Caro Alessandro,
scusa se non rispondo alle tue lettere, ma… sono pieno d’impegni

foto_davenia_vitaleTerreno davvero scivoloso. La questione è tanto più delicata perché siamo come dinnanzi ad un totem, ad un’urna sacra. Alessandro D’Avenia è una sorta di “unto del Signore”, un re Mida del mercato, asfittico e deficitario, dei libri.

Lui di best sellers se ne intende ed è pure bravo. Parlare male del Papa non è facile. Infatti abbiamo esitato a lungo oscillando tra l’accettazione incondizionata e la critica più radicale. Poiché siamo sospettosi per natura, perché ci spaventa tanto successo. Ed allora, dopo averlo letto, questo libro così già famoso, ci ha dimostrato che non è oro tutto quel che luccica. Ma neppure è letame tutto ciò che vende. In ogni caso ci sentiamo di dover mettere in guardia il lettore da facili entusiasmi.

Questo libro è zucchero che cola tra le dita, un tubetto di vaselina lasciato aperto, un barattolo di marmellata impossibile da non assaggiare, una mela bellissima e rossa ma senza grande sapore… rendiamo l’idea? In ogni caso c’è dentro troppa roba e quando c’è troppa roba si resta in superficie. Ma non è ovviamente questo lo scopo dell’autore. Certo che lui ci vuole spiegare “come si lotta per essere felici quando tutto il mondo resiste e la corrente è contraria”. Davvero una bella impresa. Ma niente paura: ciascuno di noi ha un destino urgente da seguire, per fare qualcosa di buono. E su questa falsariga, D’Avenia ci inonda di buoni sentimenti, di belle parole dolci ed ispirate. Lui parte dalla sua esperienza di insegnante che sta a contatto con gli adolescenti. Così il libro è costruito come un epistolario fatto di lettere scritte dall’autore a Giacomo Leopardi, assurto a “Ideal tipo” dell’adolescente e al tempo stesso medicina radicale contro il male di vivere.

“Caro Giacomo, in quest’epoca si parla tanto di adolescenti, ma si parla troppo poco con gli adolescenti. Parlare con gli adolescenti non è articolare un elenco di “devi” o “dovresti”. Non guadagna la fiducia dei ragazzi chi la cerca scimmiottando la loro adolescenza, ma chi partecipa alla loro vita, scegliendo volta per volta la giusta distanza. Solo chi vive il suo rapimento genera rapimenti e provoca destini: solo se io so che cosa ci sto a fare al mondo metto in crisi positiva un adolescente, che non vuole gli si spieghi la vita, ma che la vita si spieghi in lui, e vuole avere a fianco persone affidabili per la propria navigazione”.

D’Avenia e Leopardi sono persone affidabili. Peccato che Leopardi venga usato per proporre una serie di “verità” banali e, appunto, zuccherine quanto, a volte, discutibili. Scopriamo che l’adolescenza è fatta di meraviglia, di momenti di rapimento, che da Leopardi s’impara “come si guardano le stelle da una finestra”; che “il poeta sa che il futuro delle cose è celato già nella loro origine”; che “l’adolescenza non è una malattia” e che occorre coltivare “il coraggio di avere un destino, di essere fragili”. E le domande sono del tipo “come si fa ad amare, a trovare Dio, a non soccombere di fronte al dolore?”.

D’Avenia fa una serie di parallelismi, spesso forzati, tra Leopardi e i giovani d’oggi riducendo il tutto al fatto universale che “tutti desideriamo sentirci amati”. Il problema è che il libro diventa un trattatello sull’adolescenza oggi, ma un’adolescenza patinata, da rotocalco, troppa retorica, troppo autocompiacimento. “La speranza è un’arte che ha il suo prezzo”, “l’immaginazione dipende dalla privazione”; “ridare dignità al cuore”, “conservare l’infanzia senza essere infantili”… Davvero troppa roba e tutto troppo intriso da sentimentalismo dolciastro.

