“Le cose del mondo” di Paolo Ruffilli
(Mondadori, 2020)

Le parole e le cose

…..Questo nuovo libro di Paolo Ruffilli, per esplicita dichiarazione dell’autore, “vuole porsi come opera unitaria” che è “l’esito di una lunga elaborazione, di un lavoro più che quarantennale”. “Le cose del mondo” rappresentano quindi un progetto al quale Ruffilli è rimasto fedele, pur avendo scritto e pubblicato altre raccolte: “L’idea è legata a un mio desiderio, a una mia precisa necessità, e cioè quella di perlustrare il concreto mondo in cui si è venuta muovendo la mia esperienza, in un gioco di continui rimandi e rispondenze tra io e realtà esterna attraverso la pratica del linguaggio”. Così scrive Ruffilli nella nota che apre la raccolta. E qui troviamo certamente una precisa chiave di lettura.

…..Paolo Ruffilli inizia questa perlustrazione del concreto mondo in modo suggestivo: con una sezione dedicata al tema del viaggio, anzi al gesto, all’atto pratico ed emotivo del mettersi in viaggio. Tutto il libro è esso stesso un viaggio. Il titolo della sezione è, infatti, “Nell’atto di partire”.  E’come se il mondo delle cose non fosse immediatamente disponibile, ma richiedesse, per essere conosciuto, una scelta, animata dalla volontà del movimento.

…..Non si può restare fermi, occorre mettersi in viaggio. E come per tutti i viaggi, ci tocca accettare l’instabilità, l’incertezza, il rischio dell’ignoto. Già, perché vedremo che le cose non sono affatto quiete, morte, inerti. Ruffilli esplora infatti i dubbi e i desideri connessi al partire che è inevitabilmente “il rovesciamento di ogni prospettiva” (p.14) che obbliga a prendere coscienza, in una logica dialettica quasi hegeliana, “che bisogna intanto perdersi/per potersi ritrovare”… “scoprendo che la vita ci precede/nel mentre stesso che rimane indietro” (p 17).

…..Ruffilli elabora una sorta di fenomenologia dello spirito poetico: “Scendi e sali con tutto il carico/delle tue cose mai risolte e delle/ attese piene andate sempre più perdute/ in mezzo a quello che, si sente infine,/non ti appartiene e mai ti è appartenuto (p.33)”. Il poeta non dimentica la propria vocazione critica: la dialettica non si risolve nel trionfo dell’identità, ma resta tesa nella ricerca, attenta a cogliere fratture, contraddizioni, crepe, paure non risolte espresse con un lirica che ricorda i versi, almeno nel tono, di Giorgio Caproni quando scrive: “… e si vedrebbe/ che non si avanza di una spanna,/che più si va e meno trova/ e non si arriva da nessuna parte. (p.24)” O anche quando troviamo versi quali: “Dipenderà, sia pure dalla mia natura…/ però lo sperimento nell’atto di partire/ che tanto o poco è già un morire (p.26)”. Ruffilli mi pare si proponga così di cogliere l’erlebnis, il vissuto dell’esperienza del mondo, qui del “partire”, conscio che abbiamo bisogno di “luoghi di scambio” per scoprirsi “meravigliato/ dall’imperfezione imperdonabile del mondo”.(p.30)

…..Sul piano della poetica Ruffilli esce dall’autoreferenzialità dell’esperienza puramente introspettiva per entrare nella referenzialità dell’esperienza del mondo che il poeta rielabora in una nuova forma di liricità espressiva che si appoggia su una soggettività “fenomenologica” ritrovata. Una soggettività diversa, non solipsistica e narcisistica, ma riflessiva e aperta al tempo stesso, disponibile a relazionarsi al mondo, a sé stessi come parte del mondo. Fondamentale appare quindi la forma, come linguaggio poetico che sigilla, regola il vissuto in una “struttura” più profonda ed efficace, uno spazio specifico in cui i “dati” esperienziali, emotivi e cognitivi, emergano e si fondano in un tutt’uno. E la lingua segue questo pensiero, come il pensiero segue la lingua in un ricamo poetico tessuto su una tela essenziale, semplice, limpida, senza retorica “poeticante”.
La poesia di Ruffilli è una forma di poesia filosofica centrata sul dasein , ma in divenire, una poesia lirica antilirica, attenta all’essenziale, senza le sospensioni improvvise di un Umberto Fiori, per citare un poeta anch’egli attratto dalla calamita delle cose, ma con lo stesso sguardo lucido, prensile.

