“Giuseppe Verdi, Va’ Pensiero”: a cura di Alberto Mattioli
(Garzanti, 2021)

…..Primo Quadro, dove si raccontano tristi vicende del nostro inglorioso recente passato

…..Diego Pretini sul “Fatto Quotidiano” del 15 maggio 2021 ci ricorda come la questione eterna del “Va’ pensiero” sia stata riaperta dal mondo politico, sempre affamato di propaganda: “Il centrodestra aveva appena fatto il pienone alle elezioni e così, nel torpore un po’ bovino dell’estate, si alzò Rocco Buttiglione e fece valere tutte le sue mostrine di ministro per le Politiche comunitarie con un temone che fece tremare l’intera Unione europea: l’inno di Mameli va sostituito, disse, è meglio il Va’, pensiero di Giuseppe Verdi. Come accade con le uscite strampalate dei ministri di tutti i tempi la cosa non fu fatta cadere nella sonnolenza di quel luglio di vent’anni fa come carità di patria (è il caso di dire) avrebbe voluto e come la tragedia del G8 di Genova purtroppo si prese la premura di fare di lì a qualche giorno.
Al contrario l’uscita di Buttiglione quel giorno fu argomento da prima pagina e alleati di governo e partiti dello schieramento avversario si affollarono per dire la loro. Gli ex missini inviperiti, il compagno di partito di Buttiglione Marco Follini invitò a imparare a memoria il Canto degli Italiani di Mameli e Novaro mentre la compagna e basta, ex ministra dilibertiana, Katia Bellillo, rivendicò di saperlo già a menadito. Francesco Speroni – capo di gabinetto del ministro Umberto Bossi – passò subito alle avvertenze: ‘giù le mani dal Va’, pensiero’.

…..Il coro del Nabucco qualche anno prima infatti era stato infilato in uno dei 9 articoli della cosiddetta “Costituzione transitoria” della cosiddetta Padania. Alcuni giorni prima di quella Costituente che non costituì nulla, Bossi ne aveva dato un’interpretazione un po’ grossier, come da sua abitudine, commentando una rappresentazione all’Arena di Verona, dove peraltro era stato fischiato: “L’hanno fatto bene davvero. In basso gli schiavi, gli ebrei, cioè il popolo, cioè la Padania; in alto il Potere, cioè Scalfaro, cioè quel terun di Di Pietro. Va’, pensiero dovrebbe essere l’inno della Padania, anche se so che la musica è di tutti e c’è tanta gente al sud che ama Verdi. Ma se il Sud capirà che il nemico non è il Nord, ma è Roma, allora capirà anche il significato del Va’ pensiero”.
Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro si prese del tempo prima di rispondere e visto che i leghisti si erano fissati con questa cosa di Verdi da colorare di verde-carroccio alla fine affilò la lama del suo italiano: “Solo la non cultura può portare a ritenere che ‘Va’ pensiero’ possa essere un canto di divisione e non il canto verdiano dell’aspirazione all’unità della Patria sì bella e perduta”. E c’è da dire che forse si era anche perso Mario Borghezio che in quanto leghista riteneva tutti i diritti riservati sulle note del Nabucco “scritte e pensate da un cuore lombardo”, laddove Verdi – come sanno anche i muri – è nato e lungamente ha vissuto a Busseto, vicino a Parma.

…..Eppure tutto questo infelice dibattito era già vecchio di dieci anni almeno se è vero che il capo del governo Bettino Craxi una volta confessò al suo ministro della Difesa Giovanni Spadolini che gli sarebbe proprio piaciuto proporre quel coro verdiano come inno al posto quello di Mameli. Il leader repubblicano però gli spiegò con parole più nobili di queste che c’entrava un po’ come il cavolo a merenda perché il Va’ pensiero era pur sempre un canto di dolore, nella fattispecie del popolo di Israele per la patria lontana. Non proprio una cosa da training autogeno di un popolo.”
Così parlò, anzi scrisse, Diego Pretini.

