempo: raccoglie, accarezza, trasfigura poeticamente ciò che incontra e lo sussume nella sua vasta e colorata poetica dell’immagine. Ne vien fuori una produzione intensa, solida, vigorosa per nulla diafana o evanescente; ne emerge una poesia esuberante, che non teme il confronto serrato con la parola, che ingaggia un corpo a corpo con la lingua impegnandosi in una produttività espressiva davvero notevole. Franco Canavesio libera, per così dire, la parola poetica dalle catene dell’intimismo sfibrato di tanta poesia contemporanea e rischia, si espone e scolpisce i suoi versi: le sue poesie assumono pose e prospettive solide, sicure. Così i ruoli si rovesciano: ed è il lettore che si percepisce come un sonnambulo perso nelle gallerie di una palazzo cinquecentesco, a spasso nel labirinto di un giardino dove le piante e gli arbusti rivelano ad ogni passo sorprese.
La prima sezione che dà il titolo la libro è “programmatica”: per mio conto, il poeta (nella visione di Canavesio) è il custode del giardino che è spazio reale e metaforico, spazio delle relazioni sincere e della poesia. Indicativo che tale spazio si confonda col sogno, anch’esso meticciato di verità e proiezione immaginativa. E non a caso in questo giardino della parola (e della natura custodita, curata) “non ci sono guardiani e custodi/ ci si muove alla poca luce della luna/ si sta sulla fiducia, / la dolcezza in una terra amica/ sempre in ascolto le radici, per benigna natura/ ad ogni vibrazione colgono la pena,/… i rami si protendono,/notturne mani aprono/ a chi ha un corpo da salvare. Lì l’approdo è sicuro…. Ma dal sogno si deve tornare, /il segno è una goccia di rubino/sul dito”.
La poesia di Canavesio è rigogliosa: esprime, come ha notato sempre Mario Marchisio, una istintiva tendenza alla “contemplazione della natura”: “Questa è l’utopia dell’universo verde, /pochi umani scelti ne fanno parte/ non c’è posto per tiranni e per schiavi/ qui il fiato è comune, di linfa e sangue,/la cura assidua, continuo il dono/d’acqua , il ritorno di frutti e corolle”. La natura è il luogo dell’”identica voglia di luce” delle creature, è dove “si mischiano profumi, s’accoppiano pollini/nuovi ibridi sena none, nati/da impossibili amori/”. L’invito è di restare fra le aiuole dove il poeta dice “custodisce le erbe/veglia le porte, apri ai giusti. E’ preziosa/la vita dentro le tue mura”.
Nella sezione seguente “Sogni e visioni” esplode la poesia di Canavesio in un continuo di immagini: “di notte ho gambe lunghe, mica trampoli/gambe mie e muscoli forti/passi da gigante”… oppure “E’ la grazia del sogno, /virtù di passi nel deserto notturno/ e fiato fatto parola,/con ritmo sicuro/ sentirsi sonori e giganti in giusta misura”… E’ come se la notte, l’aspetto onirico della vita fosse lo spazio in cui si può essere se stessi nel segno della diversità, della ribellione al banale delle convezioni: “Ogni notte vivo l’inganno/ lo trasformo; di sapido ricordo nutro il giorno”…in un’altra poesia leggiamo “Tra i figli della notte/ io corro, a braccia larghe/senza sentiero, senza traccia./Al risveglio stupisco/ di tanta leggerezza/ di tanto spazio” . Ma non è questo lo spazio della fuga, è uno spazio “vero” che ci appartiene, che ci accomuna e che va percorso per “vedere diversamente” le cose in una nuova luce, che è un’altra parola- chiave del testo..
