“Lazzaro”, il visionario romanzo di Roberto Pazzi
Recensione di Renato Minore
(da “Il Messaggero”, 17 maggio 2017)

Un narratore coatto: visitato da sogni, ossessioni, visioni che, invece di sopraffarlo, lo difendono dalla dissennata piattezza della realtà attuale”, così di Roberto Pazzi scriveva Alfredo Giuliani con una felice formula passpartout alla sua narrativa che in poco più di trent’anni può contare su venti romanzi. Più sei raccolte di poesia (Pazzi all’esordio è poeta e come poeta ha qualche volta intervallato la sua più continua e riconosciuta figura di narratore).

Quei “sogni” e quelle “ossessioni” sono tutti incisi nel primo romanzo di Pazzi “Cercando l’imperatore” del 1985 e ne “La principessa e il drago” del 1993, una “storia immaginaria” definita dallo stesso scrittore in cui il dramma tutto umano di un giovane minato dalla malattia, oppresso dalla responsabilità del potere e tormentato da un amore impossibile, si dilata in un racconto fantastico, fiaba moderna dove cielo e inferno, passato e futuro s’inseguono, si rincorrono, si cercano. E così anche nelle “Città del dottor Malaguti” del 1993, sospeso tra realismo e invenzione fantastica, con personaggi grotteschi e situazioni inverosimili intrecciati a conferma di una capacità di rappresentazione ancora riconoscibile di un sentimento e di una qualità anche emozionale della vita in quegli anni, senza nessun apporto di mimesi sociale o sociologica.

Nel caso di “Lazzaro” (Bompiani, 210 pagine, 17 euro), l’ultimo romanzo del settantunenne scrittore ferrarese d’adozione ma ligure di nascita, i “sogni” e le “ossessioni” sono nello sguardo visionario, da eretico della visione che illumina la storia capace di far affiorare le verità più nascoste e insidiose. E proprio eludendo quella piattezza da cui è esso attratto e insieme respinto. La “grandezza dell’effetto opposta all’effetto della grandezza come diceva Musil”, per usare la definizione dello stesso Pazzi.

La storia è di un maestro romagnolo che decide di uccidere il despota Leo Bonsi, l’avventuriero che ha cancellato la democrazia facendosi eleggere presidente a vita, dopo aver eliminato anche fisicamente i rivali, grande insuperato organizzatore del consenso raggiunto e confermato con ogni stratagemma e astuzia. In mezzo, il Signore delle Mosche e addirittura Santa Teresa che rediviva parla delle tentazioni di Satana e, soprattutto, Roma vista come attraverso un visionario volo sciamanico. Corrusca e levantina con il potere ammaliatore, grande e sontuosa quinta d’ogni apparenza e d’ogni metamorfosi, gran teatro del mondo attraverso una lente che deforma, città per definizione eterna e “eternamente peccatrice”. Dove il maestro si aggira armato di pistola, gira tra scalinate e chiese della Città eterna, con il sogno segreto che sempre più diventa un’ossessione di ammazzare il temibile dittatore, che nel frattempo è diventato un uomo malato e segregato nel fortino del suo potere, voyeur per impotenza e disperazione di fronte al potere, sempre più un guscio vuoto, un’allucinazione che persiste e abbaglia.

Un’allegoria paradossale del dualismo dei nostri tempi, con eros e sacro che non sono stati mai così dicotomici e schizofrenici, spiega Pazzi. Il racconto (con “Cercando l’imperatore” forse il migliore di Pazzi) scorre trascinato dalla follia eroica ed erotica intorno all’eterna questione sulle entità di bene e male, nell’analizzare come funziona il male, per poterlo evitare, e perfino il bene, forse per poterlo imparare. E anche sul mistero del potere con le sue metamorfosi in rapporto alla suggestione della parola sotto la cui ala i due protagonisti si muovono in modi differenti, secondo la propria natura, la propria esperienza, il proprio destino. E scorre, si ramifica, si consolida con una sua complessità di temi, suggestioni, ambizioni cognitive che riescono quasi sempre a sciogliersi in leggerezza e continua sorpresa. Proprio perché la pressione di quei “sogni”,di quelle “ossessioni” di quelle “visioni” non generano alcuna forma di risposta conclusiva, pedagogica, consolatoria, bensì l’unico genere di risposta che può permettersi un romanzo, il cui obbligo non consiste nel far fronte alla domanda che esso stesso si è posto, bensì nel formularla nel modo più esauriente possibile.

Renato Minore

***

 

CONDIVIDI