“GLI STRUMENTI UMANI” di Vittorio Sereni
(Il Saggiatore, Milano, 2018)
Introduzione di Chiara Fenoglio

Riprendere in mano Gli strumenti umani è una bella esperienza, sia per un lettore che per un poeta. Per il primo perché ci si ritrova con uno dei maggiori poeti del Novecento, per il secondo perché può comprendere la radice di tanta poesia contemporanea. Una pubblicazione opportuna quindi, che può dire molto sul quadro della poesia in Italia, sia dal punto di vista storico che poetico in sé. Diciamo subito che la prefazione di Chiara Fenoglio è un saggio illuminante e prezioso che aiuta, sia il lettore che il poeta e lo studioso, a ri-comprendere Sereni alla luce di questa doppia prospettiva, quella appunto della dimensione storico-letteraria e quella della poesia viva e vegeta. Ed è in questa direzione che assumeremo questa nuova introduzione a “stella variabile” del nostro ragionamento critico.

Fin dal primo verso si spalancano orizzonti di lettura molto importanti. «Con non altri che te / è il colloquio». Così si apre Gli strumenti umani, la terza maggiore raccolta poetica di Vittorio Sereni (1913-1983), pubblicata nel 1965 presso Einaudi. Essa segnò una svolta nella produzione poetica dell’autore (dopo la pubblicazione di Frontiera e Diario d’Algeria): rappresentò una nuova esperienza letteraria in cui la materia tematica e lo stile del poeta si aprivano a una maggiore volontà comunicativa, ad un contatto con il mondo esterno.

Questa volontà di interazione con il mondo, profondamente mutato nel clima del dopoguerra, viene messa in primo piano in tutta la raccolta, sin dal titolo stesso. In un’intervista rilasciata nel 1965 l’autore affermava:

“Mi è capitato di isolare questa espressione: “gli strumenti umani”. D’altra parte, qui, gli strumenti umani, in questa poesia, hanno un significato piuttosto occasionale […]. È per significare i mezzi con cui queste poche persone, queste vite che appena si affacciano lungo la strada che viene percorsa, vivono e sopravvivono. […] Dovendo diventare il titolo del libro, in realtà ho pensato ad altro. Non sono i dimessi strumenti umani di cui si parla qui, ma restando magari dimessi, finiscono col significare altro. […] Penso, semmai, agli strumenti come ai mezzi o agli espedienti con cui un uomo affronta il reale. Non vorrei sottolineare troppo l’aggettivo “umani”, non vorrei dargli un’intonazione patetica […] ma, semmai, un’espressione più – come dire? – limitativa ed anche amara, al tempo stesso sottintendendo tutto ciò che gli strumenti umani non riescono a padroneggiare”.

Questi “strumenti umani” sono dunque interpretabili come i mezzi attraverso i quali l’uomo entra in contatto con il mondo nel quotidiano, ma sono anche quelli con cui l’uomo affronta l’esistenza, il mistero, il destino, includendovi anche la stessa poesia (lo “strumento” di lavoro del poeta). Il continuo richiamo alla concretezza delle circostanze e delle esperienze in cui l’io poetico si trova immerso, s’intreccia così con riflessioni metafisiche svolte in maniera impietosa, diretta, talvolta dura. Chiara Fenoglio coglie questa “dialettica” quando scrive: “Nel rileggere gli Strumenti umani ci si sente ancora oggi divisi tra due sensazioni contrastanti, già segnalate a suo tempo da Cesare Garboli: quella di essere «ospiti, assolutamente indiscreti» di questi versi, trovandoci tuttavia di fronte a un «discorso che ci riguarda strettamente da vicino», sospesi davanti «all’impossibile epifania di un segreto» che parla a nome di tutti”. (Garboli, 1968, p. 165).

La concretezza, l’oggettivazione che spingeva Sereni a non inventare mai nulla… ha il suo doppio speculare nell’astrazione, nella riduzione del dato esplicito a favore di una declinazione a tratti gnomica, che consente al lettore di individuare nelle liriche di Sereni un’apertura alla dimensione universale, di riconoscere un comune spazio culturale o teorico.