…..Sguardo che non esclude, come detto, il soggetto, l’io che però è colto come coscienza, come parte del mondo stesso, come res immersa nella quotidianità precaria dei propri dubbi, delusioni e illusioni, (“La coscienza, a un tratto o il dubbio/la domanda più vertiginosa/ di quelli che lottano ogni giorno/ per darsi di continuo l’illusione…/” p.35), ma anche nella ricerca di verità, felicità (“Nella felicità ci sfiora il tempo/ senza lasciare tracce vere/… p.36). Il fatto è che siamo tutti dentro ad un treno, che poi si fa appunto metafora, dove gli scompartimenti hanno “vetri appannati / e porte chiuse, sigillate”. E’ un treno “carico di gente, di storie e luoghi/ di sapori… (p.38)”, un treno che è però “unica speranza vera/contro lo stallo e contro l’apatia,/ il puro movimento, simbolo e certezza/ di un cambiamento… (.38)”. La prospettiva “arretra e di continuo intanto si cancella” (p.40) ma è qui che emerge “il mondo sbattuto e sradicato/intanto riportato a galla, rimesso in piedi/ con sorpresa e lì/… resuscitato e vivo un’atra volta” (p.41). Così si chiude la prima sezione che lancia la successiva.

…..Non serve fuggire, il viaggio non è fuga, ma movimento dentro e verso il mondo che ci appartiene e ci contiene, il mondo delle cose e delle persone che ci stanno accanto. Questo ci dice Ruffilli nella sezione “Morale della favola” che raccoglie delle poesie dedicate e indirizzate alla figlia. Poesie in cui il padre cerca di recuperare, in controtendenza con tanta pedagogia della dimissione generazionale, un proprio ruolo. E lo fa con spirito etico, con il senso della responsabilità di chi sente il dovere, e il piacere, di offrire piccole istruzioni per l’uso della vita alla propria figlia. Non un canzoniere d’amor paterno languido e scontato, ma un breviario etico-morale, un messaggio di educazione civile e sentimentale che si pone fuori squadra perché accetta il rischio di dire “la mia opinione/sulle cose del mondo e della vita…” (p.47).
E’ una sezione dove affetto e cura si fondono con la saggezza, la volontà di protezione consapevole, il dialogo sui temi della vita e della contemporaneità. C’è qualcosa di “classico”, nel senso della cultura classica in queste poesie che mutatis mutandis ricordano il tono filosofico morale di un Seneca, di un Marc’Aurelio. I titoli sono eloquenti: “Paura”, “Rivolta”, “Bugie”, “Intenzione”, “Gli amici, “La scuola”, “Seduzione”, “Resistenza”, “Successo”, “Orrore”,”L’esperienza” dove si legge: “Che cosa può insegnarti l’esperienza?/ Che ognuno è, contro l’apparenza,/l’autore della propria sorte” (p.69).
Il tono di tutte le poesie della sezione, come detto, è discorsivo, filosofico, disteso e senza fronzoli nella sua ricerca di chiarezza di un messaggio preciso e comunicativo.

…..La terza sezione è “La notte bianca”: metafora dell’insonnia? Ricordo dostojevskiano? Di fatto qui la poesia di Ruffilli vira di nuovo verso l’interno, verso l’espressione lirica del punto di vista del poeta sull’uomo, sulla cosa umana. Ancora una volta i titolo sono eloquenti: “Natura umana”; “Memoria”, “L’oggetto del pensiero”, “Il tempo”, “Universo”, “La gioia e il lutto” (che è anche il titolo di una sua raccolta), “Felicità”.