…..Secondo Quadro. Qui si legge la versione ufficiale dei fatti

…..Sul sito “Verdi a Milano” troviamo scritto, a proposito del Nabucco:
Il 9 marzo 1842 il “Nabucco” andò finalmente in scena a La Scala. Sino all’ultimo momento Verdi dovette lottare con la tirchieria di Merelli che gli impose — per lesina — di recuperare scene e vestiari usati dai magazzini. Ciò nonostante, come il Maestro racconterà  «i costumi raffazzonati alla meglio riescono splendidi. Scene vecchie, riaccomodate dal pittore Perroni, sortono  invece un effetto straordinario: la prima scena del tempio in specie produce un effetto così grande che gli applausi del pubblico durano dieci minuti».

…..Come è noto la Prima fu un trionfo. Seguirono otto recite subito e ben 57 — un vero record per l’epoca — tra agosto e settembre. Sebbene la critica esprimesse perplessità e riserve — soprattutto sulla generosa ma ormai, artisticamente, declinante Strepponi —, il pubblico non ebbe dubbi e incoronò Verdi quale suo nuovo beniamino. Caustico, invece, il commento di Gioacchino Rossini che definì, dopo aver letto lo spartito, il giovane emiliano “un compositore col casco”. Evidentemente l’impetuosa musica verdiana non era nelle corde dell’autore de “Il Barbiere di Siviglia”, che aggiunse perfido: “se non avessi conosciuto il nome del compositore, avrei scommesso che fosse un colonnello d’artiglieria”.

…..Gelosie e riserve a parte, con il Nabucco, Verdi entra in piena sintonia con il sentimento che ormai scuote segmenti sempre più larghi della società civile lombarda e italiana: il patriottismo. In una città sempre più insofferente degli assetti fissati a Vienna nel 1815 dalle forze della Restaurazione, ogni segno di discontinuità  — casuale o voluto — con le regole e i simboli imposti dal governo austriaco diventa una bandiera. È il destino del “Va, pensiero, sull’ali dorate”, momento centrale dell’opera.

…..Ricordiamo, però, che il librettista era figlio di un affiliato alla Carboneria e lui stesso era vicino ai circoli dell’opposizione “neoguelfa” —  ebbero da subito chiara la portata politica del loro messaggio musicale. La questione resta ancor oggi controversa ed intricata. Certo è che il “Nabucco” era ufficialmente dedicato — un omaggio dovuto all’occhiuta censura asburgica? —  alla figlia del viceré austriaco e mai, persino dopo l’incendio del 1848-49, le autorità imperiali proibirono l’esecuzione delle opere verdiane nei teatri del Lombardo Veneto e degli stati satelliti. Per di più le note del “Nabucco” risuonarono pochi mesi dopo la Prima scaligera — con gran gioia del compositore, uomo concreto, che vedeva dischiudersi una carriera internazionale —a Vienna, la capitale dell’impero.

…..Per capire le ragioni degli atteggiamenti — sia quelli delle autorità sia quelli dell’artista — è dunque necessario contestualizzare la situazione. Nel 1842, il Lombardo Veneto e l’Italia per l’Austria sono un’area relativamente tranquilla. Dopo il fallimento delle congiure di Confalonieri e la dura repressione del 1821-22, l’ordine sembra regnare in val Padana. Dai documenti di Metternich, il grande architetto del congresso di Vienna e sommo regista delle politiche asburgiche, non emergono, infatti, particolari preoccupazioni per le sorti delle province italiane e tanto meno dei ducati e della Toscana. Ad inquietare il principe, caso mai, è l’arretratezza della teocrazia romana e le politiche isolazioniste di Ferdinando di Borbone, spigoloso sovrano delle Due Sicilie.

…..Ancor meno importanza è data dai burocrati della potenza occupante al processo di rinnovamento civile ed artistico che ha il suo centro propulsore proprio a Milano; la netta distanza dagli ambienti cospiratori — la velleitaria carboneria e la ben più seria Giovine Italia —  di Manzoni, Hayez, Cattaneo e dello stesso Verdi, rassicura il potere. Da qui una certa tolleranza e un’elasticità verso alcuni settori della società — i letterati, i musicisti, i pittori — ritenuti privilegiati quanto politicamente innocui.
Un errore, l’ennesimo, di un impero ormai stanco e miope. Dopo il disastro delle ingenue manovre carbonare del 1821 — un pericoloso “gioco di società” sbaragliato dalle dure condanne allo Spielberg — a Milano l’opposizione ha imboccato nuove strade, nuovi percorsi. Meno incauti ma più efficaci: il terreno delle idee.

