“I vagabondi efficaci e altri scritti” di Fernand Deligny – A cura di Luigi Monti
(Edizioni dell’Asino 2020)

…..La storia della pedagogia non manca di personaggi speciali e Fernand Deligny era certamente uno di questi. Nato a Bergues, a un passo da Dunkerque, nel 1913, perde subito il padre, ucciso in battaglia, e viene allevato con molti sacrifici dalla madre e dal nonno materno. Studia filosofia e psicologia a Lille, ma s’interessa al cinema, al giornalismo, e ai metodi della pedagogia attiva (niente quaderni, uscite all’aperto, apprendimento attraverso il gioco e il lavoro manuale). Si iscrive alla Gioventù comunista (più tardi prenderà la tessera del partito), inizia la carriera di insegnante.
Nel 1939, ventiseienne, accetta un posto di istitutore al manicomio di Armentières, vicino Lille. Da quel momento in poi, per mezzo secolo, Deligny non smetterà più di occuparsi dell’educazione degli “ineducabili”, o perché gravemente ritardati o perché socialmente devianti o perché autistici.
Il verbo occuparsi però non rende l’idea. Deligny vive con spirito di assoluta partecipazione il suo lavoro. Vive con gli internati, prima, coi giovani delinquenti poi, infine – in una specie di comune nella campagna delle Cevennes – con gli autistici. Gira in lungo e in largo il nord della Francia, apre e chiude scuole e centri di recupero, ed entra in rotta di collisione, un po’ come capita a Don Milani da noi, con chi nei Ministeri è preoccupato dai suoi metodi educativi: Deligny non punisce, non costringe, non dà ordini, antepone il lavoro allo studio, stimola la creatività dei ragazzi, preferisce far girare cortometraggi, arruola come istitutori e sorveglianti gente del posto che non ha alcuna esperienza pedagogica, fa “educazione nuova” innestandosi sui territori in cui lavora, fa innovazione sociale. Sperimenta, fallisce, ci riprova, risorge.
Nella seconda parte della sua vita s’interessa a di lui un pezzo significativo dell’intellighenzia alternativa francese: conosce Guattari, conosce André Bazin, collabora con lo psichiatra Henri Wallon, entra in contatto con François Truffaut, che gli chiede una consulenza per i 400 colpi e per Il ragazzo selvaggio – e il leggendario finale del film con il ragazzino che scappa è ispirato proprio da Deligny.

…..Luigi Monti ha curato per le Edizioni dell’Asino un bel volume che contiene i suoi scritti più importanti, tradotti da Chiara Scorzoni, ed è l’occasione quindi per fare la conoscenza con un pedagogista scomodo, magari marginale perché radicale , quasi eroico, un uomo che ha scelto di collegare strettamente la sua vita e la sua professione. Forse anche esagerando, ma scegliendo la coerenza e soprattutto di stare dalla parte dei bambini, dei più deboli e sfortunati, tra i bambini.
Monti scrive nell’introduzione che Deligny “si definiva un deragliatore, uno che lavorava per far saltare i binari di quei bambini che condizioni di vita opprimenti conducevano precocemente verso i riformatori, case di rieducazione e manicomi”. Il libro è diviso in tre capitoli: “Semi di canaglia” , “I vagabondi efficaci”, “La grande cordata” oltre ad una postilla conclusiva: “Diario di un educatore”.

…..Semi di canaglia” è una bellissima raccolta di 134 aforismi la cui lettura può essere un salutare shock per ogni educatore, insegnante, genitore, forse anche per un politico. Deligny è folgorate quanto crudo e deciso nel ricordare a tutti quanto siamo sommersi da pregiudizi, moralismi ed astrattezze teoriche. Deligny si smarca dalle istituzioni, dai dogmatismi pedagogici e politici e si immerge nella laicità dura e contradditoria della pratica reale dell’educazione attiva, criticando “le anime belle” dell’educazione pseudo progressista, infarcita di “politicamente corretto” diremmo oggi.
I suoi suggerimenti pedagogici, benché tratti da un’esperienza dura con ragazzi “difficili” e spesso “irragionevoli” suonano infinitamente più ragionevoli di quelli somministrati dalla pedagogia dominante che negli ultimi decenni ha invaso il discorso sull’istruzione. Che differenza tra il gergo tecnicistico segnato da “competenze interpersonali e interculturali”, “implementazione dei percorsi educativi”, “protocolli formativi” , “ metodologie di lavoro rete”, “processi relazionali globali”, e la calda e autentica semplicità diretta di Deligny: «Educatori… ? Chi siete? Formati, come si suole dire, in tirocini o in corsi nazionali o internazionali, istruiti senza esservi posti il problema di sapere se avete nella pancia un minimo di intuizione, di immaginazione creativa e di simpatia verso l’uomo, imbevuti di terminologia medico-scientifica e di tecniche superficiali, vi si abbandona, in molti casi figli immaturi della borghesia, ancora tutti inconchigliati in voi stessi, in piena miseria umana».
Non si tratta di negare la cultura dell’educazione, ma di capire che la realtà va presa di petto con altri strumenti. Deligny parte sempre dal presupposto che prima di tutto ha di fronte delle persone, con una loro storia, con una vita concreta, tutti sono diversi, nessuno può esser incasellato in un profilo apriori. Occorre entrare in relazione, questo è quello che conta. Ed accettare i fallimenti, i propri limiti. L’educazione non è onnipotente né salvifica.
Egli dice “Impedirti di punirli ti obbligherà a occuparli”, “Se vuoi conoscerli veramente, falli giocare, giocare, giocare”. E più avanti “Se per così poco ti sei stancato di questo mestiere, non salire sulla nostra imbarcazione perché il nostro carburante è il fallimento quotidiano, le nostre vele si gonfiano di sghignazzi e noi lavoriamo sodo per tornare al porto con minuscole aringhe mentre eravamo partiti per pescare la balena”.

