“LA SECONDA VOCE” di Gabriela Fantato
(Ediz. Transeuropa, Massa 2018)

Il bianco, il taglio, il sasso

Spesso in questa raccolta incontriamo le parole “bianco”, “taglio” e “sasso”. Il bianco non sempre è contrapposto al “nero”, il chiarore positivo all’ombra oscura. E’ il bianco ad essere spesso uno “spazio” nel quale ci si perde, nel quale si annega, ci si dissolve rovesciando le attese. Il “taglio” invece è espressione tipica della poesia della Fantato: ci racconta di una cesura, di una ferita che è talvolta personale, individuale, legata a lutti, perdite, ricordi familiari, altre volte è il segno di una sconfitta, di uno scarto generazionale. Il “sasso” è la vita stessa, intesa come punto fermo in un mondo cangiante, altre volte è segno di pazienza che ci impedisce di perderci.

Parto da qui perché mi ha colpito la coerenza tematica e linguistica di questo libro che non si ferma a dire quel che dice, ma sempre allude ad altro, scompaginando le carte e le attese del lettore. Un libro di versi che sovrappone visioni interiori a quadri più aperti, sociali e storici; un libro che libera la memoria del passato, ma che guarda al presente e al futuro contemporaneamente. Mi ha colpito, quindi, questa capacità di Gabriela Fantato di tenere insieme più piani: esistenziali, temporali, semantici. E il titolo stesso “La seconda voce” rimanda a questa necessità della sua poesia di svolgere un canto senza l’oblio del controcanto, di uscire, come voleva Vittorio Sereni, da una poesia tutta rivolta verso l’interno per fare una poesia del dialogo lasciando da parte il monologo interiore di natura petrarchesca per un dialogo di personaggi e voci di stile dantesco.

La prima sezione è “Calendario della sparizione”. Fantato si pone dinnazi alle cose del mondo, ma non c’è solo la sua voce. Subito esplode il bisogno di un dialogo (graficamente espresso dal corsivo) per tenere il passo del confronto con le Cose della vita, con la Storia stessa. C’è una portata metafisica in questa poesia che, tuttavia, non prescinde dalle cose stesse. Desidera entrare nella realtà, scoprirne i risvolti nascosti, esprimendo con la poesia un possibile “stato dell’arte”. Che è quello di una condizione umana sospesa, che lascia sgomenti di fronte al precipitare delle cose, che racconta di uno smarrimento esistenziale e storico che ci accomuna.
Siamo anche noi “cose” tra le cose in convalescenza, in uno stato di transizione “perduti eroi dentro la marea/ fermi a bordo, al bordo. /Fermi/ Fermi” dove le parole ripetute sono come le note ribattute in un brano musicale per pianoforte, dolente , ma fermo. Come la vita che è “un sasso dentro il prato” frutto di un gioco crudele, ma necessario di dare e avere, di perdite e conquiste, e quel pianto di ragazza che non sei più/ è un conto in perdita, eppure,/ eppure resta il saldo, i nomi, quei volti/ e la tua primavera,/senza nome”.
La sezione si legge come un racconto sotterraneo, un’autobiografia personale-univesale, dove la dialettica tra ciò che unisce, cresce e ciò che divide e si perde è costante; dove la fiducia dell’amore e la forza del destino si fronteggiano. Siamo mortali, ma Fantato ha fiducia nella storia, bella sua e nostra capacità di ri-creare, ri-fondare: “…e la certezza/che inventi, quella che sa dire/ – la tua storia, con gli stessi volti,/ma con pieghe nuove/da scoprire”. Come scrive in “Cancellazione”: “Il tormento sfiora ancora le cose” ma la poesia si chiude coi versi “Unica certezza, unica sorte:/una comunità d’ignoti, in marcia, in ressa,/in fuga, nel balzo esatto/dentro l’addio”. Facciamo parte di un collettivo, di una comunità in bilico per la quale la nostalgia di una condizione armoniosa del passato (individuale e sociale, più o meno mitizzata) ha un senso, ma che non si lascia sopraffare, non cede. Certo la paura dell’anonimato è forte: in “Parking America” emerge con forza dolente perché “qui è tutto enorme/… l’orizzonte non lascia scampo,/sceglie la strada a picco, nel bianco”.
Ma c’è un desiderio di coerenza etica cui fare appello, dentro e fuori di noi per resistere al tempo che separa che taglia, che ferisce: “Invoco quello stere dritto/davanti e dentro il mondo/senza cerimonia, senza chiedere/solo per restare, solo per il gesto…” e qui sento Gabriela come una sorella che vuole ancora trovare una strada per “raddrizzare i quadri storti” della storia e della vita. Certo i nostri “strumenti umani” sono poca cosa, ma è quel che abbiamo nell’incessante movimento dell’esistere. Si veda la bella “La materia dei sogni” dove “quel nostro stare in bilico” è riequilibrato dal “sangue buono e giusto che ci corre”; si legga “Materica” in cui la questione della pesantezza della nostra carne, semplice materia, trova uno specchio illuminato nella corsa dei ragazzi “al primo amore/vanno dove non t’aspetti/… e lì si ricomincia/ la questione”.
E così si continua, nella dialettica tra nuvola e sasso in terno conflitto in Dentro i giorni, così la poetessa cerca nelle voci marginali dei senzavoce una via d’uscita : “Vieni, vita – son qui, ti ascolto”. E ancora il contrasto ci coglie sul filo del tempo in “Inutile” dove “la terra suda parole” (bella metafora per la nostra fatica di essere e di scrivere poesia) e “la pietra intanto recita i secoli” e la vita è sempre in perdita. Ma non è una caduta, è solo un passaggio perché nella poesia che chiude la sezione “La vita” si dice, con metafore forti, che il senso dolente del nostro limite (“La vita è un bianco intruso” che ci obbliga a ricordare “tutti i nomi dei cari morti” che pure noi saremo) si stempera nell’accettazione (e qui Gabriela Fantato ricorda ancora Vittorio Sereni) della “normalità” della nostra finitudine, spazio ritrovato non della rassegnazione, ma della possibilità di un essere diverso e compiuto perché “normale”, consapevole che “Tutto avanza e poi sscende giù,/piano”. Così Fantato ora scende giù nel dolente ricordo dei suoi cari e dei suoi affetti passati e presenti.

