“Le campane” di Silvia Bre
(Einaudi, Torino 2022)

…..“Nella vita – dice una poesia di questa raccolta – siamo attirati da distanze che ci chiamano, che non vediamo e non conosciamo, come da un suono di campane lontane. È un suono remoto, misterioso, un battito originario, nei cui rintocchi la parola poetica nasce e ritorna, ogni volta, per dissolversi. Nelle campane – nella poesia – Silvia Bre cerca di cogliere ritmi che scorrono sotterranei alla vita ma che della vita, non solo individuale, sono la linfa nascosta. A volte è necessario un salto mortale, della percezione e della grammatica. Ma piú spesso questa lingua poetica si affina per concentrazione, per elisione, per cancellazione di tutto ciò che è superfluo, nella tensione verso l’origine delle cose, nell’attenzione per i nessi che le legano, per l’attimo di senso quando si dilata e sembra eterno. Le campane non possono non avere anche un aspetto mortuario, commemorativo. E infatti, verso la fine della raccolta, le note assumono un tono quasi cimiteriale e il lessico si infoltisce di «polvere», di «scheletri», di «tenebre». Come se la vibrazione delle campane precedesse e oltrepassasse il rintocco della vita, e rivelasse infine un mistero siderale, l’annuncio di una «lingua celeste dello sparire”.

…..Questo è quel che si legge sulla quarta di copertina a titolo di presentazione dell’ultimo libro di Silvia Bre.

…..Sara De Simone su “Il Manifesto” ha colto che «esistono poeti la cui forza espressiva è tanto grande da somigliare al silenzio». «Chi prova a definire il mistero lo perde, chi inchioda un senso al suono lo fraintende. Ogni poeta ce lo insegna: si ama la poesia se si accetta di non capirla fino in fondo».
Davide Toffoli su “Avampostopoesia” ha precisato che “Le campane di Silvia Bre sono forma e fonte di un suono che anticipa e sopravvive al lettore, di una musicalità ancestrale, o archetipica, che rimanda inevitabilmente all’assenza…. Quella della Bre è una rivoluzione necessaria che pone al centro l’ascolto e invita a restare sempre con l’orecchio teso verso le vibrazioni, la voce degli altri, dell’Altro. Operazione da consumarsi, in segretezza, anche con gli occhi”.

…..Non ci si aspetti dunque un libro di versi facili, accoglienti, cordiali. Il verso di Silvia Bre qui è aspro, teso, talvolta fuori giri, fuori ritmo per segnare lo spaesamento, il disorientamento esistenziale dell’uomo e della poesia stessa. E’ come se Silvia Bre ci prendesse per mano per accompagnarci in un bosco di rovi dove domina il silenzio, interrotto dai nostri lamenti per un taglio, una spina, un graffio sul viso o sulla mano.
Non c’è colloquialità formale, non c’è accomodamento emotivo: la poesia, come il nostro tempo presente, si ritrova nel vuoto e le resta il suono sommesso e dolente di campane quale metafora di una condizione umana che ha dovuto rinunciare al contatto diretto autentico con se stessa, con le cose e che è obbligata a rifugiarsi in una consapevole distanza.
Silvia Bre non rinuncia però alla parola, che è suono per eccellenza, per dire che la verità, tutte le verità sono tramontate, sprofondate nel buio. L’essenza di quel che resta è suono, voce distante, soffio di un segno senza tempo. Silvia Bre ci offre una sorta di metafisica della storia in versi tracciando un bilancio dolente dell’intera storia umana, ripiegata su se stessa.

La luce di qualche verità
qui è eclissi
gli sguardi le cantano il buio.
Anche la grammatica fa
il suo salto mortale
e non sbaglia e muove.
(pag.5)

…..La ricerca di Silvia Bre muove dall’origine. “Il ritmo innato vaga prima/della vita” (pag. 6) e la poesia, la cultura come immagine è “segno/ libero dalla storia nella roccia dove canta/ aria che canta a sé senza momento. / Il fuoco acceso fa silenzio” (pag. 6).