…..Così Paolo Ruffilli ci dice che “La memoria cede, annaspa, caracolla/gonfia di corpi inerti e piena di detriti, anarchica e impaziente tralascia/ quasi tutto e non le importa niente… (p.83)” .Oppure che siamo “Nati dal corpo di natura/distaccati e alzati in volo,/ ma ricaduti in ansia e per paura” (p.87); o che l’universo è “L’infinito esplodere continuo/l’espansione e il giro palpitante,/ la legge che presiede a scambi/ di energia, un mare ribollente/ di luce e di calore” (p.92). E con echi sbarbariani ci dice che “…la felicità/ invece sempre si confonde / con la dissolvenza stessa/ la dissomiglianza di ogni cosa” (p.95).
Sono di nuovo le esperienze dell’umano a essere descritte, ad essere l’oggetto della riflessione poetico-filosofica di Ruffilli che non teme di mettersi in gioco con questa scrittura attenta, sorvegliata, lucida e perfettamente costruita coerentemente per la sua poetica. Anzi, si potrebbe dire che la poetica è, per certi versi, la parola stessa, mai straniante, evasiva, sempre attenta e calibrata. L’istinto filosofico e lirico insieme, la visione pacata, ma tagliente, l’emozione mai esibita e la saggezza mai pedante caratterizzano questa sezione della raccolta.

…..E arriviamo alla sezione eponima della raccolta. Prima ho parlato di “punto di vista”. Qui lo sguardo del poeta va finalmente sulle cose stesse:dall’uomo, universo di emozioni, relazioni, dubbi, esperienze, passiamo alle cose.
Ho detto “punto di vista” perché in questa sezione mi pare emerga una connessione con territori narrativi e poetici che rinviano, da un lato a Italo Calvino e, dall’altro lato a Francis Ponge. La poesia di Ruffilli si mette al servizio dell’osservazione, della descrizione come forma letteraria e poetica capace di cogliere l’essenziale, il lato oscuro della realtà che emerge proprio a partire dal lato apparentemente più chiaro. L’osservazione calviniana (si pensi al romanzo Palomar) non è mai fredda didascalia del mondo, ma è una porta d’accesso per abissi di senso inediti e sorprendenti. Questo vale anche per Ponge, che ci propose una poesia asciutta, antiretorica, ma profondamente evocativa nella sua oggettività paradossale, così ricca di voli metaforici.
Non so se Ruffilli avesse in mente Calvino e Ponge, ma certamente qui il focus, ora spostato sui temi del vivere umano, riesce a mostrare come l’intento filosofico del poeta si nutra proprio di questa scelta epistemologica: quella di partire appunto dall’osservazione che genera riflessione, in una sorta di dialogo aperto con sé stessi e con il lettore. Di fatto il soggetto poetante scompare, come in un romanzo di Perec, l’autore si nasconde mettendo in primo piano gli oggetti. Scompare apparentemente, perché una poesia senza poeta è difficile che possa esistere.
L’oggettività della poesia di Ruffilli rinvia, in verità a mio modo di vedere, allo sguardo del poeta che cerca di essere tutt’uno con pensiero razionale “definitorio” inaugurando una nuova forma di soggettività, non più invadente e dilagante, ma sommessa, morbida, affabulatoria, cordiale. E ciò è tanto più importante proprio nel momento in cui le cose del mondo divengono la piattaforma su cui erigere riflessioni anche inquiete, pensieri scuri. I toni abbassati non rendono meno pregnante il messaggio, anzi sembrano amplificarlo proprio per la semplicità disarmante del dire poetico, sorretto da discrete figure retoriche, da rime ponderate, enjambement efficaci.

