“Il lettore di impronte digitali” di Eva Lipska
(Ediz. Donzelli, Roma, 2017)

Ewa Lipska è nata nel 1945 a Cracovia, dove risiede. Le sue raccolte poetiche, molto note in patria e all’estero, sono tradotte in numerose lingue. Ha iniziato a pubblicare versi nel 1967 e da allora la sua attività non si è mai interrotta, neppure negli anni più difficili della storia polacca. È autrice di testi di canzoni famose, di un romanzo (Sefer), di feuilleton, di prose poetiche e poesie in prosa. Nel 2016 ha debuttato come sceneggiatrice e, nello stesso anno, Il lettore di impronte digitali è stato tra i finalisti del prestigioso premio letterario Nike.

Ma in Italia arriva solo adesso con questa raccolta del 2015. E va ad arricchire così la schiera dei poeti polacchi che rimonta a Milosz, Herbert, Szymborska (guarda caso di Cracovia), Zagajevskij (nato a Leopoli, ma polacco culturalmente).

Il titolo è già un programma: la poesia è il lettore digitale delle vita. Il cuore della poesia di Ewa Lipska è proprio quello di tentare di cogliere l’esperienza della vita nell’istante in cui si dà. E la parola, la scrittura è lì, in agguato, ad afferrare la sua preda, e scatta un clik, un fruscio come quando passiamo una carta magnetica in un lettore digitale lasciando emergere informazioni, sensazioni, pensieri intermittenti, frammentati, criptati, quasi telegrafici anche se la tecnologia è andata avanti.

Il cuore resta tale, un organo pulsante che tiene in piedi un sistema e genera pensieri, immagini, riflessioni. Ewa Lipska procede per cortocircuiti, lampi, apparizioni con uno stile secco, allusivo, con chiare venature surrealiste eppure tenacemente ancorate alla realtà dell’esperienza. Il pensiero poetico è appunto un pensiero che attende, indaga, illumina, ma a sprazzi, per onde improvvise lasciando il lettore sorpreso. La narrazione poetica non fa sconti, non si perde in un lirismo molle e scontato, ma non si sottrae all’emozione che prende altre vie, talvolta impreviste. In questo processo di costruzione poetica ha un ruolo essenziale, nel solco della tradizione polacca appunto, l’ironia, la leggerezza di uno sguardo sorridente, che irrora la poesia con un sano scetticismo. Che fa da contrappeso alle integrazioni metafisiche proprie della riflessione.

Roberto Galaverni in “La Lettura” del 12 marzo 2017 parla di “voce poetica che passeggia sul vuoto”. Il problema è che questo vuoto, di montaliana memoria (si pensi al Quaderno dei quattro anni”) non è l’esistenza che per Ewa Lipska è invece ricca di suggestioni, passaggi, notazioni. Il vuoto è quello che rischia l’uomo non comprendendo i messaggi che arrivano dalla vita stessa, il vuoto è il pericolo che corre la poesia, la parola, il linguaggio in quanto “verso randagio/nella materia oscura della carta./Non ha padroni. L’autore l’ha lasciato/in balia del destino. Orfano di parole/A volte/i versi sono come abbandonati/che abbaiano alla poesia”.
Il manifesto poetico di Lipska è scritto nel testo “La caccia”: “Un’orma dietro l’altra/Tutta la vita a caccia/Con i battitori. Con il latrato delle parole/Con la rapace fonetica del bosco./Tenersi d’occhio/nel mirino del fucile. /Inseguire la lingua./Prendere la mira/Sparare./Ridurre in polvere.”

Come detto, il respiro poetico è un ritmo spezzato, si procede per salti di immagini in un montage dal sapore surreale ma sempre paradossalmente concreto, aderente alla realtà in un sorta di scrittura animata dai “paradossi stilistici”. Il tono è secco, apodittico, talvolta aforismatico esprimendo così un forte volontà filosofica. Evidente il grande uso di metafore che tengono il lettore stretto al mancorrente dell’ottovolante della tessitura poetica. Notare anche l’uso della punteggiatura, molto marcato, quasi ossessivo a voler isolare pensieri, versi come se fossero brandelli di linguaggio autosufficienti. Talvolta le immagini lasciano aperte delle storie in maniera enigmatica, da decifrare. Sono usciti. “Non sono tornati/ Sul tavolo mandarini./ E’ finita la stagione della vita./ Sul muro affiorano le loro immagini”. Si noti la costruzione quasi cinematografica dei versi che ritroviamo più evidente ancora in “Fino all’ultimo respiro”: “Questa festa non ha storia./Ci siamo semplicemente incontrati/ con quelli che vanno già fuori moda/…Era in arrivo il cattivo tempo./Il proprietario della vineria riempiva/ di tristezza bottiglie verdi./ Ci divertivamo sino al mattino/…Ci congedavamo fino/all’ultima parola. Fino all’ultimo respiro./.
Il finale delle poesie è sempre uno scioglimento della tensione che talvolta ci riporta al reale, altre volte ci lascia il tempo di pensare ancora…