Ma attenzione: non si tratta di uno sguardo strabico, persino schizofrenico. La poesia di Sereni è perfettamente “attuale”, dal mio punto di vista proprio perché: “Gli elementi coinvolti nella rappresentazione poetica risultano in tal modo «sovradeterminati»: le cose, gli oggetti, diciamo il mondo, hanno un loro preciso statuto di realtà nella poesia di Sereni; eppure – lo ha notato Stefano Agosti – «figurano caricati di una connotazione insolita rispetto a quella abituale, in quanto sospesi in un’altra aura, che non è più quella della percezione ordinaria cui è affidata la registrazione della realtà» (2014, p. 19).

C’è dunque una doppia dimensione nella realtà: le cose sono il segno di se stesse e al tempo stesso di qualcosa che è “altro”, che “restituisce un’immagine di sé più ricca, carica di tonalità che sconfinano nei territori onirici…”. La sua poesia è radicata nell’esperienza, ma ha sempre qualcosa di misterioso. La sua poesia realizza un felice equilibrio tra opacità delle cose, della realtà e leggerezza profonda della voce ponendo i suoi versi su un confine “trascolorante” di grande impatto linguistico ed emotivo. Anche quando appare freddo, tagliente, distante.

Da questo punto di vista Fenoglio rileva che questo “generale effetto di perplessità proietta sui versi di Sereni una atmosfera di attesa, già allusa dall’autore in una prosa del 1947, dove il poeta veniva descritto come un credente che aspetti i segni della grazia, convinto esclusivamente della predestinazione e senza fiducia nel merito che l’operare potrà acquistargli; e che tuttavia non può fare a meno di operare sapendo che non le opere gli daranno la grazia ma che attraverso le opere soltanto egli potrà spiare l’avvento dei segni che aspetta (Esperienza della poesia, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, p. 30).”

Sappiamo che per Sereni la poesia è «giustificazione» del proprio «passaggio nel mondo», inteso come “attesa di un segno, di un «dì che vola / a gente che di là forse l’aspetta», quindi di una possibilità di salvezza che giungerà imprevista e imprevedibile”.

La dimensione “religiosa” è quindi importante perché lo porta a “depotenziare il valore della letteratura come a-priori o come assoluto, e sostituirvi l’idea che essa sia, più che un valore in atto, un valore in potenza, una energia in continua tensione con la nostra esistenza, da cui la poesia scaturisce incessantemente,…”. Così la sua poetica, ci ricorda ancora Fenoglio, è impegnata nel tentativo «di fronteggiare l’esistenza, di darne una ragione» a dispetto della precarietà dei mezzi a disposizione: scrivere cioè «come vacuità», ma anche come «forma di vitalità» (Sereni, 1980, p. 40). Va detto, al mio punto di vista, che questa funzione della poesia, mi pare ancorata ad una scelta di tipo “morale”: non educativa o peggio, pedagogica, neppure enfaticamente ideologica o etica. E’ l’impegno morale ad animare l’azione del poeta, quello di tutti giorni, del lavoro ben fatto, della riflessione sui principi del vivere, della fatica di essere coerenti e consapevoli dei propri errori, delle proprie responsabilità. Anche di quelle mancate.

Ora, al di là dello sfondo religioso che Chiara Fenoglio indica, penso vi sia un punto di vista “laico” che permette di leggere, in Sereni e da qui a noi oggi, la poesia non come forma assoluta, sciolta da ogni legame, dell’espressione dell’uomo, ma come “strumento” di cui disponiamo per dare un senso alle cose, per mettere ordine, per quanto possibile, nel caos del mondo e di noi stessi. La poesia è uno stato di allerta, esprime un’emergenza da cogliere. Kantianamente, direi, la poesia è una forma specifica di conoscenza che, coi suoi limiti, dà un senso al conoscibile e un orientamento verso l’inconoscibile, con cui dialoga costantemente, lasciando emergere ciò che non tutti vedono o riescono a vedere. Sereni non è poeta “istintivo”, egli deve costruire passo passo la sua poesia e lo anche usando strumenti ermetici oltre che osservazioni “naturalistiche”, intrecciando salti gnomici con abbandoni esistenzialistici. Ma ha ben chiaro l’impegno del poeta. Scrive opportunamente Chiara Fenoglio: “Dunque che cosa sono gli Strumenti umani se non, propriamente, gli attrezzi grazie ai quali – per mezzo dei quali – il poeta fronteggia l’esistente, lo comprende e gli offre una collocazione di senso?” Questo crea un campo di tensione tra la poesia e la realtà, cosa che ritroviamo, sia pure con esiti diversi, anche nella poesia contemporanea. Il grave, talvolta è che molti poeti, giovani e meno giovani, scrivano senza avere chiare le radici del loro scrivere e pretendano così di reinventare il mondo daccapo.