…..Le persone muoiono e restano le cose/solide e impassibili nelle loro pose/ nel loro ingombro stabile…” (p.105). Il viaggio allora prosegue nel mondo delle cose e in una sorta di nuovo materialismo fenomenologico: anelli, armadi, astucci, bambole, barche, bicchieri, calze, cappelli… sono chiamati, in rigoroso ordine alfabetico, a raccolta dal poeta in un vocabolario (è anche il titolo dell’ultima poesia della sezione) che descrive, come in un trattato medioevale nominalista, il mondo stesso. La poesia di Ruffilli è apparentemente “distaccata” , antipoetica, ma non è così: è come se il poeta ci dicesse “vieni che ti faccio vedere qualcosa di bello che non hai mai visto…”.
Il sapiente impasto e scambio tra emozioni e riflessioni, di immagini culturali e personali, il tono persuasivo dei testi, la fiducia nella musicalità dei versi, fanno si che l’invito venga accettato senza riserve. Ogni oggetto è sé stesso e al tempo stesso imago, specchio dell’esistenza umana che in esso ritrova brandelli di memoria, topoi culturali, stereotipi, spunti di saggezza, ironia e citazioni letterarie, il tutto espresso ora con toni meditativi ora toni divertiti, oppure in forma di “esercizio di stile” (alla Queneau) o persino come una sorta di indovinello.

…..Sempre sul piano stilistico incontriamo molta aggettivazione e molta “narratività” , ma Ruffilli è sempre elegantemente lirico quanto basta a non confondere la sua poesia con la prosa. Inoltre, lo sforzo definitorio dell’osservazione e la ricerca di un’aderenza della poesia al proprio oggetto (come se il poetico dovesse emergere dall’oggetto e non calarsi su di esso) fa sì che il lessico, lungi dal ruotare attorno ad un ristretto parco di lemmi, è invece molto vario e ricco,

…..Questa scelta poetica e questa varietà lessicale, la ritroviamo coerente anche nella sezione “Atlante anatomico” dove si passano in rassegna le parti del corpo. Geografia del corpo, spazio troppo vicino, anzi che abbiamo addosso, e quindi difficile da vedere, per farlo divenire oggetto di poesia, spazio da esplorare con la parola. Eppure il corpo è il modus di presentarsi nostro e degli altri. Il poeta allora ruota lo sguardo sul confine più intimo e primario, il corpo-oggetto in un selfie inatteso che diventa “universale”, condiviso. L’approccio descrittivo rende poetico l’usuale, persino ciò che potrebbe essere volgare.
Non si può non pensare ancora alla scrittura definitoria, benché sublimata, del movimento letterario dell’Oulipò. Di nuovo in ordine alfabetico (quest’ossessione dell’ordine non è solo di comodo, ma un preciso messaggio epistemologico-poetico): ascelle, bocca, capelli, caviglia e così via sino a ventre, vulva, passando per cuore e pene. “Ogni parte del corpo chiede di essere /stanata e nominandola scaldata/sottratta al vuoto, ripresa e rianimata:/ il collo, le caviglie, il tenero che sta/ sotto le braccia, la curva della schiena … è con il nome nel suo stesso pronunciarlo/ che il desiderio riesce a concretarsi/ sospinto con foga sulla pelle …”. (p.170).
Poetare sull’invisibile-visibile del corpo in un nominalismo della lingua che salvi la poesia dalle secche del banale, affrontarlo, farlo nostro sino in fondo.

…..Questa fiducia nella lingua è la cifra finale della raccolta. “Lingua di fuoco” è la sezione che la chiude, emblematicamente aprendo a nuovi mondi, interrogando il mondo da un altro punto di vista: “L’universo, a diversi gradi di verbalizzazione,/ è costruzione simbolica del nome” (p.171). Così leggiamo in esergo della sezione stessa. Dal corpo, dunque, alla parola, figlia del suono che rende possibile la poesia stessa e il cerchio sembra chiudersi:
“… esonda la parola/lingua di fuoco a rompere il silenzio/ e pronunciare netto al mondo/ ciò che aspetta ancora nell’assenza,/ ciò che fluttua nell’andare più indistinto” (p. 173) E’ questo il compito della parola: dare forma all’indistinto, all’assente dove esistono e vivono “cose” , anche certo senza di noi, ma che riemergono alla luce, tra suggestioni dantesche, grazie alla parola, espressione propriamente “umana”. In questo modo Ruffilli ci conduce in un certo senso nella sua officina poetica, ci mostra alcuni aspetti della sua concezione del rapporto tra il poeta, la lingua e le cose.

