“Endimione” di Claudio Damiani
(Internopoesia, 2019)

…..Il mito di Endimione è al centro dell’ultima raccolta di Claudio Damiani. Come è noto, Damiani fece parte della redazione della rivista “Braci”, fondata a Roma nel 1980 e che diede alla luce 8 numeri sino al 1984. In quella redazione vi erano anche Colasanti, Salvatori, Scartaghiande e Beppe Salvia. Fu proprio Salvia a scegliere il nome “Braci”: la rivista voleva rappresentare lo spazio ove raccogliere “qualcosa che perdura”, che continua a vivere sotto la cenere.
La poetica di fondo della rivista era di cercare, e ritrovare, il passato della tradizione e portare in primo piano la luce di una lingua che andasse oltre la “desertificazione ideologica” dei tempi. Speculazione filosofica, reazione alle ideologie, un lavoro accurato sulla tradizione della lingua: questi erano i punti forti della rivista dove “emerge un’idea di poesia prima di tutto “interiore”, contro l’inganno dei sentimentalismi, ma anche degli sperimentalismi di scuola, mostrando “il piacere” della chiarezza formale e un “rigore di pensiero” (Poetiche e individui, Maria Borio, pag. 223).
Si voleva dimostrare che la poesia aveva uno spazio che non era quello del rispecchiamento della società, che non era espressione di ideologie. In parte era attivo quel fenomeno che è stato sociologicamente definito “riflusso” e che in ambito culturale portava alla rivalutazione di forme più “tradizionali”. La poesia avrebbe dovuto così recuperare “la radice autentica della comunicazione con un equilibrio che possa arrivare al sublime attraverso il concreto, riscoprendo un rapporto diretto e naturale con il linguaggio quotidiano che viene posto in dialogo con l’esempio dei classici” (idem, pag. 224). Non a caso Damiani stesso si dedicherà alla poesia di Orazio, del quale curerà un’edizione dell’Ars poetica (1995). Per il gruppo di “Braci” sono quindi dei riferimenti Petrarca, Pascoli, Saba, Caproni, Betocchi, Penna, Bertolucci, ovvero quella tradizione poetica che considerava e praticava la lingua come equilibrio, che esprimeva il gusto consapevole dell’ingenuità, la “candida serenità” di Keats di cui parlava lo stesso Beppe Salvia.

…..Claudio Damiani ancora oggi appare fedele a quella sua esperienza e quell’indirizzo poetico: la sua scrittura continua a cercare di unire la cantabilità della poesia, la ricerca di una forma controllata e precisa con una lingua semplice capace di esprimere atmosfere fresche, immediate in cui l’elemento simbolico e filosofico si unisca a quello del gusto per la natura. Ora come allora Damiani non ha timore di creare atmosfere tenere, misurate, piene di grazia estatica con una lingua leggera, morbida e consapevole nello stile. E oggi come allora il mito, quale rappresentazione di qualcosa di più vicino all’umano, di non artificioso che ci parli e ci racconti, superando quelle che egli considera torsioni intellettualistiche o strumentalizzazioni ideologiche, resta fondamentale nell’orizzonte di questa poesia.

…..E il titolo della raccolta rinvia esplicitamente al mito di Endimione. L’Enciclopedia Treccani ci dice: “Endimione (gr. ᾿Ενδυμίων), Eroe della mitologia greca; nelle versioni più importanti del suo mito appare amato da Selene (la Luna). Secondo Pausania e Apollodoro era re di Elide; ebbe da Selene 50 figlie; da Zeus ricevette la possibilità di sostituire la morte con un sonno eterno.
Il motivo del sonno ricorre nella versione asiatica: qui è Selene stessa che immerge in un sonno eterno l’eroe in una grotta del monte Latmo in Caria. Secondo altre tradizioni il dio Ipno avrebbe dato la possibilità a Endimione, del quale si era innamorato, di dormire a occhi aperti.
La straordinaria bellezza dell’eroe fu soggetto frequente dell’arte antica, che lo presenta come pastore o cacciatore. Curiose alcune spiegazioni razionalistiche degli antichi, secondo una delle quali l’amore di Selene per Endimione significherebbe il contributo che al crescere dell’erba dà la notturna rugiada che si produce per le emanazioni della luna; mentre secondo un’altra Endimione sarebbe stato un cacciatore che avrebbe cacciato di notte con Selene (ossia al lume della luna) e dormito di giorno, sicché sarebbe passato per colpito da eterno sonno; e una terza infine fa di Endimione il primo meteorologo che avrebbe studiato di notte le fasi della luna”.