…..Oltre i dettami di certo manierismo risorgimentale, la grande rinascita culturale «del nostro Ottocento come valore connesso all’idea di patria unitaria ha proprio nelle arti, letteratura, arte figurativa, musica e storiografia, le sue espressioni più persuasive e feconde. Si sentiva l’esigenza di rappresentare attraverso tali linguaggi soprattutto la vita e lo sviluppo di un popolo all’interno di un panorama che aveva i suoi confini e il suo fine nella creazione dell’idea di nazione. La vita culturale milanese da questo punto di vista fu esemplare».

…..Da qui la nostra convinzione che sin dagli esordi meneghini e con sempre maggiore consapevolezza, l’artista emiliano respirasse quest’aria nuova e frizzante; nota dopo nota, discussione dopo discussione, incontro dopo incontro, inevitabilmente il bussetano, ormai inurbato, divenne parte e, poi, protagonista del movimento di rigenerazione della cultura e dell’arte italiana — un’atmosfera potente che sarà prodromica all’azione politica e poi, nel ’48, al momento insurrezionale. Al tempo stesso l’artista avvertì sempre più i limiti soffocanti, che sfidò a più riprese, della censura e la limitatezza degli orizzonti reazionari.  Poco importa, dunque, il grado di sensibilità politica di Verdi al tempo del “Nabucco”. Le sue musiche e i versi di Solera erano in perfetta sintonia con le sensibilità del pubblico e lo “spirito del tempo”.
Di certo, come scrive Massimo Mila, «quella sera del 9 marzo il pubblico capì al volo l’antifona: gli eleganti ufficialetti austriaci in divisa bianca che frequentavano le Prime de La Scala dovettero sentire, forse per la prima volta, l’odio del popolo oppresso come qualcosa di solido, spesso, concreto, da toccare con mano. Questi italiani così bravi, così simpatici, così imbelli, cosa gli prende?»

…..Terzo Quadro, dove interviene la voce ferma del valoroso librino…

…..Ma qual è la verità, nient’altro che la verità sul Va’, pensiero, presunto inno mancato?
Alberto Mattioli ci dà le dritte necessarie in Va’, pensiero (Garzanti, serie Piccoli grandi libri, 64 pag, 4,90 euro), e con la sua indiscussa e indiscutibile competenza e sagacia di toni e di scrittura ci spiega come stavano e stanno le cose. L’operazione di Alberto Mattioli si fonda su dati e documenti storici utili a mettere in luce da un lato le intenzioni e la visione di Giuseppe Verdi, dall’altro lato a darci conto dei fraintendimenti e delle manipolazioni via via operati. Alberto Mattioli vuole così smitizzare l’immagine patriottica del Va’ pensiero legato in realtà da un lato a storie molto terrene e, dall’altro lato, a intenzioni artistiche e comunicative ben diverse.

…..Mattioli ci restituisce l’essenza autentica delle vicende e così un’immagine ancora più autorevole dell’opera stessa. Una operazione di verità che libera da incrostazioni ideologiche e che può celebrare meglio e più consapevolmente ciò di cui si sta parlando. Quindi con la sua nota capacità di dominio delle informazioni associato ad uno stile di scrittura spumeggiante quanto convincente, Mattioli ci fa scoprire al lettore che Verdi quando scrisse quel coro della scena quarta della terza parte del Nabucco, nel 1842, non pensava affatto agli italiani soggiogati dai dominatori stranieri, ma proprio a quelli che in effetti lo cantano nell’opera, cioè gli Ebrei soggiogati dai dominatori babilonesi.