…..Siamo in una  preistoria acustica delle grotte di Chauvet e della parola che è silenzio che vibra:

Noi
ci industriamo, ma siamo senza voce
verso lei,
senza più armi
come le stelle contro il loro buio
in pace
dentro una differenza che uguaglia
la parte per il nulla.
(pag. 7)

…..Certamente il suono, le campane sono il tentativo di collegare la parte al tutto, di costruire un fragile ponte tra l’individuo e la storia: ma è davvero un filo sottile. Che forse solo la poesia riesce ancora ad intrecciare coi suoi fragili strumenti, con le sue immagini, con il suo incedere trascinato, zoppicante, ferito.

L’apparire di sparsi movimenti
del sole, delle strisce lunari

poi nella loro luce gli animali
tra foglie tutte nuove
disegni, come i gesti delle fate
e dei maghi

discendere da loro
in un destino

nel fumo
negli spazi
essere stati il futuro di qualcuno.
(pag. 9)

…..L’ultimo verso apre solo apparentemente un varco. Nel ricollegare il presente alla preistoria non c’è calore, c’è lo sgomento delle occasioni perdute, c’è il senso del disastro della storia: “E’ l’adesso è perenne/non si calma il suo tremito lungo/ che gela il pensiero” (pag. 10); “C’è una forza che tiene e ha un forza/ che tira avanti come un animale/…travolge tutto dalle sue radici/… come va via da te quello che dici” (pag., 11)

…..Se c’è una postura appropriata è forse ancora quella stralunata della parola, della poesia in particolare. “Così, e va fatto ancora, stare alla notte/ e cavarne un linguaggio/ orientarsi/ tra misure sconvolte, il bandolo/ sempre solo un gesto, l’atto più oscuro” (pag. 12) perché in fondo cerchiamo “l’intuizione dove chiudersi mentre ti folgora” (pag. 13). E si va avanti in questa direzione “ossimorica” delle vita e della storia: “creare un gorgo e poi esserne inclusa/ ma/ vale/ questa pena di girare/l’ingombro di me stessa, il consumarsi/ del sasso che si saluta a ogni urto dell’acqua (pag. 14).

…..Il rifugio è la chiusura su stessa, nella propria voce poetica sapendo che “forse non affiori in questo suono… com’è sola la vita…/la colpa/ è rimanere in me senza volere/ appesa a una corda vocale a rapire un’orma” (pag. 15). Bre ci dice che ormai la nostra essenza più autentica è dispersa, separata da noi stessi e non si può far altro che rendersi conto che “la diga sta per cedere/ e qualcuno dovrà infilarsi intero/ nel frammento” (pag. 16) nella speranza, ancora possibile, “Che venga a prendermi ogni luce / o anche un giro di vento, che plachi / il silenzio della comprensione assoluta” (pag. 17).
La solitudine è la corona della vita (cfr. pag. 18) e siamo costretti a vedere che “la riva è una fantasia, un fantasma/ che ci ha deposto al largo per farsi guardare/…il mare/ invade tutto il lago./ Ad avvistare la scena/ solo queste parole” (pag. 20). Siamo fuori dal quadro, siamo senza cornice e ci resta la voce, la parola, forse solo il suo eco.

…..La parola, la poesia è solo “un attimo di senso/ e l’attimo nel suono pare eterno” (pag. 23). E ancora “Non sono mai nessuno i poeti/nel vuoto dell’amore, dai vuoti di memoria/pugnalano in lingue il lontano. /Poi l’aurora” (pag., 24).

…..E’ davvero il caso di dire che anche per Silvia Bre si resta sempre altrove “sfigurati dalle sillabe, sfasciati, senza imparare mai” (25) e si insiste perché alla fine “specchiarsi in queste parole è il paradiso” (pag. 27). Il suo “altrove” non apre però ad una qualche prospettiva che sia ancorata ad una realtà da costruire, affrontare, che in qualche modo spinga a partecipare ad un processo nuovo. La parola è una “vertigine di spine” in cui si placa “l’istinto del pensiero” e il girare a vuoto del suono, che appunto ri-suona e si perde,
è la pace che Bre cerca.

…..L’anima è il mondo come è/ che se io parlo suona”.
Così leggiamo in esergo della seconda parte.
Le campane non sono mai presenti come oggetti, ma sempre come eco, come suono, come immagine ed è per questo che la loro presenza-assenza si sovrappone a quella della parola, della poesia. Che progressivamente, nei testi della Bre, passa da una approccio più “razionale” ad uno sempre più allucinato e persino delirante, proponendo una forma ed una sostanza che potremmo definire barocca in quanto ricamo di suoni e immagini che si rincorrono in una melodia impervia, richiusa su stessa.