…..Questa puntualizzazione è importante per entrare nell’universo di questa raccolta. Damiani, a sua volta, si addentra, con decisione e maestria, nelle pieghe del mito sin dalla copertina che lo ritrae, proprio come Endimione, disteso con accanto un cane. Il poeta è lo stesso Endimione che sogna, ma che non dorme affatto, che contempla il cielo “rifacendo tutti i calcoli”, che medita sul proprio destino e sui propri dubbi esistenziali (“se fosse invece che da misure molto piccole/la nostra situazioni fosse comprensibile/e non assurda come a noi appare?”). Il poeta è anche colui che racconta poeticamente il suo amore con i toni e lo stile dell’idillio: “Quanti baci ti avevo dato/ma il tempo era finito, era passato” intrecciando ricordi, pensieri, slanci amorosi. In queste poesie conta il fluire della parola limpida e chiara, assume un peso l’architettura leggera, ma definita delle frasi, il senso della narrazione che sostiene l’intenzione poetica con una intensa riflessione che vuole associare pensiero ed emozione.

…..Come Endimione, anche Damiani sogna e il sogno esorcizza la paura della morte: “E mi svegliavo/ pensando: ho sognato la mia morte, ecco, / magari me ne andassi così,/ magari fosse questo/il mio ultimo giorno”. In altri passaggi il sogno testimonia del senso della continua rinascita delle cose nel mondo: ”… e io ti baciavo e odoravo/ i fiori e te, e sempre nuovi fiori/coglievo e più ne coglievo più nuovi/ senza fine nascevano e si aprivano”; altre volte ancora il sogno riporta il poeta ai ricordi dell’infanzia: “quel mare, me lo ricordavo/ era quello della mia infanzia in Puglia,/ rivedevo la casa, i quattro angoli/ e il tetto di tegole…”. E infine il sogno riconduce finalmente alla luna: “Non ci sono più, sono volato/come un fiocco lieve di fumo/ come una foglia sono caduto/ con un breve volo nell’aria, / m’hai visto solo un istante dormire/ e dopo non c’era più, / io t’ho visto per un istante sola/ illuminare tutto il cielo”.

…..La posizione di Damiani potrebbe essere definita “oraziana”: per lui è meglio un angolo appartato, che ci protegga e ci permetta di non farci travolgere dagli affanni, un punto d’osservazione (che ricorda anche il Palomar di Calvino) che sia anche il laboratorio segreto delle nostre confessioni, dei nostri pensieri. Non per complicarsi la vita, ma per riportarla entro schemi più semplici, quotidiani, umani dove gli affetti, gli amori, la natura sono gli elementi più importanti.
Non che manchino le inquietudini, le scosse improvvise, le meditazioni profonde, ma l’importate è mantenere saldo il filo delle cose, perché è inutile riempirci di interrogativi e “ringraziamo, e andiamo avanti, giorno per giorno/ senza capirci niente …senza sapere cosa accadrà” e questo è , per Damiani, il segreto per essere più felici. Riecheggia, dunque, lo scire nefas di Orazio: non è lecito sapere che fine ci aspetti, abbiamo la certezza della morte e allora non dobbiamo far altro che “bere la vita”. La paura della perdita è qualcosa che ci ossessiona: meglio accontentarsi di poco ed evitare gli eccessi. Davvero una visione propria dei classici cui si faceva riferimento prima. Quando Damiani scrive “anche ai ricchi gli manca tutto/ e i poveri sono più vicini alla verità che alla povertà” ricorda ancora Orazio. Damiani non nega le contraddizioni della vita, non nega le sue ansie (“Di ansia sono fatto io, e non poso il capo/ come questi tronchi sopra la terra solida/o come queste fronde posano quiete nell’aria.”), ma ci dice che si deve imparare a convivere con esse, stando fermi, respirando piano, facendo come l’albero che accetta le cose “non allontanandosi dal posto”. L’albero è così una immagine chiave del libro: ben ancorato al terreno con le sue radici è il simbolo di chi stoicamente sopporta e affronta “gli insulti del tempo” che si oppone alla smanie che impediscono di vivere bene. Per essere felici, pare dirci l’albero, non è necessario essere altrove, perché se l’infelicità è dentro di noi inevitabilmente ci segue ovunque.
Ma non si tratta, per Damiani, di essere passivi perché “rimanendo fermo non allontanandosi dal posto, /prendendo quello che trova, che c’è/ e provando a trasformare in bene /anche i mali”. Poesia quindi che canta l’idea di un’esplorazione immobile, che preferisce forme di vita “tradizionali” in cui il senso delle radici prevale. Un poesia dunque che si pone in uno spazio di discontinuità rispetto a tanta altra poesia contemporanea. Per Damiani l’altrove è qui, vicino, nello stupore delle cose che ci circondano e non vediamo. Visione “conservatrice” della vita, ma anche realistica, misurata, che aspira a forme di bellezza che la rendono interessante se messa a confronto con un mondo, il nostro, che consuma se stesso nell’inseguire figure e situazioni effimere, evanescenti quanto deprimenti. E il linguaggio di Damiani accompagna questa visione.