Lo sguardo di rimando
I
niziamo il nostro viaggio entrando nelle sezioni del libro, così come ci invita a fare Chiara Fenoglio nella sua introduzione che scrive: “La prima sezione – Uno sguardo di rimando – si apre su una prospettiva urbana (quella della milanese Via Scarlatti) e fin dai primi versi si immerge nel passato per poi tornare al presente, nella consapevolezza che la memoria è diventata impossibile perché invasa dal buio, fatta cenere e fumo: «Oltre anche più s’abbuia, / è cenere e fumo la via. / Ma i volti i volti non so dire: / ombra più ombra di fatica e d’ira».

La memoria è incerta, “fallisce il bersaglio”, ma resta uno degli strumenti di cui disponiamo per stabilire una relazione io e mondo “anche quando segnala una mancata corrispondenza, una lacuna (Un ritorno), un enigma, forse un tradimento (Nella neve).

Va notato che Sereni inverte la visione petrarchesca, “corregge il punto di vista e pone al centro della sua indagine poetica non tanto il soggetto lirico che guarda, quanto piuttosto le cose osservate, il loro costituirsi in forma di mondo.”

Negli Strumenti umani “l’occhio è fisso, è piuttosto il mondo a muoversi: «sotto i miei occhi portata dalla corsa / la costa va formandosi» (Ancora sulla strada di Zenna, vv. 7-8). Le cose si organizzano in una «opaca trafila» fino a che non interviene uno sguardo umano … a illuminarle. “Le cose sono indipendenti da noi, ma solo il nostro sguardo le può rendere “conoscibili”, almeno visibili. La poesia si costruisce come una natura morta che rende vita alle cose nel momento in cui le vede, anche solo con la coda dell’occhio. Ma questo indica anche uno stato dell’anima, del soggetto che certo rischia di restare marginale, ma che trova un “ruolo” proprio perché sa e può accettare questa stare di lato, questa su incompiutezza, una sorta di impotenza necessaria che permette al poeta di fare della sua fragilità una nuova forza. E questo mi pare molto “contemporaneo”.

Le cose si muovono, sfilano, transitano, l’osservatore è immobile: non si esclude, ricorda sempre Fenoglio, “che qui operi sottotraccia anche la riflessione fenomenologica mediata dal magistero di Antonio Banfi, l’idea cioè che la nostra conoscenza del mondo derivi dal nostro coinvolgimento nel mondo: lo spazio non è, cartesianamente, un reticolo di relazioni tra gli oggetti, ma va considerato a partire dal soggetto che vi è inglobato e che lo vivifica per «animazione interna», per «irraggiarsi del visibile» (Merleau-Ponty, 1989, p. 50). Soggetto che deve in qualche misura operare un’epochè, una sospensione del giudizio per dare spazio allo sguardo “poetico”, a mio modo di vedere.

Gli oggetti in effetti sono povere cose. Se l’io non li riconosce, gli oggetti sono sterili: è dunque solo l’io, con un certo «feticismo dello sguardo» (Sereni, 1998, p. 164) a poter produrre cambiamento, pur nella sua generale fissità (emblematica a questo proposito sarà l’omonima poesia di Stella variabile). E qui entra in gioco un altro elemento: la poesia di Sereni (questo è un tratto fondamentale per capire la poesia contemporanea e per comprendere il dibattito aperto ai tempi di Sereni stesso) fa, dal punto di vista dei temi e del linguaggio, una “…opzione in favore della tradizione” che “…si declina prima di tutto come via alternativa allo sperimentalismo e come affermazione di una poesia non ideologica (gli anni di composizione degli Strumenti umani sono i medesimi del successo delle neoavanguardie e del Gruppo 63). Dietro i suoi versi non c’è mai una verità poetica da affermare: piuttosto ci sono «dei conti da saldare con l’esperienza» (Isella, 1991, p. 34 e Ferretti, 1999, p. 131).

