Gatta Donata e i suoi fratelli
(Genesi, 2010)

Il libro, che parla in un prosimetro degno della dantesca ‘Vita Nuova’ dei gatti dell’autrice, è dedicato ai gatti dell’autrice: è questa autoreferenzialità che preoccupa, in un mondo dove ormai ci si ritiene in dovere e in potere di scrivere su qualunque minima cosa, pensando che sia sufficiente un sussulto emotivo più o meno flebile a giustificare un’edizione.

I gatti sono animali affascinanti, e qui non si discute il diritto di scrivere su di loro e renderli a pieno titolo oggetto di poesia: è il tipo di poesia che si discute. Chiamare poesia l’elenco degli ingredienti della pappa del gatto o il gesto di pulirgli il pelo intriso di escrementi è qualcosa che nemmeno i futuristi più agguerriti e i nemici più accesi del lirismo sentimentale oserebbero mai fare. Non tanto per l’argomento in sé, perché credo che ogni poeta abbia il diritto di usare qualsiasi immagine per esprimere un concetto o se stesso, ma per l’assoluta vacuità del testo: finito di parlare della cacca del gatto, al lettore, che pure voglia impegnarsi in un’esegesi costruttiva, non resta che la cacca del gatto e l’odore orrendo che emana, su cui l’autrice si sofferma con competenza (qui sì, decisamente).

Tutto sommato è un po’ poco, e nemmeno divertente. Nasini, pelini, codine: un armamentario di parole che non copre nemmeno il lessico del ciclo elementare ci restituisce un balbettio infantile, che non è né un bell’effetto ricercato per qualche ragione comprensibile, né ha un senso ritmico. Semplicemente è povero. Basta l'”angelo di pelo” che descrive un povero gatto morto cadendo da un balcone: se non bastasse leggere la goffa immagine nei versi l’autrice ce la ripropone in prosa, a sottolinearne l’importanza. E le note a pie’ di pagina completano l’esegesi, informandoci che ora “una reticella protettiva scherma tutti i balconi” della poetessa. Ne siamo felici, ma non è davvero facile comprendere la ragione di pubblicare queste pagine.

Si potrebbe ridere molto, immaginando una controrecensione al vetriolo, acida e graffiante (un po’ più delle tanto amate unghie di gatto) e non si farebbe davvero molta fatica a mettere in risalto tutte le assurdità di cui è spalmato il libro: una breve antologia di versi ridicoli basterebbe a riscaldare per parecchie sere una combriccola di amici. Il problema è che non si riesce nemmeno a ridere. Leggo: “che palle / i tuoi graffi e graffini e graffietti / e morsi e denti non ancora perfetti”, oppure “in campo bianco / due stelle azzurre / due mandorle dolci / due mezzelune snelle / che sorridono / sopra i baffi” (per fortuna che il sopra è scritto in corsivo, se no potevamo pensare a un gatto che ha gli occhi sotto i baffi e questo nemmeno la creatività sfrenata di Lewis Carroll avrebe potuto tollerarlo) e al di là della risata da barzelletta vedo la smorfia della vergogna. Perché questo libro è stato pubblicato, recensito, prefato, postfato, premiato nel 2007 da un concorso letterario nazionale. Non ci sono possibilità di difenderlo, da nessun punto di vista, perché non è possibile accettare e definire come poesia la lista degli ingredienti della pappa del gatto e gli inutili elenchi di avverbi o sostantivi che definiscono il gatto (“gatta miciolina / gatta bambina / gatta gatta / gatta un po’ matta”: sono gli ultimi di una silloge 47 versi!): non hanno struttura, ragione, ritmo. E senza questi elementi la poesia non esiste.

L’assenza di un progetto e di un’idea è evidente perfino nella bibliografia, volutemente “sragionata”: ma chi desidera consultare un elenco che a malapena riproduce i sussulti dell’autrice? Non è troppo far passare gli appunti e i capricci appoggiati a una scrivania direttamente dall’editore a un premio letterario?

Quello che turba è la facilità con cui tutto si pubblica e si elogia. Leggere la prefazione e la postfazione solleva alcune preoccupazioni: un esperto biblista tira in ballo perfino la Genesi per argomentare (spero che non ci creda) che gli animali durante la creazione hanno quasi dato più soddisfazione a Dio che l’uomo. Tutto si può dimostrare, volendo, ma bisogna che le carte messe sul tavolo non siano fasulle.

Ora, io non ho alcun titolo per correggere la prefazione di Paolo De Benedetti, teologo, docente di Giudaismo e Antico Testamento, membro della commissione per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso dell’arcidiocesi di Milano, ma mi irrita un po’ vedere le teorie trascinate per i capelli nella direzione assurda del libro sui gatti, per giustificare una silloge poetica. Anche perché, stando alla parola scritta, non si può usare come argomento il fatto che durante i giorni della creazione Dio disse che “era cosa buona” dopo aver creato gli animali e non disse niente dopo aver creato l’uomo, perché non è vero. Intanto la frase “vide che era cosa buona” scandisce tutti i giorni della Genesi, esattamente come la frase “e fu sera e fu mattina”, quindi non caratterizza la creazione degli animali; poi, alla fine del sesto giorno, si legge: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa MOLTO buona”. Il “molto” lo sottolineo io, perché, nel mio tiepido cattolicesimo, ritengo ancora che l’uomo abbia una dignità superiore agli animali, fino a quando non lo si dimostrerà con teorie più convincenti di quelle che citano solo quel che vogliono e tralasciano il resto.

Se bisogna scomodare la Genesi per giustificare queste poesie; se bisogna ingoiare un neologismo come “gatticità” contrapposto a umanità, nella postfazione, allora vuol dire che ciò che sta nei versi non ha una sua autonomia e ha necessità di molte, troppe stampelle, per giunta scelte male.

Quindi, per citare l’autrice, “che palle”.

Artufo (il critico arcistufo)
Dicembre 2010

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