…..Abbiamo detto della centralità del sogno nel mito di Endimione e del ruolo poetico del sognare in questa raccolta. Come ha notato benissimo Gianfranco Lauretano (in ClanDestino, del 5/6/2020): “Il sogno di Endimione, dunque, è un modo per Damiani di riappropriarsi di un mondo che occorre vivere e persino soffrire pur non sapendone tutti i motivi. E nella dilatazione del tempo esso tocca la sua fine: c’è una poesia che è un autentico gioiello, dove il poeta bacia i suoi figli e si avvia, quasi ascendendo. Quando si gira a guardare quello che è successo, lo sa e ce lo dice: “Ho sognato la mia morte”. Ma in essa la tragedia di senso è risolta in bellezza: “magari me ne andassi così”. Se la vita è il sonno di Endimione, ci fa percepire il poeta, il sogno è essere amati dalla vita: nella guerra del mondo c’è un luogo in cui sappiamo che chi era impassibile si è fermato, è sceso dal cielo entrando nel tempo, per innamorarsi di noi”.

…..Stefano Vitale

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Molte volte la vita è sofferenza,
altre volte ci sono stati dei mattini luminosi,
dei risvegli, c’era nebbia e si saliva
come su strade di montagna
dove il cielo era sempre più azzurro
e si sentiva come una chiamata, un appello,
come se tutti fossimo chiamati in un punto
verso quelle nuvole, al di là di loro
e c’era poi una donna, non saprei dire chi fosse,
se piangeva o sorrideva, una donna
che piegava il capo con dolcezza.

***

Tutti si muovono, vanno su, vanno giù,
fanno questo, fanno quest’altro
e chi sono io? e chi sei tu?
tu invece non facevi niente
stavi lì ferma, seduta
e soltanto sorridevi.

***

Sì, ho cercato

Sì, ho cercato
ma adesso vorrei vagare
solo vagare
senza cercare.
Si, qualcosa ho trovato
cioè non proprio trovato,
qualcosa m’è passato vicino,
girandomi ho visto la coda
ma non mi va di inseguirlo,
ecco, lasciamolo stare, lasciamolo correre
dove gli pare.
Adesso vorrei essere io
questa cosa che appare non vista,
vorrei essere io questa cosa che vaga
e che ti sfiora, ti passa accanto nel sonno
mentre dormi, mentre mangi, mentre leggi
ti passa accanto e ti accarezza
o ti dà un bacio veloce
tu non fai a tempo a accorgertene
che già non mi vedi più.