Così nella poesia di Vittorio Sereni vediamo emergere, coerentemente, “una lunga serie di oggetti poetici più o meno tradizionali: il telefono (Comunicazione interrotta), lo zampettìo delle galline (Nella neve), le lampare e uno sbrecciato cappello di paglia (Gli squali) …” Ma come abbiamo visto, le cose sono nulla senza lo sguardo, ma non è la parola in sé a dare una ragione d’essere alle cose: “sono le cose che vengono portate all’io per mezzo di un’onda luminosa (Viaggio all’alba) o di un refolo di vento (Le ceneri); analogamente non è la parola a dare consistenza alla cosa, piuttosto «è lei, la cosa, a determinarlo, a imporci la sua presenza a prima vista insondabile […] fino a un ribaltamento dell’effusione romantica» (Sereni, 1998, pp. 119-120). Il gioco delle parti è sottile, il confine fragile. Su quest’orizzonte incerto, contradditorio si erge la poetica di Sereni.

Una visita in fabbrica
Il suono è un altro strumento della conoscenza umana. Una visita in fabbrica, seconda sezione, rappresenta questo nuovo spazio poetico fatto di sibili, ronzii, gorgoglii, vibrazioni che cercano di rendere vivi aspetti nascosti della realtà diventando materia dell’ispirazione poetica. La lingua si fa rarefatta, pur nel realismo dei soggetti e così facendo vi è ancora quell’effetto paradossale si sottrarre la parola all’opacità del reale, al caos delle cose stesse. E ancora una volta, la poesia rimanda a riflessioni più alte sul destino dell’uomo: “La parte migliore? Non esiste. O è un senso/ di sé sempre in regresso sul lavoro/o spento in esso, lieto dell’altri pane/che solo a mente sveglia sa di amaro”. Non insistiamo qui sul tema delle polemiche storiche e ideologiche che Sereni visse con Fortini, ad esempio, proprio sul tema dell’impegno civile. Ma troviamo molto “contemporaneo” questa rilettura per indicare una strada diversa, anche al di là delle intenzione di Sereni, alla poesia civile oggi, per molti aspetti aperta non solo ad una visione più “universale”, ma pur nella sua concreta referenza, ad un linguaggio poetico più critico, metaforico, polimorfo.

Appuntamento ad ora insolita
Scrive Chiara Fenoglio: “La terza sezione, Appuntamento a ora insolita, è dominata fin dal titolo dalla dimensione temporale, intesa in senso cronologico, stagionale, ma anche meteorologico. La poesia nasce in precise congiunture che si presentano come “appuntamenti”, decisi da altri, a cui il poeta assiste più che parteciparvi. …. La sospensione del tempo (come in Quasi una fantasia o ne L’upupa montaliane) autorizza l’emersione di una «esistenza latente» (Il sabato tedesco, p. 204) nella quale si manifesta o sembra manifestarsi per speculum et in aenigmate un destino, sotto forma di una fugace apparizione:

È/ quest’ora di settembre in me repressa/ per tutto un anno, è la volpe rubata che il ragazzo/ celava sotto i panni e il fianco gli straziava, / un’arma che si reca con abuso, fuori/ dal breve sogno di una vacanza. (Appuntamento a ora insolita, vv. 28-33).

Molto importante mi pare il fatto che Fenoglio faccia notare i richiami di Sereni a Dante:” Proprio come avveniva nella Commedia, il sogno racchiude una rivelazione, è più momento di verità che non metafora della vita, della sua inconsistenza o brevità.” Ma “nelle visioni oniriche sereniane tuttavia manca la catabasi, l’incontro avviene sempre a mezza via, in un luogo intermedio (tra veglia e sonno, tra qui e altrove, lungo una strada o su un ponte) che, da Frontiera a Stella variabile, è «il luogo per eccellenza della poesia sereniana» (Mengaldo, 2013, p. 13).

Questo stare in un mondo di mezzo, mi pare estremamente interessante dal punto di vista sia della storia della poesia che da quello della produzione contemporanea. Il tempo è indugio, esitazione, stallo, istante che non s’afferra, passaggio improvviso, destino che si compie senza apparente ragioni. L’ambiguità diventa una chiave di lettura e di scrittura del tempo, nel tempo. Anche gli oggetti e le situazioni più normali assumono in poesia un valore nuovo, diverso, inedito.