La natura coglie poi un lato religiosamente laico e cosmico della vita: “E’ una preghiera l’attesa, il primo raggio/una benedizione/ gli occhi nella direzione giusta,/ senza schermo, feriti da luce pura/ e poi avvolti, luce da ogni dove”. C’è una ricerca di purezza che trova nella metafore e nell’immagine della luce il suo più evidente segno; c’è una voglia del “verso lindo di ogni cosa” che trasuda da questa poesia. E il poeta per raggiungerla si fa natura egli stesso, si fa picchio, pettirosso, rondine, nibbio; altre volte vite, tralcio, ramo, foglia…
Questo legame con la natura si unisce a sua volta all’ironia, ma anche al gusto per l’oralità, il racconto poetico, la riflessione. La fioritura di immagini che contraddistingue queste poesie fa certamente pensare al mondo onirico, ma insisto: è la postura poetica di Canavesio che dà il tono, che lo spinge a scovare parole, a scavare nel marmo della lingua. Leggendo alcune delle sue poesie così ridondanti di immagini, parole, sensazioni ho pensato ai quei “retabli” barocchi che adornano le chiese seicentesche. Canavesio può scrivere di qualsiasi cosa: è un poeta istintivo, fresco, diretto eppure il suo stile è incredibilmente letterario, persino talvolta forbito, preziosamente decorato. Egli ha presente la grande tradizione novecentesca (penso a Montale), a volte ricorda persino l’incedere dantesco (si veda la poesia di pag. 17 dove si legge “Gradini e passai svelti/ pietre lisce/ alterne a grezzi sassi/ cima in luce, salgo…./… ora, in alto, se scavalco/ oltre il vallo, senza cocci/ vedo largo…/ Un momento/nero il cielo, muto il vento. /E’ il silenzio, ridiscendo”), ma c’è qualcosa di inattuale (in senso propriamente filosofico) nella sua poesia che lo mette al riparo da ogni riferimento esterno che non sia frutto della sua anima poetica.
Non sto dicendo che Franco Canavesio è un poeta naif. Tutt’altro. Semplicemente Canavesio è così interiormente poeta che sa sintetizzare in modo originale una forma di parola poetica che è sua e di nessun altro. La cosa che colpisce è che Canavesio ha il gusto della parola. “Già sai dove la parola, se scritta proprio di pugno/andrebbe a capo, /e il battito, la pausa, il ritmo del fiato./ E’ lo stato di grazia/ che annulla tempo e distanza/ lega il respiro di chi legge e di chi scrive”. La poesia di Canavesio è senza dubbio lirica, capace di evocare paesaggi nascosti, di costruire mondi improvvisi, di emozionarsi dinnanzi all’invisibile, di cogliere attimi altrimenti trascurati.
Molto spesso le sue poesie non portano da nessuna parte, non ha niente da “insegnare”, non si crogiolano in una presunta sapienza, ma neppure scivolano in espressioni estetizzanti inutili e collose. L’emozione deve nascere dalla parola e non dal soggetto esterno del testo. Certo anche lui coglie attraverso la poesia alcune delle contraddizioni del nostro tempo (si pensi al tema della diversità, a quello già citato della natura), ma davvero leggendo il libro occorre accettare di vagare in un bosco, di lasciarsi trascinare in vortici di immagini dai toni e dai colori spesso inattesi. Il poeta sa trasformare piccoli fotogrammi raccolti con lo sguardo in quadri ricchi di risonanze, a cavallo tra la quiete della visione e l’inquietudine del senso nascosto nei versi.
Canavesio usa spesso il verso breve, che però è sempre il gradino di un edificio ampio, articolato, complesso. Altre volte troviamo degli endecasillabi belli e precisi, ma che mai suonano artificiosi o scontati. Importante in questa raccolta la ricerca sonora, l’attenzione al timbro, ai colori delle parole. Canavesio sa usare con bravura sinestesie, salti semantici, metafore, allitterazioni, ma è sempre al tempo stesso spontaneo, pulito. La poesia di Canavesio ha una sua purezza innocente, che non è quella dell’inconsapevolezza infantile, ma quella della coscienza adulta che riscopre se stessa nel piacere della parola, nel calore della visione. A volte egli si lascia trascinare da questa sua vis poetica, a volte sarebbe ancora più efficace una certa concentrazione e sottrazione, ma il poeta segue il demone che comunque sa dove condurlo.