***

Camminavamo per questa strada
in mezzo ai fiori
e ogni tanto ci baciavamo,
tu eri molto contenta dei fiori
e delle siepi, e accarezzavi le api
e eri sorpresa delle lucertole,
l’aria era bianca e fina, e tu la respiravi
io la respiravo nella tua bocca
e la espiravo, e il sole in alto brillava
e diffondeva la sua luce su tutto.
Più bianchi erano i tuoi piedi
dei colombi che si posavano
sui rami alti dei pini.

***

Entrando nella selva fui preso da un pensiero:
c’era una relazione tra le forme degli alberi
e te, anche gli odori, l’aria fine del bosco,
quell’ombra umida e fresca
e quei ronzii, quei suoni come fossero i respiri
degli alberi. Anche mi pareva
che il modo che avevano gli alberi di correre
e di venirmi incontro salutandomi contenti
assomigliasse ai tuoi moti,
che ci fosse una relazione col modo
di originarsi, in te, del movimento.
I baci poi sulle foglie assomigliavano ai baci
sulle tue guance, e ai tuoi occhi sorridenti
assomigliavano le loro palpebre semichiuse nell’ombra.
Il fatto che ci fosse una relazione
tra te irraggiungibile, eterea
e loro così quieti e vicini
– cui potevo stare accanto stando in piedi,
o seduto, e toccare i loro tronchi –
era una cosa che mi sembrava incredibile.

***

Di ansia sono fatto io, e non poso il capo
come questi tronchi sopra la terra solida
o come queste fronde posano quiete nell’aria.
Guarda queste foglie, come sono tenere
e questi baci che gli vorresti dare
sopra le care pagine, e di loro
ti vorresti fare una veste per ballare
o una coperta di vita verde in cui avvolgerti e cantare.

***

E poi volevo dirti anche un’altra cosa:
poiché siamo tutti in questo magma di fuoco
attaccati l’uno all’altro, di una sola sostanza,
anche il peggiore nemico è tutt’uno con te
e tutto il tempo, senza saperlo, gli dai la mano,
e anche un’altra cosa voglio dirti, le donne più belle,
quelle inarrivabili, inavvicinabili, eteree,
anche se non sembra le baci tutti i giorni,
tutte le notti, senza saperlo, le abbracci.

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…..Note sull’Autore
…..Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo, in Puglia, da dove la famiglia si è trasferita cinque anni più tardi a Roma, e vive a Rignano Flaminio, in provincia di Roma.
Le sue raccolte di versi: Fraturno (Abete, 1987), La mia casa (Pegaso, 1994, prefazione di Emanuele Trevi, Premio Dario Bellezza), La miniera (Fazi, 1997, Premio Carnet-Il miglior libro dell’anno), Eroi (Fazi, 2000), Poesie (Fazi, 2010), Il fico sulla fortezza (Fazi, 2012), Ode al monte Soratte (Fuorilinea, 2015), Cieli celesti (Fazi, 2016).
Suoi testi teatrali: Il rapimento di Proserpina (Festival di Villa Medici, 1986), Ninfale (Lepisma, 2013). Nel 1980, con B. Salvia, A. Colasanti e altri, ha fondato la rivista romana “Braci” (1980-84), e collaborato attivamente a “Prato Pagano”.
Nel 1992, con F. Sargentini, ha curato un’antologia di artisti e poeti contemporanei: Almanacco di Primavera. Arte e poesia (L’Attico). Nel 1995, per l’editore Fazi, ha curato il volume: Orazio, Arte poetica, con interventi di autori contemporanei. Sue poesie sono apparse in varie antologie, tra cui Nuovi poeti italiani contemporanei (a cura di R. Galaverni, Guaraldi, 1996), Ci sono fiori che fioriscono al buio. Antologia della poesia italiana dagli anni Settanta a oggi (a cura di S. Caltabellota, F. Peloso e S. Petrocchi, Frassinelli, 1997), Contemporary Italian Poets (Modern Poetry in Translation, King’s College, 1999), e quaderni collettivi, tra cui Poesia contemporanea. Secondo quaderno italiano (Guerini e Associati, 1992, prefazione di F. Buffoni). Ha pubblicato il saggio La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia (Lantana, 2016).

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