L’autore pone al lettore, e a sua volta si auto-pone, quesiti di gran rilevanza, interrogativi che spaziano per quella che è la vita e la realtà di ciascun individuo in ogni fase della maturazione umana. Davvero troppa roba. E visto il compito che si è assegnato, non può fare a meno, benché mi pare gli dispiaccia un pò, di non offrire soluzioni. Perché come ci ricorda, la vita stessa non è semplice dunque, non può essere minimizzata, non può essere risolta facendo riferimento ad una formula matematica, ad un minimo comune denominatore da applicare al caso incontrato nel percorso di crescita interiore. Leopardi, che è sempre più di moda, diventa l’artificio letterario per permettere a D’Avenia di destreggiarsi in questo ginepraio. Così come è proprio di un breviario da conservare per la vita intera , “L’arte di essere fragili” può essere suddiviso in quattro parti così come quattro sono le componenti fondamentali della vita: l’adolescenza, o arte di sperare; la maturità; o arte di morire; la riparazione, o arte di essere fragili; il morire, o arte di rinascere.

D’Avenia per ogni sezione scrive una serie di lettere su un argomento letto in chiave leopardiana. Alcuni dei testi poetici più famosi divengono così strumenti per rivedere concetti fondamentali del vivere di ieri e di oggi. Ma D’Avenia, che è insegnante, è bravo nel ricollegare questi elementi con episodi e casi concreti accaduti nel corso della sua professione. Dunque, alla riflessione s’intreccia la realtà. Significativo è un passaggio: ”Professore, lei dovrebbe leggere un po’ meno poesia e guardare un po’ di più il Grande Fratello”. [..] Quella frase mi colpì, non per la sua insolenza ma per la sua verità bruciante. Tradotta suonava così: ”Professore, per favore può tornare nel mondo piccolo della bruttezza e non farmi sentire che esiste la bellezza? Può non costringermi a scegliere tra il nulla e l’essere? Ora che so che ci sono cose in cui la vita si sente così forte, cose così belle, devo uscire dalla mia comoda indifferenza e prendere posizione: a che punto sono del mio compimento, che cosa voglio dalla vita? Professore, può per favore evitarmi minuti di rapimento, altrimenti devo mettermi in cammino verso il compimento?” .

D’Avenia non rinuncia a fare il guru, ma diamogli atto che se non altro si mette in gioco come insegnante che almeno ha capito che gli “adolescenti non pongono domande, sono domande”; che sono energia che vuol uscire, esplodere, essere destinata ad un obiettivo, e sono al tempo stesso provocatori perché pongono interrogativi a cui vogliono risposte, risposte che devono e pretendono essere semplici e risolutive quando in realtà a molte di esse è possibile rispondere soltanto con la dimensione dei forse, dell’incertezza. D’Avenia dovrebbe forse evitare un approccio seduttivo (cosa sempre di moda, e qui penso al libro “L’ora di lezione” di Recalcati, anch’esso troppo semplicistico e ambiguo), ma abbiamo apprezzato nel libro, il racconto dei suoi laboratori di lettura e soprattutto di scrittura, del modo di porgere le letture dei poeti, che restano l’unica cosa vera in tanto mercato delle apparenze.

Non sono certo, tuttavia, che questo libro aiuterà i giovani risolvere i propri problemi di fragilità attuali. Troppe questioni hanno un risvolto sociale, familiare che qui è assolutamente evitato. La classe è un buon punto d’osservazione, ma forse l’autore non ha mai visto i ragazzi fragili che stanno male davvero, vittime di famiglie devastate, di sogni impossibili, di affetti distorti, di manipolazioni e più o meno sottili maltrattamenti o abusi.

Ma riconosciamo a D’Avenia di averci provato. Ci è piaciuto quando ha scritto che il compito della scuola, e non solo, è di “incoraggiare l’uso della libertà in direzione di ciò che vero, bello e buono”. Forse è sin troppo facile oggi, riprendendo il filone del “giovane meraviglioso” di Martone appoggiarsi a Leopardi, star sin troppo sfruttata del panorama poetico: per questo mi domando se non ci sono altri autori che meriterebbero di essere conosciuti dai giovani, al di là della retorica della fragilità. Che resta un valore, certamente, non facile da liquidare, ma della quale non si deve abusare.

Alterez
Dicembre 2016

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