Nella sezione “La casa svanita” (introdotta da una citazione da “Vite pulviscolari” di Maurizio Cucchi che invita a “succhiare questa sola radice di terra”) troviamo coerentemente la struttura della dialettica dei contrasti sospesi tra tenacia della gioia e pazienza dell’acqua dinnanzi allo scorrere del tempo. E torna il dolore del “taglio” (in “Stanze ad incastro”) e il dolente “sprofondare” nell’acqua dei ricordi pur stando “in bilico su una sola zampa” ; l’impegno del “coltivo una radice, la dolce vita vegetale/ nella lentezza della meraviglia”; e il rimpianto per i giorni d’infanzia si fa tenero e struggente: “Le ore stanno chiuse nel fazzoletto/ e non cresce più l’infanzia nemmeno nei ricordi./Nemmeno se la chiamo per nome./Nemmeno”.
La sezione si chiude con un doppio invito: da una parte l’indicazione poetica del “Fatti acqua e sale, senza paura/e slitta, scorri. Vai al delta…” in un doppio movimento che un superamento della malinconia e al tempo stesso un risalire ancora alla fonte (il delta, che è a sua volta momento finale dello scorrere del fiume, ma anche la terra d’origine  paterna, familiare). Ma non basta: questo sdoppiamento dialettico lo ritroviamo in “Risvegli” (dedicata ai figli, in una logica generazionale di continuità) dove da una parte il tremore per qualcosa che “solo i bambini vedono./ Forse l’ombra, la parte più grande del mondo/ o un angelo impigliato nel tempo.” (citando più o meno consapevolmente il poeta Zagajewskij) si intreccia con il desiderio di non perdere di vista il buono della memoria: “e quei bambini che saranno e/ saremo noi, ancora…”. Va notato come in questa sezione si alzi il tono lirico, si sviluppino importanti e belle metafore (“Qui gli ombrelloni sono vento/ e il mare una sterpaglia – “Nella sabbia siedono larghe le ore/legate alla terra”) e come il paesaggio entri a far parte della struttura poetico-narrativa della raccolta specie nella bella “Delta del Po” (dedicata al padre).

Ma un paesaggio tutto diverso investe di colpo il lettore nella sezione “La voce del bianco”. Fantato abbandona, per così dire, il petrarchismo della sezione precedente e si fa portatrice di una visione dantesca. La seconda voce (voce di coscienza, alter ego, colui-che-parla-in-noi, la poesia stessa) ora si fa persona nell’incontro tragico con personaggi che sono anime o fantasmi evocati dalla forza dei versi per inchiodare il lettore alle responsabilità della Storia. Si precipita nel bianco di una serie di incontri drammatici. Primo fra tutti con Hina Saleem, donna pakistana condannata a morte dalla sua famiglia per essersi fidanzata con un italiano non mussulmano. Fantato sviluppa qui un poemetto in cui è la stessa vittima a parlare facendosi terra e radice (era stata sepellita viva), mostrando tutto il contrasto e lo scarto incolmabile tra la legge e l’individuo (ancora Antigone), tra il desiderio e la realtà, tra le attese e le conseguenze, tra le premesse e i fatti che sempre indica che “Resta un disavanzo/enorme, il nero della vita che avanza/.