“Custode del giardino” che ha come sottotitolo non a caso “Ricerche poetiche” è un libro impegnativo, ma assolutamente felice, un libro che è, come detto, un labirinto di parole che ritornano sui loro passi, fatto di continue variazioni che crescono in una spirale della lingua sostenuta dal desiderio di un olismo naturalistico pieno d’incanto, ironia e di consapevole forza letteraria.
Stefano Vitale
@@@
Non ci sono barriere, finestre senza vetri
nessun ostacolo alla luce
è la luce che produce l’uomo
salvando il faro per salvare il guardiano,
la solitudine, il bevitore e l’oste
il respiro tra due sorsi,
l’aria tersa tra due sbronze
illuminanti
l’aria elettrica tra due lampi
e il vento
il vento di luce
la luce della notte senza vetri.
@@@
Non stupite se nego attenzione
al verbo del vignaiolo sapiente
alla veemenza della sua forbice
o, sensibile al pianto dei tralci
non giudico secondo i canoni
mi accontento di radi grappoli
il rigoglio di carnosi pampini
un guazzabuglio di tremule foglie.
Benvenuta ogni mano tenera
che in questa assolata pergola
all’abbondanza spalanca i palmi.
Benvenuto il naturale ordine
che senza privilegi mi amministra:
è l’ombra il frutto della mia vite.
@@@
Non c’è bisogno dell’aureola
di un’eclissi totale
solo un po’ meno luce
e il silenzio improvviso del sole
che cala oltre l’angolo del tetto.
Col cantiere che tace
prevalgono i deboli rumori
uno sbattere d’uova, l’omelette
della dirimpettaia.
Ed è perfetta la solitudine agostana
con la danza dell’ultimo raggio
un tango rosso di nuvole in cielo,
la colonna sonora
della telenovela argentina.
@@@
Dov’è, s’è nascosto? Cercalo sul ramo nudo
il manachino delizioso
Leggero, le ossa cave come violini.
Lo senti? Cantano le ali al ballerino
salta come un matto, scuote i ciuffi rossi e gialli
nell’arena dell’amore.
Stupisci? E’ solo una della mille storie
negli angoli verdi di questa Terra.
Che canti, frulli e resti viva
questa meraviglia.
@@@
Se tu vedessi, camminando dal basso
traverso le callosità delle piante,
quanta vita è in ciò che pesti,
lasciando cadere le illusioni
dell’erba di marzo
e svestissi calzini
e suole di carrarmato
provando l’equilibrio sul greto
non dico il levigare fresco
e quieto del Tagliamento
ma le punte della breccia sullo sterrato
o il bollente dei sampietrini
alle due di un ferragosto romano
e senza schifo per gli sputi
pestassi una a una le pietre d’inciampo,
allora capiresti
che i piedi non servono soltanto a camminare
e la pelle delle piante è un organo di senso,
più accogliente della scorza del cuore
più concreto del palmo delle mani.
@@@
Note sull’Autore
Franco Antonio Canavesio, mezzo veneziano e per l’altra metà sabaudo, ingegnere prestato alla poesia, ama l’arte figurativa, la musica e il canto.
Ha ottenuto lusinghieri successi in numerosi Concorsi Nazionali di Poesia, tra cui due primi premi nel 2016 e 2018. Suoi versi compaiono in numerose antologie e sono ospitati regolarmente sul foglio di poesia torinese AmadoMio, curato da Luca Borrione e Marcello Croce.
Nel 2018 il catalogo della Mostra L’anima Sognante, ha visto le sue poesie affiancate ai dipinti dell’artista Martha Nieuwenhuijs, un sodalizio consolidato sin dalla precedente pubblicazione Canti e Incanti, edita nel 2015.
Il Custode del giardino è la sua prima raccolta.
***