La posizione del poeta Sereni è “interlocutoria”. L’io lirico, nota Fenoglio, si coglie, in questa sezione ..: “in un tunnel (La sonnambula), nei pressi di un ponte (Il grande amico), addormentato o in preda a una sorta di allucinazione (Un incubo, Di passaggio, Appuntamento a ora insolita). Si tratta per lo più di situazioni liminali, dove la percezione dello scorrere del tempo è abolita o quanto meno alterata: «la distorsione del tempo / il corso della vita deviato su false piste / l’emorragia dei giorni» (Quei bambini che giocano) ci mettono di fronte a una dissipazione del tempo – unico bene a nostra disposizione – che è deviazione del corso della vita, “scialo di triti fatti” secondo Montale, «melma nera» di chi rinunciando sceglie il compromesso o peggio ancora la menzogna, e così facendo pecca contro l’amore, oltre che contro il tempo.

Molto significativo, in questa sezione, l’idea del tempo meteorologico e il valore dato alla nebbia (che ritroveremo in tanta poesia “lombarda successiva): “Montalianamente la nebbia è ciò che abolisce, termine isotopo delle ceneri (la nebbia cancella, le ceneri sono il residuo di quella cancellazione); ma è anche separazione, ostacolo che si frappone tra presente e passato: l’io lirico di questa sezione e del libro è spesso immerso nella nebbia e, come Dante nel Purgatorio, costretto a guardare il mondo «non altrimenti che per pelle talpe» (XVII, vv. 1-3). Così nota Fenoglio e noi notiamo che i riferimenti alla nebbia, al vento (archetipo poetico, quest’ultimo, che in Sereni allude anche all’avanzare del moderno che “omologa e nientifica”) connessi al sonno, al dormivegli, rinviano al senso dell’attesa che pervade molta buona poesia contemporanea, melanconica ma consapevole del ruolo etico della poesia oggi.

Ma in Sereni, va detto, agisce anche altro. La condizione di sospensione del poeta e della sua parola, questo stare nella nebbia ha una sua radice letteraria e autobiografica. Chiara Fenoglio lo coglie e ce lo porge: “Anche in questo caso il riferimento dantesco può illuminare alcune delle intenzioni più profonde del poetare di Sereni: il canto XVII è di fondamentale importanza non solo perché contiene l’ordinamento morale del Purgatorio, ma anche perché è dedicato agli accidiosi, a coloro che hanno navigato nel mare della vita con «mal tardato remo» (XVII, v. 87) e che hanno dunque commesso un peccato d’amore «per poco di vigore» (v. 96), perseguendo l’«amor del bene, scemo/ del suo dover» (vv. 85-86). Il senso di colpa, l’indolenza, il cedimento della volontà, la tristitia che secondo Tommaso d’Aquino era la prima caratteristica dell’acedia, tramano ampiamente Gli strumenti umani dove il peccato d’accidia assume la forma storica del senso di colpa per la mancata partecipazione alle imprese della resistenza, del silenzio, della «fitta di rimorso», dell’«ammanco» nel cuore (Intervista a un suicida). Nel racconto Le sabbie d’Algeria, pubblicato per la prima volta nel 1972, Sereni descrive la condizione dei prigionieri esattamente in questi termini: la collettività in cui ero rimasto e dalla quale tendevo a non distaccarmi, può essere presa come campione di quella totale passività verso l’esterno, di quello stato di attesa che meglio caratterizza l’inerzia, la rassegnazione o, se si preferisce, l’apparente neghittosità della prigionia allo stato puro […]. Il mio finiva col diventare un campo di meditabondi, in pratica un campo-deposito, una riserva limbale o purgatoriale (Sereni, 1998, p. 254, corsivi miei, Chiara Fenoglio n.d.r.).”
Il centro abitato

