“LA COSCIENZA DEL TEMPO” di Filippo Ravizza
(La Vita Felice, Milano, 2017)
Gianmarco Gaspari nelle sua bella e ampia introduzione coglie con grande precisione e lucidità i riferimenti espliciti ed impliciti di questa raccolta. Riferimenti poetici che vanno da Leopardi a Montale e Zanzotto (ed io ci aggiungo Fortini per la forza civile, Saba per la poesia “prosata” e persino Sereni per l’ancoraggio ai fatti e il disincanto tutto “lombardo” che comunque pervade il testo…) ed è necessario segnalarlo perché questo libro ha la precisa volontà di misurarsi, sin dal titolo, con uno dei fantasmi centrali della poesia di sempre, il tempo, appunto. I punti cardinali della concezione di Ravizza in questo libro sono quattro: il tempo come memoria, ricordo di un passato che, da un lato sfugge, dall’altra parte è presente, vivo, attivo, operante; poi c’è il tempo immaginato, il tempo dei nostri fantasmi interiori, paesaggio più o meno reale, ma certamente pungente, spazio anche del desiderio e dell’immaginazione; poi c’è il tempo della chiacchera, direbbe Heidegger, il tempo del mercato, reificato, fatto di obblighi, doveri e formalismi; infine c’è il tempo della “dialettica della Storia”, il tempo delle trasformazioni, del rovesciamento, dell’irruzione dell’inatteso. Quest’ultimo è, in questo libro, sospeso, tra una visione “classica” che vede nella dialettica una forma di sviluppo, un possibile procedere della ragione e, dall’altra parte una concezione alla Benjamin in cui il materialismo storico è rottura con ogni forma di linearità precostituita.
La coscienza del tempo vive dunque su questo difficile equilibrio tra esperienza personale e Storia, tra memoria e costruzione del futuro. Ravizza compie così un gesto coraggioso: ancorare la poesia ad una “concezione filosofica” senza cadere nella pura descrizione o nella banale riproduzione di un concetto. Certamente traccia dei confini, ma la capacità di stabilire una dialettica tra la storia individuale, tra le storie personali e la Storia non è da tutti. “A tentarlo non è la sublimazione, ma l’immersione nel concreto; non l’esacerbazione o la contemplazione masochistica della propria individualità (e dico masochistica perché ai poeti difficilmente è concesso un io che si esprima in letizia o almeno in pace), ma il confronto con il flusso degli eventi, in una dimensione che l’autore per primo vuole rappresentarsi come realistica” (prefazione pag. 7). La scrittura di Ravizza è chiara, limpida, lucida come nello stile e nella tradizione “lombarda”, ma c’è in essa un’energia filosofica, un calore passionale che le dà un’originalità riconoscibile. Stilisticamente colpisce l’uso dell’enjambement, il gusto di spezzare il discorso narrativo per dargli un ritmo poetico, la scelta di evitare punteggiature, il piacere retorico di ripetere alcune parole come note ribattute sul pianoforte della poesia, la capacità di alternare toni oratori con momenti lirici.
Il poeta sa bene che la Storia è qualcosa di complesso e che l’individuo è una sorta di crocevia di sentimenti e pensieri, di esperienze e desideri, di riflessione di speranze, anche ormai disperse.
“Disperdere dunque la coscienza/del tempo evaporare gli anni/così senza pietà correre correre/ lontanti dal qui e dall’ora../”, non è possibile quindi stare fermi e accettare il già-stato “… Tutto è impossibile,/ma tu ricordati, ricorda il desiderio/ offeso del tuo pur mutilato amare”: sin dalla prima poesia, il poeta esprime questa forza, questa volontà di stare al centro della Storia, sia pure con le proprie debolezze e le proprie illusioni: “…troppo/ confidi la tua verità/ in questo pieno che apre/ alla realtà dell’essere/alle sensazioni più dolci/alle illusione di esistere”.
Il confronto, la lotta col tempo trova nella poesia un alleato dell’uomo costretto a “prendere/ senza esitazione il maledetto/tempo,…” questo perché comunque la poesia dà la possibilità d’una via d’uscita: “…adagiati, abbi/pace, vivi questo momento/ che ti dona la sparuta serenità/dei versi; possa accompagnarti/ ancora…nulla di più alto, forse,/ci è dato”.
Colpisce la sincerità, la disarmante chiarezza del verso e della concezione, senza fronzoli, senza giri di parole, senza metafore barocche si va dritti al centro del problema, con un verso in cui l’enjambement ci dice del passo, del faticare del tempo, del battito del cuore e del salto del respiro che tutti dobbiamo fare quando si vive la storia.