Tornando al tema del vuoto, mi pare che il senso autentico vada appunto cercato nella lotta che la poesia ingaggia con la realtà. “Il mondo/in cui vivevamo/si chiamava Rebus/e se ne infischiava delle nostre domande”. Così si va in cerca di realtà, nel “chiasso pulsante della vita” attraversando temi fondanti e classici: l’amore, i ricordi personali e collettivi, il viaggio, la politica, persino internet. La poesia che dà il titolo alla raccolta ci dice appunto della vita dispersa ai tempi dello smartphone. “Poggiamo un dito/sul lettore di impronte digitali/e iniziamo ad amarci”, oppure nella poesia “Qualche parola sulla xenofobia” scrive “Ricorda la voracità della lingua…/Nei forum di internet/lascia un senso di nausea/.” Malgrado il ritmo spezzato, la poesia di Lipska ci immerge nel mondo delle emozioni: “Non tornerò più qui dici/….torno in un luogo che non c’è/ma che sento dici/…Questo luogo si chiama amore dico/Non mi viene in mente/altro.” Si noti qui l’uso del corsivo da parte dell’autrice.

Sulle tracce di Szymborska la poesia “Il collirio” ci parla ancora dell’amore: “Verso di loro/avanza il fronte del ghiacciaio/ Incombe un amore gelido…Ma è in arrivo marzo. Una torcia di sole./ E di questo amore solo/un collirio”. Il legame con la grande Wislawa lo si ritrova un po’ ovunque: “Nella clinica della folla/ci sentiamo più sicuri./Innocenti inezie di ricordi./Ostriche.Vino. Risate”. E ancora “In cielo/un sei di luna/Più il calcolo/ delle probabilità/per il battito del cuore/Amore elevato a potenza./L’affermazione vera/ che i suoi giorni sono ormai/contati.”

Il tema dei ricordi è molto importante: lo ritroviamo in almeno sette poesie. Cito “Le targhe”: “Portiamo in vacanza il passato./E’ notte. La navigazione torna/ai vecchi tempi./Incrociamo chiazze di date./Storie da non smacchiare.” E da qui alla politica, tenuto conto della storia della Polonia, sempre presente nei versi dei suoi poesia, è breve: “Nel loro matrimonio/alcuni colpi di Stato”; oppure “Lo Stato ha già smesso di essere/una lettura obbligatori dicono./Puoi ma non sei obbligato/ a imparare a memoria la bancarotta dei secoli/… i nostri corpi solitari/corpi biografici/si stringono in un abbraccio/. E poi in “La cauzione”: “La memoria è passata alla riserva./Nelle caserme alloggiano le pecore./.”

Ma è il pensiero il chiodo fisso, la riflessione sul mondo, per lottare contro il vuoto che ritroviamo in molte poesie come “Progetti per il futuro” dove viene citato T.S. Eliot sul tema del tempo; in “La solitudine” che “non ha corpo./ Neppure quando ci abbraccia”. E ancora in “Qualche parola sull’etica” che si apre col verso “Le luci dell’etica ci abbagliano/con intere notti di secoli”. E poi in “Il Big Bang”: “Forse è ancora vivo qualcuno/che è stato complice/della creazione di questo mondo?”. E anche in “Il mondo” che “a volte sei bello. Un vestito cosmico/Un guardaroba celestiale di paesaggi./…Non so nemmeno/ se è la storia che ha creato noi/ o se noi abbiamo creato l storia. /Se siamo solo l’eco/di un cuore altrui”.

E si ritorna così al cuore da cui siamo partiti, metafora scivolosa che Ewa Lipska sa gestire con maestria e accortezza tutta polacca, figlia di un solco poetico decisamente fecondo che la traduttrice Marina Ciccarini sa renderci una volta ancora.

S. V.

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