GIOSTRE DI POESIA di Cetta Brancato
(La vita felice, 2018)
“Fuoco”, “Amore”, “Sangue”, “Anima”, “Sole, “Mare”, “Morti”… sono tra le parole più ricorrenti in questo libro. Parole “classiche”, forse abusate, ma che in queste poesie ritrovano una loro vitalità e ragion d’essere. Il lirismo “fisico”, concreto e concentrato di Cetta Brancato ha bisogno di queste parole, grumi di senso universale da cui lei non riesce a prescindere. Perché questo libro è un viaggio della scrittrice dentro se stessa, nella sua storia, risalendo all’infanzia, attraversando la vita coniugale, la storia della sua terra, la Sicilia. Non c’è la volontà utopica di azzerare il tempo e o mitizzare un tempo, c’è invece la consapevolezza di lacerazioni impossibili da ricucire completamente. E’ la poesia che si assume il compito di “tentare il rammendo”. La giostra è una metafora ovviamente, quella della vita, ma è anche quella della poesia stessa.
La sezione “L’infiammato sorridere” che apre la raccolta è a sua volta aperta da tre versi programmatici “Non desidero per me/che la garbata e folle/fortuna di essere nata”. Cetta esprime, così, in modo diretto e schietto, una gioia esistenziale che non è abituale in molta poesia spesso troppo preoccupata di farsi del male. Ma c’è una liricità greca, antica in questi tre semplici versi che si disvela nei componimenti successivi, poesie che rivelano il forte senso di legame con la propria terra, che intrecciano il tema autobiografico con quello fondamentale della ricerca, necessaria, ma che non è mai davvero riconquistata, dell’innocenza e dell’autenticità., tema questo dagli echi pasoliniani. In questo senso la poesia di Cetta Brancato ha un sua forma di religiosità non “istituzionale”, ma interiore che la guida e la sostiene. “Sono nata quando/i mandorli accennano fiori, vibrando al cielo/timidezze bianche. /E aratri lacerano zolle, /nelle colline, coi loro denti./Ai piedi del travaglio/papaveri nel sangue/tradussero il respiro”,/risparmiando l’accordo/nel canto del vagito./Petali e ferro/le ore che non vidi./Ruggine e primavera/ è ancora il tempo mio”.
Cetta Brancato predilige il verso breve, cerca una chiusa a imbuto, talvolta interrogativa, altre volte è aforistica, altre ancora la definizione finale si fa sentenza, senz’arroganza. “Con timbri di carbone, /adesso muto in fiamma, /ad ogni vento libera”; oppure “Madre bambina,/cos’hai fatto di me?”; o ancora ”Sul sepolcro dell’eleganza/il vostro pensare/non è il mio sentire” (e qui risuona tutta una sicilitudo fatta di contrasto tra l’essere e l’apparire); si legga anche “Senza sosta alimentiamo/l’esistere fuori dalla vita”.
Interessante ed efficace poi l’uso di certi termini: “Un autunno perfetto/dal cuore ferrigno/nei ruvidi odore/delle mele cotogne/la città non permette malinconia. /sulla cesta di melograni/l’anima che nessuno vede” . Qui l’uso sapiente di aggettivi come perfetto, ferrigno, ruvidi crea un effetto sensibile molto riuscito. Ed è bello l’incipit “Sono foglia di basilico/essiccata nel sangue del mare” che nuovamente rivela il legame della poetessa con il proprio paesaggio mediterraneo. Cetta Brancato ci dice “Scrivo come si scioglie un nodo,/come afferma un vizio,/come si ripara il dolore./In rabbioso vanto di cielo”. Ma ci sono nodi che non si possono sciogliere, così come c’è un tempo che non possiamo più raggiungere, al massimo rammendare, come detto, con la poesia. Uno di questi nodi è l’Io stesso, interiorità esistenziale e poetica. “Posso dare tutto,/tranne me stessa: quel vulnerabile residuo d’anima/sopravvissuto/ a un tremore d’amianto”.
Tutta la sezione è costellata, nei testi come detto brevi che la compongono, da versi e immagini che restano impresse nella memoria, come delle fotografie: “L’eleganza di una donna/ è raccolta nelle sue mani”; “la potatura dell’anima”; “Il demone dell’innocenza /consuma dannazione”; “Ci sono ore di pozzo/altre di alba”; “…l’eloquenza muta dell’isola/che, tutta, diventa carne”. Immagini che evidenziano il senso della poetessa per la definizione definitiva, per l’urgenza poetica di fissare un punto nitido e fermo. Anche se ogni tanto ci sorprende con sbalzi enigmatici: “Ho desideri di maggese/nell’anima già arata./Di fiori porpora, /sgravati da ogni semina./Nessuno è mai amore”. Lo scambio simbolico, il vuoto enigmatico del verso, la chiusura pessimistica possono apparire episodici, ma sono a mio modo di vedere il segno di un’altra forza motrice della poesia di Brancato: quella della disillusione. Che ritroviamo in versi quali “Non affannatevi/ a vivere per me” oppure nel testo “Ho abitato tante vite/e, di ciascuna, /coltivo l’ombra”.
