“Gli ultimi giorni di Mandel’stam” di Vénus Khoury-Ghata
(Guanda, 2017)

L’autrice, di origine libanese, vive in Francia. In Italia è nota per i romanzi “La casa sull’orlo del pianto”, “La maestra”, “La casa delle ortiche, “Sette pietre per l’adultera” e la raccolta di poesie “Ortiche”. E’ traduttrice in francese del poeta Adonis e in arabo di Aragon.
In questo suo romanzo, Vènus Khoury-Ghata ci racconta, come dice esplicitamente il titolo, gli ultimi giorni del poeta russo morto nel 1938 in un campo di transito verso la Siberia, deportato da Stalin.

Ci sono libri che non è importante come siano scritti, ciò che conta è che ci siano, comunque. Questo libro non aggiunge nulla in sé alla valutazione dello stalinismo: uno degli orrori più terribili della nostra storia. Ma apre un abisso di luce nella comprensione della rivoluzione russa, di cui celebriamo il centenario. Soprattutto ci racconta il dramma, non solo personale di questo grandissimo poeta, ma anche quello di un almeno due generazioni distrutte da Stalin e dal suo regime.
Osip Mandel’stam era un poeta puro e assoluto, libero e totalmente incontrollabile, visionario e profondamente legato alla parola, alla profondità della lingua. Faceva parte di quel gruppo di poeti e letterati, come Cvetaeva, Achamatova costretti al suicidio o all’esilio perché non in linea con la follia della rivoluzione. Anche Majakovskji s’era suicidato, Sostakovic s’era salvato a caro prezzo, Pasternak s’è quasi venduto…

Facciamo però un passo indietro. Nel 1930 Mandel’stam fece un viaggio in Armenia. Nel corso dei suoi spostamenti laggiù, si riappropriò di quella libertà interiore senza la quale non riusciva a chiamare a sé la poesia, e si ruppe un silenzio poetico durato cinque anni. Insieme alla poesia arrivò la capacità di non ub­bidire agli ordini e, parrebbe, quasi per provare a se stesso che quella capa­cità era incondizionata, Mandel’stam scrisse poi il componimento, per lui atipicamente esplicito e «politico», contro Stalin, «Il monastero del Crem­lino». In realtà, fu questa poesia la vera causa del primo arresto di Mandel’stam uno: Davide aveva affron­tato Golia con otto distici di pietra nella fionda.

L’appartamento di Mosca fu perquisito dalla polizia segreta, Mandel’stam fu portato al loro quartier generale nella prigione di Lubianka, interrogato e condannato a tre anni di esilio a Cerdyn, dove, in stato di squilibrio, tentò il suicidio gettandosi da una finestra dell’ospedale. Poi avvenne il «miracolo», come lo chiama Nadezda. In seguito all’interessamento perso­nale di Stalin, interessamento mantenuto vivo grazie all’abilità di Pasternak nel servirsi di una telefonata del dittatore in persona, la condanna fu commutata in esilio in una qualche cittadina della Russia europea, eccettuate le città principali.
Ma Osip Mandel’stam fu costretto a scendere in un inferno fatto di vessazioni, isolamento, emarginazione, sino alla deportazione. “Avrai solo il mio cadavere, la mia poesia su di te mi sopravviverà. Mi hai vietato di lavorare, di pubblicare, mi hai dato la caccia di città in città…ma la mia poesia è più forte di te”. La poesia su Stalin diceva: “Si sente solo il montanaro del Cremlino/l’assassino e il mangiatore di uomini”. Il dittatore non poteva sopportare tale affronto. E per Mandel’stam fu la fine.

Il libro ci accompagna così nelle pieghe della lucida follia in cui era stato costretto il poeta, ormai provato nel corpo e nella mente, disperso nel labirinto dei suoi fantasmi, delle sue ossessioni, nei deliri dei suoi compagni di sventura imprigionati. Non è un accidente delle storia, non è un incidente: la morte di Mandel’stam è un monito eterno per chi pensa che la storia sia un grande e inarrestabile progresso. La descrizione, in parte ovviamente romanzata, del calvario finale del poeta, è un atto di accusa contro il potere, contro le semplificazioni della storia, contro la distrazione dei contemporanei di ogni tempo che giustifichi la violenza, la deportazione, lo sterminio.

Nel libro e nella vicenda di Osip Mandel’stam colpiscono tre cose: la prima, il poeta per salvare la sua poesia smette di scrivere e impara a memoria i propri versi che la fedele moglie Nadezna trascrive per poi distribuire agli amici. E’ solo grazie a lei che abbiamo oggi la possibilità di leggere le meravigliose poesie di Mandel’stam. Poi il fatto che Mandel’stam fosse stato abbandonato da tutti, compresi i suoi amici e colleghi scrittori. Allora scrivere era un ufficio altissimo, riconosciuto e poteva garantire una vita non solo dignitosa. Mors tua, vita mea pare il motto di quei letterati che non mossero un dito per il poeta perseguitato. Il grande Gor’kij lo umiliò, non sopportando la sua poesia, consumando la sua vendetta dall’alto della sua posizione di servo. Il filisteismo opportunista, l’indifferenza generale uccidono. Infine colpisce la forza enorme, suprema di Mandel’stam che non si piega, che va incontro al suo destino, che non vuole essere altro che quello che è: un poeta profondo, unico e irripetibile.

Morì poco prima del quarantottesi­mo compleanno in un campo di transito vicino a Vladivostok, dopo aver percorso le cinquemila e cinquecento miglia da Mosca viaggiando su un tre­no per il trasporto di prigionieri. La causa ufficiale della morte fu «collasso cardiaco»: Mandel’stam effettivamente soffriva di un disturbo cardiaco, an­che se in realtà potrebbe essere morto di tifo.
La vedova riferisce il modo in cui le fu data la notizia: “Mi inviarono un avviso che mi invitava a recarmi all’ufficio postale di Porta Nikita. Qui mi fu restituito il pacchetto che avevo spedito a M. al campo. «Il destinatario è morto», mi informò la ragazza allo sportello. Sarebbe abbastanza facile stabilire la data in cui mi fu rispedito il pac­chetto – era lo stesso giorno in cui i giornali pubblicarono il lungo elen­co dei riconoscimenti governativi – i primi in assoluto – agli scrittori so­vietici”.

Questo libro, dolente e appassionato, scritto con il ritmo spezzato del respiro che muore, ci restituisce la poesia dell’intera vita di Mandel’stam cogliendola nel momento più tremendo che possa vivere una persona. E diviene così una singolare, quanto luminosa, pur nel suo buio narrare, introduzione alla poesia di Osip Mandel’stam, poeta ucciso perché era un poeta vero.

S.V.

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