…..«Per Deligny – osserva Monti – si è sempre trattato di evitare ai ragazzini la prigione e il manicomio; di adottare il loro punto di vista piuttosto che quello delle pedagogie o delle terapie, anche progressiste, che si sforzavano di formare o che pretendevano di curare; di farsi guidare dall’invenzione e dalla sperimentazione piuttosto che dalla compassione filantropica: “intendo soltanto creare circostanze favorevoli perché loro ne traggano beneficio e perché vivano”».
In questo orizzonte, l’attività che salva, se li salva, i ragazzi di Deligny è l’imparare a vivere, a comunicare perché quel che si deve fare è “aiutarli, non amarli”. Deligny si fa così promotore di una pedagogia laica della prassi quotidiana che consapevolmente dichiara: “Alcuni di quelli che fanno questo mestiere, il nostro, credono in Dio; altri hanno fede negli uomini”.
Come detto, Deligny era comunista, ma non può certo essere accomunato, come alcuni hanno fatto a suo tempo a pedagogisti marxisti come Makarenko. Deligny scrive: “Non ho mai avuto gusto, né talento – scrive Deligny – per modellare dei caratteri. So bene che, in giro per il mondo, degli educatori si ingegnano a modellare questo ‘uomo nuovo’ secondo la richiesta o il comando dello Stato…». In tutto ciò che ha scritto, e in tutto ciò che ha fatto, si avverte sempre che l’ideale al quale era più devoto era la libertà, e che per lui ogni astratta norma di metodo, ogni collaudato protocollo educativo doveva piegarsi all’infinita varietà degli esseri umani.

…..In “Vagabondi efficaci” Deligny scrive, all’indomani della chiusura del Centro di Osservazione per minori delinquenti che egli era stato chiamato a dirigere, di come era organizzato questo centro. Il cardine non era lo studio ma il lavoro, il fare qualcosa con le mani. I ragazzi al mattino svolgevano attività remunerate, di inserimento sociale e lavorativo diremmo oggi e al pomeriggio potevano scegliere tra diverse attività creative. Egli aveva sviluppato una rete di alleanze con gli artigiani del circondario, che fungevano da “animatori” oltre che una rete di contatti con generosi datori di lavoro di mezza Francia. Ma di qui anche le frizioni con chi non comprende il confine tra un istituto di cura e rieducazione (la Grande Cordata) e un ufficio di collocamento, e vuole mettere le cose a posto: «Al ministero di non so bene cosa – scrive Deligny – avevano scoperto un cortocircuito:   dato che la Grande Cordata percepiva una retta giornaliera, non era ammissibile che i ragazzi lavorassero in determinati luoghi e venissero remunerati, stipendiati, dichiarati lavoratori quando invece erano ‘malati’. Molti soggiorni di prova fallivano per il semplice fatto che qualcuno si occupava in prima persona della rieducazione di un ragazzo che, improvvisamente, diventava un parassita di quei luoghi».

…..Qualcuno ha criticato Deligny perché era contro la professionalizzazione dell’educatore, altri hanno parlato di “antipedagogia”, ma in realtà il suo messaggio va ben oltre e si rivolge a tutti gli educatori, di professione e no, ma che vogliono prima di tutto “essere” educatori: “Bisognerà, se acconsentite, liberare contestualmente i bambini e mettere accanto a loro educatori dalla presenza discreta, provocatori di gioia, sempre pronti a rimodellare la morbida argilla, vagabondi efficaci pieni di stupore per l’infanzia”. Per Deligny un educatore è prima di tutto un “creatore di circostanze”: il suo è un metodo che prima di tutto guarda alla postura personale e morale (“che la tua simpatia per quelli che assomigliano non ti impedisca di capire gli altri”) , alla motivazione (“diffida delle soluzioni immediate: non serve a nulla attaccare una lampada a petrolio alla corrente elettrica”) , che si pone il problema di come entrare in relazione con l’altro senza pregiudizi, che invita gli educatori a mettere da parte le illusioni e a non dimenticare che l’educazione deve lavorare per l’autonomia dell’altro e non per il controllo, che l’educazione è qualcosa che rovescia i luoghi comuni e deve creare le condizioni per l’espressione delle potenzialità di ciascuno: c’è un bell’aforisma di Deligny che dice: “Capaci di tutto? A te il “tutto”. L’Utopia è fuori moda, ma ne abbiamo ancora bisogno.

…..Stefano Vitale

*Questo articolo è stato pubblicato anche sul mensile:
Laicità della scuola –
news Maggio 2021

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