“Stormi d’incontro” è la seconda sezione. Qui segnalo una serie di poesie melanconiche sul tema dell’amore che sembrano rimandare ad un’altra fase della vita. “con un osso d’’anima/fra i denti/l’amore presenta/il suo saldo di lama”; “L’amore non tollera nomi./Ciò che si chiama muore”; “L’amore rischia/ che la bellezza/ sia irrisa”; “la fedeltà è suggellata/ da silenzi di fango,/da delicato assenzio./; “Disabitato rimane/l’edificio dell’amore”… risuona in questi versi, come abbiamo rilevato all’inizio, l’eco dei frammenti dei lirici greci che, così pare, fanno parte probabilmente del tessuto culturale di Cetta Brancato. C’è un’enfasi trattenuta, ma che di tanto emerge, c’è una volontà di saggezza, sia pure melanconica, che riconosco e dà senso al lavoro poetico dell’autrice: “Nessuno è più forte / di chi si dichiara sconfitto. /Nella crosta del tempo/io ti sia tempesta/quando senti il cuore”.
“L’ultimo giro di grazia” apre ad altri orizzonti tematici. Il viaggio continua e “L’anima non basta. /Mente a ogni velata urgenza…/Dispotica, maldestra rondine/…arretra verso l’abisso”. Cetta Brancato si sofferma così a guardare e soppesare il destino della poesia, della sua poesia in un gesto che oscilla tra la necessità del canto e la consapevolezza dei limiti: “Non è serio sognare. /Bisogna fermarsi/prima che qualcuno/chiami poesia/il tuo zoppo vivere”. Perché “nei versi si deforma, /irreversibilmente, il cuore”, perché “vano è nutrire/chi non ha fame d’anime”; perché “nessuno attende il poeta”; perché “Bisogna che sull’uscio/il cane della poesia/sorvegli il vivere”; perché “per scrivere poesia/si deve essere morti/un paio di volte, almeno” sino all’invocazione “A cosa serve, /a cosa serve essere poeti?” nella disperata distanza tra poesia e realtà. Ma Brancato non ha paura di mettere l’io poetante in primo piano: “Non conosco nulla/di più salato/della mia nostalgia”. Una professione di fede poetica, una voglia di resistenza grazie alla parola per controbilanciare il naturale pessimismo della specie.
“Nella polvere del circo” chiude la raccolta. Colpiscono alcune immagini calde: “Il cielo perde anice. /e non s’incarna altrove. /Quando, nell’insonne grazie, si spegneranno/lo zolfo delle vocali, /il rigore delle sospensioni/il sangue delle consonanti, /saprete la mia morte”. E’ questo un gioco barocco, ma moderno che precede alcune immagini “religiose” come a voler sottolineare la tragicità della condizione umana e del poeta: “Sul Golgota del cuore/i bigotti non perdonano/ le risurrezioni dell’uomo libero”; “Talvolta s’interrogano i morti. /Cacciato dall’eterno, /rincasano in barbarie”; “Il mio inferno fonda la luce/negli occhi dei giacinti”. Tragicità che culmina in una sintesi tematica e culturale precisa in questa poesia: ”L’sola c’illude d’eternità./In Sicilia muore/il figlio di Dio,/mai l’uomo, /pietra d’immortali ossa“, che riverbera in versi quali “Siamo anime dure/consegnate al sangue” che “senza reti si affoga nell’esistere” e che trova la sua laica conclusione nella poesia dedicata, come a sugellare un nume, a Pierpaolo Pasolini che chiude il libro:
Poiché andava
verso i gelsomini,
vide la morte.
E il cielo perse sangue,
in ogni periferia,
per un dolore.
Poiché venne
solo per amore,
dannato è il canto
dell’urlo all’idroscalo.
Era agonia d’argilla,
in terrea croce,
per l’ultima supplica alla madre.
Eppure, splende
la derubata voce.
Nell’alveo della fossa
mi ricompone i cuore.
Recensione di Stefano Vitale
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Note sull’Autrice
Cetta Brancato, scrittrice e drammaturga, vive e lavora a Palermo.
È autrice di numerose opere teatrali, rappresentate in molti teatri italiani, ha lavorato con Andrea Camilleri, Antonio Raffaele Addamo, Luciano Melchionna e altri registi, firmando la sceneggiatura di Con gli occhi di un altro, film tratto dalla sua opera dal titolo 19 luglio 1992 (editrice Kalòs di Palermo, prefazione di Andrea Camilleri), data della strage di Via D’Amelio.
Nel 2010 il film ha ricevuto una menzione speciale all’I’ve Seen Films per l’originalità della lingua. Ha fondato la rivista trimestrale Suddovest e ha collaborato a diverse riviste e progetti culturali. È socia della Società Siciliana per la Storia Patria. Nel settembre del 2013 è andato in scena al Teatro Massimo di Palermo il suo lavoro L’amore all’inferno. Nel settembre del 2014, in collaborazione con i Cantieri culturali alla Zisa di Palermo, ha curato la mostra fotografica “Pasolini – Matera” sul Vangelo secondo Matteo.
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