La sezione “Il volto delle cose” ci fa sostare nell’area delle memorie personali che non sono mai avvolte dallo zucchero dell’elegia, ma sempre emergono in versi scolpiti, spigolosi, illuminati. “Vedi è incredibile è ora è qui/tutto si ricopre di questa fragilità/della Storia…camminare nel silenzio di una/ casa vuota non sarà la fine/ di tutto” (Io e mio padre). Ma questa è solo una specie di porta che si apre su altre stanze: quella che denuncia “il potere del denaro. E’/ la disuguaglianza più/feroce, forza incessante/ del dividere, è questa/ tranquilla mattanza/ delle classi” (Forse rinasce”); quella che ci invita a leggere “la battaglia che continua delle classi/ mentre bussano alle porte dell’Europa/ le nuove migrazioni… mentre lenta di nuovo/ prepara il volo, …/la linea/ rossa e azzurra che ama l’orizzonte,/lo bacia, si fonde…” (Le porte dell’Europa”).
Ravizza non è velleitario, ha chiare le difficoltà del procedere: “..ogni/ passo con in mano tutto il dolore/del tempo, sperando che vivesse/ancora la Storia, una storia potesse/se non per noi essere per i figli ancora…” (Una diversa verità”); Ravizza sa che la ricerca della verità può portare al fallimento: “Lo sai, sai che avevo arie, avevo canti,/avevo sogni e rimpianti tutti dentro/alla passione della terra…/ volevo star dentro alla verità/delle cose nel cuore stesso/delle cose…” (Tu lo ricordi bene”).
La poesia di Filippo Ravizza è civile perché è “impegnata”, perché animata da una “Speranza irriducibile e sottile”: “morire finalmente vivi dentro/un nuovo sogno, sia questa/ la speranza irriducibile” (Ancora una volta”) e lo fa da poeta che vuole uno spazio nel tempo proprio in quanto poeta: “camminando pensavo “o poesia/poesia, strenua forza, unica/unica forza” come un pazzo/dentro camminando continuavo/a sognare una società di eguali” (“Gli occhi sgranati”); e insiste “ora lo sai nulla è più fragile/di questo giorno che abbiamo pur/cercato nella forza della parola/nella poesia unica forza sola/” (“L’alba del mondo”).
Nella sezione “L’enigma nell’enigma” veniamo colpiti dalla bella poesia che l’inaugura, una poesia che sviluppa, quasi a sorpresa, una poetica riflessione laica sul senso della nostra finitudine. E’ come se il poeta introducesse nella sua animata e appassionata lotta con la Storia un punto di vista diverso, altro: “la porta e il sentiero vanno/incontro al nulla mentre/ s’assottiglia il tempo che/ ti è dato qui dove cresce…/ sarai raccolto inerte nella oscura/ vacuità tu enigma nell’enigma/che a malapena pochi anni dura/ e ci sostiene, che scorre, rivolo/ d’acqua…” (“Nulla in fondo sta”).
Così tutta la sezione è percorsa da questi colori più tenui, da queste pause di riflessione più dolenti e melanconiche. Non si tratta di una cambio di passo perché resta centrale la Storia, l’impegno, ma si fa strada una dimensione emotiva, che è sempre personale, ma più intima.
“…C’è ancora/ la vita che ci fu palpita nei suoi occhi/ e dice: è adesso il tuo destino/ è adesso accoglilo sempre/ esisti veramente fallo fallo/ prima che venga anche per te l’eterna/l’orrida sequenza…” (“Lo sguardo lampegginate”). Ora la dialettica della Storia s’intreccia con quella dei soggetti, con quella interiore “volevano essere le nostre stesse/orme chiederci più tempo più tempo/per vedere se non fosse possibile/gioire ascoltando l’impossibile” (“La materia cambiata dal pensiero”); l’ombra del tempo attraversa i pensieri del poeta sorpreso “nella vicina irta fase della/ notte quando tutto tace/ e sembra/stare come crisalide/quando la brace dei giorni/ è spenta…” e infine nella stessa poesia: “..parole che non / bastano non sanno tutta/ intera l’aridità o nostra/ povertà senza la Storia/ senza lo sguardo che veglia/ la memoria attenta la direzione/ certa del cammino” (“Questo anno”).
Ravizza è consapevole del rischio che corrono il poeta e la poesia: ”… l’atroce sentenza: non hanno/anima, sono spietate veramente/le cose, e tu sai di essere nulla/povero inventore di parole/ che sorgono nell’alba della gioia/ e scompaionio sole, tremolante/ opacità, deserto orrore, l’abbaglio/ che noi siamo” (“L’atroce sentenza”). Colgo echi sereniani in questa paura dell’opacità che rinvia alla vacuità del mondo segnato dalle ingiustizie che coinvolgono intere generazioni costrette a fare “un passo avanti e uno indietro/fermi e soli, generazioni abbracciate/ al niente” (“Il destino che tutti involse”).