Il centro abitato
L
a quarta sezione “Il centro abitato” è dominata da visioni della città di Milano. Ma è il destino della poesia ad essere al centro del suo dire. Forse da questo punto di vista possiamo dire che tanta poesia successiva “lombarda” si sia fermata alla punta dell’iceberg sereniano senza scendere in profondità? Troppo spesso oggi il paesaggio urbano e il racconto delle su piccole cose dei suoi incontri resta troppo piccolo, elegiaco, bozzettistico. La lingua in questa sezione è dimessa, semplice e discorsiva, come consapevole dell’impossibilità di esprimere una verità storica alta e definitiva. Ma i temi molto articolati e complessi. Per prima cosa il poeta è “ammutolito” in un silenzio creativo che stavolta non è inerzia, ma luogo d’incubazione della voce capace di fare della “noia”, della “colpa” la base per un riscatto”. Lo spazio che si apre tra lo sguardo e le cose è ciò che, da Benjamin in poi, chiamiamo aura: spazio dell’attesa e dell’attenzione che richiama una risposta delle cose, un segno di riconoscimento tra l’io e il mondo che renda ancora possibile l’evento poetico” (pag. 35). La parola poetica può riscattare “uno sguardo fattosi muto”, può restituire all’inafferrabile un nuovo valore non scadendo nel sentimentalismo, avversando il “dilettantismo poetico” e il culto “dell’ispirazione”, evitando le semplificazioni e le formule sbiadite di ogni cliché, compresi quelli dello sperimentalismo neoavanguardista o della parola autoreferenziale, diremmo oggi. “Il fine della poesia, secondo Sereni, la sua tendenza profonda, “non è tanto nella facoltà di comunicare quanto quella piuttosto di accomunare” (pag. 38) ovvero nella capacità di raccogliere attorno a qualcosa: “si fanno versi per scrollare un peso/e passare al seguente. Ma c’è sempre/ qualche peso di troppo, non c’è mai/ alcun verso che basti/se domani tu stesso te ne scordi”. La poesia elabora emozioni, esperienze, idee, le trasforma in linguaggio e le restituisce agli altri.

Apparizioni e incontri
Nell’ultima sezione “Apparizioni o incontri,” si compie un altro salto. Dall’io petrarchesco si passa decisamente al “noi” dantesco. La poesia si fa dialogo, scambio e il movimento verso gli altri ha la precisa funzione di contrastare il flusso indistinto delle cose. L’io lirico non basta a se stesso e deve prendere sul serio le presenze multiple che lo popolano, che lo caratterizzano. E’ questa una soluzione molto moderna, uno stilema formale che mette in crisi l’io lirico, ma che lo salva dal naufragio offrendogli la zattera del “noi”. Sereni non sfugge a se stesso e predilige sempre gli spazi di confine, i luoghi ambigui e transitori (come la spiaggia, ad esempio), gli elementi in movimento costante (il mare…), Sereni non abbandona il senso religioso del suo poetare (la poesia resta spazio “dell’epifania del numinoso”), Sereni resta poeta i cui versi sono giocati “su stati di euforia continuamente declinata verso la tristezza” fonte autentica della sua vena poetica posta “sul confine tra emozione ed espressione”). La poesia di Sereni privilegia “il suo rapporto con la variabilità dell’esistenza”, resta sempre un’esperienza intima, ma con il suo richiamarsi alla necessità del “noi” non nega l’importanza di un “momento pubblico”, aperto agli altri.

Non a caso egli insiste, e Fenoglio lo rileva puntualmente, sull’idea del “lettore idoneo” cui ci si rivolge non per comunicare verità, ma per elaborare insieme dati emotivi, ideologici, razionanti”. La poesia deve stare dentro le cose, dentro al flusso della storia concreta, ma lo deve fare coi suoi strumenti, consapevole sempre dello smarrimento, dell’incertezza, recuperando un “rapporto di fiducia con le cose, gli spazi di una parola naturale”.

Le “inezie della mente”, “il canto degli ubriachi”, “la ripetizione dell’esistere”, “l’anima…un fitta di rimorso”, la dolce tristezza del rilevare che “sono andati via tutti” sono passaggi essenziali di un discorso poetico che ora ritorna sulla nostra scena e ci indica ancora la stella “variabile” cui guardare.

Stefano Vitale

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Via Scarlatti

Con non altri che te
è il colloquio.

Non lunga tra due golfi di clamore
va, tutta case, la via;
ma l’apre d’un tratto uno squarcio
ove irrompono sparuti
monelli e forse il sole a primavera.
Adesso dentro lei par sempre sera.
Oltre anche più s’abbuia,
è cenere e fumo la via.
Ma i volti i volti non so dire:
ombra più ombra di fatica e d’ira.
A quella pena irride
uno scatto di tacchi adolescenti,
l’improvviso sgolarsi d’un duetto
d’opera a un accorso campanello.

E qui t’aspetto.