…..Andare andare via sulle onde/ come dietro ad un’icona adorata/ da ere più vaste di questa” (pag. 32); e subito dopo “Lo spazio andò a trafiggersi nel suono. /Fu la lingua del buio, era la nebbia che /braccava il fiato/ si lasciò accordare, una guerriera, senza mai dirla. (pag., 33).
Silvia Bre è come se cercare di sottrarsi definitivamente al presente, che non ama, per rifugiarsi in una visione arcaicizzante, primordiale. La lingua del buio, il ritmo antico del nulla, l’opera che resta inconclusa a fissare l’eterno… tutte espressioni che ci portano indietro/lontano in un passato senza tempo che è l’eterno desiderato della poesia. Che appare tuttavia come “un mosaico di dolore”: questo è “il canto/ immenso della vita così sola/ a contemplare l’anima, il bianco un lampo interno” (pag. 38). Silvia Bre si svela e ci dice che “l’anima scura sfregia la lingua e sventola. /Nessun altare, solo un alto tifone benedice la mentre/scossa da cori di spighe, fende l’impossibile” (pag. 45).

…..Può apparire presuntuoso, ma la poesia di Bre si immerge nella sua stessa definizione di “poetica” il che la fa apparire autoreferenziale, ma certamente sofferta: “L’umano ha questo fuoco profumato di una lingua/che porta il non più in cui stare, è un vivo/raggirato dalla luce e la eclissa nell’ignoto di una frase”. (pag., 47. La poesia si fa anche prosa, un po’ come richiede il mainstream contemporaneo pur non abbandonando l’oscurità barocca del “giro” linguistico che la caratterizza.

…..La poesia di Silvia Bre ci dice della forza della luce come fonte e forma originari della vita e del movimento, ci dice però anche della labile consistenza delle nostre certezze, delle nostre illusioni, ci dice che l’esperienza del mondo è sostanzialmente una dinamica imperfetta di armonia/disarmonia e che il desiderio più vero resta quello della calma, della distanza che sfiora la morte.
Per questo la parola si fa, specie nei versi finali, talvolta esercizio di penitenza e la “luce della morte” non appare più come qualcosa di terribile, feroce, ma come un forma laica di inevitabile di riposo. Bre ci parla di una “lingua celeste dello sparire” (apg. 48), ci dice che “voleresti/ non fosse pre la calamita della voce” (pag. 49) e la poesia come la campana “Muore indifesa la mente solitaria/dice quello che non può si sciogliere/ nella schiuma dei cristalli/ ascende nel sale, brilla.” (Pag. 50) E il mondo è costellata da “Cimiteri di campane/ (pag. 51), così al poeta non resta che un esercizio di penitenza: “In questo sonno raccolgo la mia polvere…/ scendo sempre ancora/ nel quieto darsi a lei del mio pensare, /mentre dormo la vita ancora sogno/ la quiete che mi accerchia e sta sospesa” (pag. 53).

…..Siamo in tempi di guerra e la poesia come spesso accade sa anticipare la realtà, in una dolente preveggenza:

Tra gli eletti dal male a guarirlo
nella lingua che lo dice, la cura
del ramo spinato che urtato da un fiato
sibila e ti tiene sveglio e ti addormenta,
non sai quale madre detta la misura
nell’azzurra lacuna da vedere
se contro la luce della morte
una navata canta la sua carità per questa gleba.
Suonata a senso dalle campane
per timone le tenebre
mi ruota nello scheletro la nube di una luna,
questa infamia fedele di beata.

…..Silvia Bre è dunque immersa nel pieno dei temi della poesia novecentesca rivisitati con stile e modalità personali. La novità sta nella forma e nel tono, nel ritmo e nella costruzione, nella metafora che ferisce e lentamente svanisce.

…..Stefano Vitale

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…..Note sull’Autrice
…..Silvia Bre è nata a Bergamo nel 1953. Vive da molti anni a Roma.
…..Da Einaudi ha pubblicato 
Le barricate misteriose (2001), Marmo (2007), La fine di quest’arte (2015) e Le campane (2022), nonché tre volumi di traduzioni da Emily Dickinson: Centoquattro poesie (2011), Uno zero piú ampio (2013), Questa parola fidata (2019).
…..E’ considerata una dei poeti più importanti della nostra scena letteraria.

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