…..Ecco che di colpo riesco a dare/corpo all’ombra, si stacca la parola/dal groviglio e dà forma al fantasma/” …. “E’ dalla melma primordiale … che si erge fuori i soffio/e che si accende il clic leggero/dal più profondo della parola”…”Ha filamenti lunghi la parola,/radiche chiare e barbe nere/ che pescano nell’utero del tempo”…”Poche semplici uniche parole/solo strettamente necessarie/ secche scorticate nel loro lividore”…”l’enigma si disvela nel linguaggio:/ le cose vive hanno radici lunghe/ che pescano sempre nelle cose morte/”…”Le parole sciolte via dal laccio/… senza preavviso emergono in un soffio/ a rivelare…/la loro visionaria immaginosa verità”….”E’ dal silenzio che viene la chiamata”… (da p. 174 a pag.187)

…..La sezione si chiude con nove testi raccolti sotto il titolo “Interrogativi” (p.189): in realtà il cerchio non si chiude e la poesia rilancia il suo infinito instancabile domandare, il suo necessario desiderio di senso che, come abbiamo visto, può celarsi proprio negli oggetti più semplici, più inappariscenti. Nove poesie tutte chiuse da un verso interrogativo che apre a nuovi destini, ad altri mondi possibili, territorio da esplorare con la lanterna del linguaggio. “qual è il colore/ che più tace/ nell’urlo del silenzio?” … “Oltre l’inganno/ e l’apparenza,/… come riuscire infine/ a ricomporre il taglio?”… “E’ la luce che /leggera ma puntuta/ … s’intoppa gonfia/ e resta muta?”… “Il vecchio si fa nuovo/ un’altra volta/ nei segni dell’ordito/ composto sulla tela?”…

…..Questi alcuni dei versi tratti dai testi di questa micro-silloge inserita come coda finale della raccolta. Domande solo apparentemente metafisiche che rinviano ad una dialettica dell’esistere e del conoscere che è uno dei motori della poesia di Ruffilli che chiude la raccolta scrivendo: “Il nominare chiama e, sì,/ chiamando ecco che avvicina, /invita ciò che chiama a farsi essenza/ convocandolo a sé nella presenza…parla nel suo scontrarsi per domarla/con la resistenza delle cose” (p.198).

…..La poesia infine si fa riflessione sul fare poesia, poesia che pur affidandosi al mondo, non dimentica che cosa è, la sua natura: sforzo necessario di dare senso al caos, senza annullarlo, senza mai dimenticarlo.

…..Stefano Vitale

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Le cose

Le persone muoiono e restano le cose
solide e impassibili nelle loro pose
nel loro ingombro stabile che pare
non soffrire affatto contrazione dentro casa
perché nell’occuparlo non cedono lo spazio
vaganti come mine, ma nel lungo andare
il tempo le consuma senza strazio
solo che necessita di molto per disfarle
e farne pezzi e polvere, alla fine.

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Eccolo, il nome della cosa:
l’oggetto della mente
che è rimasto preso e imprigionato
appeso nei suoi stessi uncini
disteso in sogno, più e più inseguito
perduto dopo averlo conquistato
e giù disceso sciolto e ricomposto
rianimato dalla sua corrosa forma e
riprecipitato nell’imbuto dell’immaginato.

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…..Note sull’Autore
Paolo Ruffilli (Rieti 1949) è presente nelle maggiori antologie degli ultimi decenni. Tra i suoi libri di poesia: Piccola colazione (1987), Diario di Normandia (1990), Camera oscura (1992), Nuvole (1995), La gioia e il lutto (2001), Le stanze del cielo (2008), Affari di cuore (2011), Natura morta (2012), Variazioni sul tema(2014).
Traduttore e curatore di classici italiani e inglesi, è anche autore di narrativa e saggistica.
Il suo sito è
 www.paoloruffilli.it

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