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Ancora sulla strada di Zenna

Perché quelle piante turbate m’inteneriscono?
Forse perché ridicono che il verde si rinnova
A ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?
Ma non è questa volta un mio lamento
e non è primavera, è un’estate,
l’estate dei miei anni.
Sotto i miei occhi portata dalla corsa
la costa va formandosi immutata
da sempre e non la muta il mio rumore
né, più fondo, quel repentino vento che la turba
e alla prossima svolta, forse, finirà.
E io potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno il capo bruciante di dolore…
Ma l’opaca trafila delle cose
che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti alla catena
della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli,
le scarse vite che all’occhio di chi torna
e trova che nulla nulla è veramente mutato
si ripetono identiche,
quelle agitate braccia che presto ricadranno
quelle inutilmente fresche mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi rinfacciano…
Dunque pietà per le turbate piante
evocate per poco nella spirale del vento
che presto da me arretreranno via via
salutando salutando.
Ed ecco già mutato il mio rumore
s’impunta un attimo e poi si sfrena
fuori da sonni enormi
e un altro paesaggio gira e passa.

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Le ceneri

Che aspetto io qui girandomi per casa,
che s’alzi un qualche vento
di novità a muovermi la penna
e m’apra a una speranza?

Nasce invece una pena senza pianto
Né oggetto, che una luce
Per sé di verità da sé presume
– e appena è un bianco giorno e mite di fine inverno.

Che spero io più smarrito tra le cose.
Troppe ceneri sparge intorno a sé la noia,
la gioia quando c’è basta a sé sola.

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Di passaggio

Un solo giorno, nemmeno. Poche ore.
Una luce mai vista.
Fiori che in agosto nemmeno te li sogni.
Sangue a chiazze sui prati,
non ancora oleandri dalla parte del mare.
Caldo, ma poca voglia di bagnarsi.
Ventilata domenica tirrena.
Sono già morto e qui torno?
O sono il solo vivo nella vivida e ferma
nullità del ricordo?

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Sopra un’immagine sepolcrale

Il sorriso balordo che mi fermò tra le lapidi
e le croci, nella piccola selva
dei morti innocenti, delle vite
appena accese e spente nel candore
era la stessa mia stupefazione
che avesse in tanti anni fatto così poca strada.

O dormiente, che cose è sonno?

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Il sonno…

E qui egli sta tra i pargoli innocenti
stupefatto nel marmo
come se un Tu dovesse veramente
ritornare
a liberare i vivi e i morti.
E quante lagrime e seme vanamente sparso.

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Note sugli Autori

Vittorio Sereni è nato a Luino nel 1913. È vissuto a Milano, dove dove è scomparso nel 1983. Richiamato alle armi nel 1941, fatto prigioniero nel 1943 in Sicilia, venne internato in Nord Africa (Algeria e Marocco) come prigioniero fino al luglio 1945. Ripreso l’insegnamento (1948-52) a Milano, venne poi assunto alla Pirelli, all’Ufficio stampa e propaganda, fino al 1958, passando successivamente alla direzione editoriale della casa editrice Mondadori. Le sue raccolte di versi: Frontiera (1941, ed. defin. 1966), Diario d’Algeria (1947, ed. accr. 1966), Gli strumenti umani (1965), Stella variabile (1979, ed. defin. 1981), Tutte le poesie (1986), Poesie ( ed. critica a cura di D. Isella, 1995). Critico (Letture preliminari, 1973) e traduttore (Il musicante di Saint-Merry, 1981), ha scritto anche prose: Gli immediati dintorni (1962, ed. post. 1983), L’opzione e allegati (1964, poi in Il sabato tedesco, 1980), Senza l’onore delle armi (1987). Tra i volumi di lettere, il carteggio con Attilio Bertolucci (Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, 1994).

Chiara Fenoglio (Pinerolo, 1977) è dottore di ricerca in Italianistica presso l’Università degli studi di Torino, dove ha ricoperto l’incarico di assegnista e di docente di Didattica della Letteratura. Insegnante e critico letterario, si è occupata di Leopardi, Manzoni, Montale, di novellistica cinquecentesca e più recentemente di poesia contemporanea. Collabora con Lettere Italiane, L’Indice dei Libri del mese e Il Corriere della Sera, La Lettura. Il suo libro “Un infinito che non comprendiamo. Leopardi e l’apologetica cattolica del XVIII e XIX secolo” (Dell’Orso, 2007) ha vinto il premio Tarquinia-Cardarelli per la critica letteraria nella sezione “Opera prima”. Tra le sue pubblicazioni più recenti, La divina interferenza. La critica dei poeti nel Novecento, Roma, Gaffi, 2015 (Premio Sertoli Salis 2016 per la saggistica dedicata alla poesia). Fa parte della giuria dei letterati del Premio Campiello. 

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