Questa attenzione per le vite degli altri si sviluppa ancora più diffusamente nella sezione “Vite rubate”, 9 poesie che ricapitolano esperienze personali, incontri, fatti drammatici di cronaca in una forma di poesia civile che molto apprezziamo per la sua capacità antiretorica, per il sincero lirismo della lingua, per l’acutezza dello sguardo. Tanti sono i passaggi poetici molto riusciti: “il mondo tutto nuovo dentro una Milano che piano/ci svaniva tra le mani, piano ci ha buttati via/ – tutti, di lato,. Sotto le caviglie rotte della storia”; oppure “Adesso scelgo il filo di un racconto/per tenerlo a riva, tra alghe e calzini rotti,/orme di un paesaggio nelle pieghe del mare/così il nido si salva, il silenzio/dal bianco che raccoglierà altri silenzi”. Tanti sono i passaggi drammatici e crudi come in A una ragazza di nome Martina” o in “Prigioniera d’amore” e in “Non c’è più” dove Fantato racconta poeticamente storie di donne offese, uccise, specchio di una eterna società violenta che ferisce, discrimina, emargina, uccide appunto. E tornano il “bianco, il taglio, il sasso” quali metafore portanti di un viaggio poetico coraggioso e lucido.

Viaggio che si chiude col poemetto “Marina Cvetaeva, l’ultma notte” che occupa l’ultima sezione denominata appunto “La seconda voce”. Qui Gabriela Fantato immagina un dialogo, in pieno stile classico e dantesco, tra un gruppo di ombre e la grande poetessa russa costretta al suicidio dopo aver vissuto in povertà e isolamento a causa del regime staliniano. La voce, la seconda voce, sale dalle viscere dell’interiorità che sono anche quelle della storia e della poesia stessa: “esisto e rinasco dentro la voce/ogni giorno, ogni ora”. “Non pensi – ascolti l’incarnazione, il suo darsi sottile/in ogni cosa, il suo esistere, là fuori…”. Fantato-Cvetaeva sa che “La parola è una punzione cui non puoi resistere”, che la cosa che conta è poter dire e così esistere: “Volevi – essere , nient’altro, un imperativo battuto dall’urlo,/scritto dentro il tempo.”. Ma “la morte ti è cresciuta in grembo, come un figlio,/come la vita” dicono le ombre cui risponde comunque fiera Marina-Gabriela: “Io sarò passo gigante, voce/dentro il nero, un’eco bianca per te,/domani”.

Un finale triste, ma epico; una lirica addolorata, ma robusta, una poesia dunque ferma, matura, lucida quella di Gabriela Fantato in questa raccolta “La seconda voce”, che ancora risuona e canta anche quando chiuderete il libro, dopo l’apparente ultima pagina.

Stefano Vitale

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Note sull’Autrice

…..Gabriela Fantato, poetessa, critica, saggista. Ha vinto diversi premi poetici, tra cui: Gozzano (2003 e 2009, inedito); Montale Europa (2004, inedito), Città di Tortona (edito, 2008); Lorenzo Montano (inedito, 2009).
…..Raccolte poetiche: “A distanze minime”, in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi 2012,Milano) silloge che è pubblicata anche in “Almanacco de Lo Specchio” (Mondadori, 2009, Milano; The form of life, trad. E. Di Pasquale (Chelsea Edition, New York, 2011), Codice terrestre (La Vita Felice, Milano, 2008); il tempo dovuto, poe­sie 1996-2005 (editoria&spettacolo, 2005); Northern Geography, trad. E. Di Pasquale (Gradiva Publications, New York, 2002); Moltitudine, in Set­timo Quaderno di Po­esia Italiana, a cura di F.Buffoni (Marcos y Marcos, 2001); Enig­ma (DIALOGOlibri, 2000) e Fugando (Book editore, 1996)
…..E’ presente in varie antologie, tra cui: Bona Vox, la poesia torna in scena , a cura di R. Mussapi (Jaca Book, Milano, 20101) e Meglio qui che in ufficio, aforismi – epigrafi, a cura di A.Schatz e M. Vaglieri (Rizzoli, 2009).
…..Ha curato con L.Cannillo La Biblioteca delle voci. Interviste a 25 poeti ita­liani (Joker, 2006). Dirige la rivista di poesia, arte e fi­losofia: “La Mosca di Milano”. Per il teatro ha scritto i libretti in versi: Messer Lievesogno e la Porta Chiusa; La bella Melusina; L’elefante di Annibale; Enigma e Ghost Cafè andati in scena nei maggiori teatri italiani

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