…..Gli elementi sono numerosi: per esempio, come Mattioli aveva già raccontato in Meno grigi più Verdi, il compositore emiliano all’epoca “non aveva ancora una coscienza politica definita”. Inoltre ci dimostra che per Verdi Va’, pensiero è “un inno di dolore, non di riscossa”. E l’ironia di Alberto Mattioli colpisce poi l’ossessione dei direttori d’orchestra di “bissarlo d’ufficio”, anche quando non lo chiede nessuno. Per non dire del fatto che il libretto, firmato dal poeta Temistocle Solera, segue, quasi parola per parola, un salmo, il 137, del relativo libro dell’Antico Testamento. Più prosaicamente, fa notare Mattioli, che Nabucco è “umilmente dedicato a Sua Altezza Imperiale la Serenissima Arciduchessa Adelaide d’Austria”, cioè la figlia di Ranieri, cioè il viceré del Lombardo-Veneto fino al ’48 quando appunto accadde un quarantotto e fu sostituito dal feldmaresciallo Josef Radetzky. Cioè gli oppressori.

…..Che il Coro si sia prestato a dare una immagine del Verdi risorgimentale non c’è dubbio. Ma resta anche il fatto che Verdi “diventò o fu fatto diventare la statua di se stesso”. Dopo l’Unità, sottolinea il libretto, “l’intera storia nazionale venne riletta” in una “luce mitica”, usando anche storie e personaggi “per nulla motivati dall’aspirazione dell’Unità: ‘arruolandoli‘”. Mattioli ci dice che “Verdi al momento giusto tifò Italia, tutta intera e tutta unita (con buona pace della retorica bossiana-leghista), anzi diventa parlamentare – deputato e poi senatore – di quel Regno ai primi passi. Ed è chiaro per Mattioli che solo dopo il successo del Nabucco – e non prima – che Verdi assume una consapevolezza civica e politica. Nabucco non nasce risorgimentale, ma lo diventa, ribadisce Mattioli, scavalcando i decenni e poi un paio di secoli, fino a conquistare l’immaginario collettivo, a trasformarsi in “emblema identitario”, “icona dei padri”.

…..Divertente e istruttivo il finale del nostro librino: Mattioli ripercorre il destino del “Va’, pensiero” dal punto di vista dell’uso e abuso politico sino ad arrivare ai nostri giorni. Naturalmente il coro era un pallino di Umberto Bossi benché arrivò a collocarlo non nel Nabucco ma nell’opera successiva “I Lombardi”. Salvini gli preferirà “Nessun dorma!” dalla Turandot (per il verso “Vincerò” ovviamente) ma il nostro amato “Va’ pensiero” avrà successi in Francia con Marine Le Pen e anche con i sindacati in contrasto coi piani di riforma pensionistica di Macron. Naturalmente il maestro Muti lo usò nel 2011 per i 150 anni dell’Unità d’Italia arringando il pubblico contro i tagli alla cultura. Il coro è presente come apertura o chiusura di numerosi eventi sportivi e lo cantano in tanti, con alterne fortune e svariate stecche, da Al Bano a Zucchero con Pavarotti.

…..Finale. In Gloria, naturalmente.

…..Allora il Coro degli Ebrei del Nabucco nasce in contesti e con intenti del tutto diversi da quelli in cui è stato collocato successivamente. Non c’è nulla di male: si tratta solo di conoscere meglio la storia e la natura delle cose. La cosa che colpisce è la capacità della politica e, più in generale, degli uomini di manipolare, modificare, utilizzare i fatti per il proprio uso e consumo. Anche di ciò non ci si deve stupire. E’ sempre andata così. Ma dobbiamo anche considerare il grande bisogno che gli uomini hanno di simboli, specie se questi riescono a rappresentare i propri desideri.
L’Esodo è da sempre un segnale utopico: la nostalgia della “Patria” perduta, e a cui pensiamo, può essere una spinta per attraversare il deserto, per mettersi in movimento.
Certo dobbiamo ringraziare Alberto Mattioli che si è divertito nel restituirci un po’ di verità. Cosa di cui abbiamo sempre bisogno così come di piccole grandi utopie.

…..Stefano Vitale

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