Ma non c’è mai rassegnazione, magari s’incontra un sincero rimpianto civile come nella poesia “Perla solitaria” (…e passo dopo passo pensare/che stesse crscendo che sorgesse/interna un’alba nuova”; altre volte si coglie il rammarico per scelte fallite “… in questa epoca,/ nostra epoca, si fermò, si fermò/ a lungo o mia generazione si/ fermò là dove tramonta il sole/ si acquietò la Storia, la patria/ perduta dell’Occidente” (“Milano è forte”), ma Ravizza non perde mai il tono dell’orazione che restituisce coraggio malgrado le difficoltà: “…perché nessuno più/pensa crede o crea quella che /tu chiamasti una volta “la nuova/ situazione”, l’azione che si aggiunge al vero, e lo fa diverso” (“Vivono tranquille”).
Chiude la raccolta la sezione “Tutto ciò che lo precede” in cui il poeta cerca di fissare dei punti fermi da trasmettere, da consegnare al futuro, alle generazioni presenti di cui si sente comunque parte, perché Ravizza non si tira mai fuori, non accetta la realtà banale del reduce, non entra mai nella parte del saggio che accusa gli altri o rimbrotta le giovani generazioni. Ravizza coerentemente si assume delle responsabilità consapevole che “..forse resterà/un tenue racconto brandelli/di memoria impigliati nelle mine/ tra inchiostro e carta brandelli/ di scrittura ape spina pura/ di un vento che ci fu…” ma è altrettanto consapevole che “..questa mia generazione che ancora/ ancora sta passando come un fiume/che va che scorre lontano lontano/veros un estiario che nessuno/vede …” (“Questa mia generazione”).
Filippo Ravizza riconosce “l’esperienza terribile,/ vera, della totalità” desiderata sulle scorta delle teorie hegelo-marxiste (“Hegel”), ma spera nella possibilità del passaggio di un testimone che tenga viva la volontà di resistenza “che riassorbe la vita dentro la vita/la possibile forza collettiva che ci/ è data la contraddizione alleata/della bella possibilità di esistere/ qui e oggi e ora stando a lato/del finito stando come se non/fosse non ci fosse fine nostra/così vicina così appartenuta/ al racconto della vita”. (“Le foreste di magnolie”). E affida ancora alla poesia, alla parola questa speranza, questa volontà di essere “essere come acqua/ e levigare pietre e ostacoli superare / i mulinelli della Storia sapere ancora/ una volta che qualcuno ricorderà/ chi fummo noi… e poi spegnere la luce/deporre la matita, affidare al silenzio/ alla carta le parole intere” (“Alla fine, le parole intere”).
La sua, la mia, la nostra generazione ha perso, sembra dirci Ravizza, ma non è mai detta l’ultima parola.
Stefano Vitale
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Note sull’Autore
Filippo Ravizza è nato a Milano, ove risiede, nel 1951. Poeta e critico letterario, è autore, prima de La coscienza del tempo, di sette raccolte di versi: l’ultima in ordine di apparizione è la fortunata silloge Nel secolo fragile, uscita nel febbraio 2014 (la seconda edizione è del novembre 2015) presso La Vita Felice. È del 2012 La quiete del mistero (Amici del Libro d’Artista), preceduta da Turista (Lieto Colle, 2008), Prigionieri del tempo (Lieto Colle 2005), Bambini delle onde (Campanotto, 2000), Vesti del pomeriggio (Campanotto, 1995), Le porte (Schema Editore, 1987).
Nella sua città ha tra l’altro ideato e realizzato, insieme al docente e critico letterario Gianmarco Gaspari, “Lezioni della Storia – Dopo un secolo quale memoria”, un ciclo di conferenze iniziato nel 2011, lettura della Storia italiana ed europea attraverso la letteratura. Tra le altre vanno segnalate le conferenze che Gaspari e Ravizza hanno tenuto su Alessandro Manzoni, su Vittorio Sereni, Eugenio Montale, Umberto Saba, Italo Svevo e Giovanni Pascoli.
Nel 1995, insieme al poeta Franco Manzoni, Filippo Ravizza ha redatto il “Manifesto in difesa della lingua italiana”, oggi parte del programma orale (cours de production orale) per il conseguimento del dottorato specialistico del Dipartimento di Italianistica dell’Université Paris 8 (Paris – Saint Denis, docente Laura Fournier).
È stato chiamato a rappresentare la poesia italiana contemporanea alla XIX Esposizione Internazionale della Triennale di Milano (1996). Attualmente coordina le iniziative culturali di una grande organizzazione di rappresentanza economico – sindacale milanese.
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