“L’ULTIMA MADRE” di ROBERTO BERTOLDO
Ed. Mimesis / La vita di Sophia

 

La politica odierna vista come una forma di matricidio. Il mito di Clitennestra rivisitato alla luce di un movimento politico impossibilitato ad agire.

“I nostri tiranni non uccidono mai apertamente i loro congiunti; rarissimamente versano senza necessità il sangue dei sudditi, e ciò non fanno se non sotto il manto della giustizia: ma anche i tiranni nostri se ne muoiono in letto”
Alfieri, Della tirannide

@@@

“RIFONDAZIONE DELLO SCETTICISMO” di Roberto Bertoldo
Ed. Mimesis / Sisifo

 

L’ipotesi deduttiva dell’Essere come Spazio e Possibilità e l’ipotesi induttiva del materialismo ontologico s’incontrano qui in una originale riqualificazione dello scetticismo integrale tra la verità logica del cogito e la verità metafisica del possibile

Tra metafisica e politica nel dramma del definirsi della forma umana
Nota in margine a un romanzo utopico e a un libello filosofico di
Roberto Bertoldo

In questi giorni è in corso un grande esperimento sociologico politico a cielo aperto, che ha per protagoniste due astrazioni simboliche culturali individuate dai vocaboli Spagna e Catalogna, nelle quali si ricapitolano alcune centinaia d’anni di storia politica di una parte della penisola iberica, diventati il presente modo di pensarsi politicamente di alcune decine di milioni di individui, che argomentano circa il diritto di una parte del loro agglomerato di enuclearsi in una soggettività politica autonoma, staccandosi dallo stato spagnolo e istituendosi come stato catalano. Noi non entreremo nel merito della questione: se 35-38 milioni di individui che si sentono soggettivamente spagnoli, in nome di questa soggettività loro culturale politica abbiano il diritto di vietare a 10-12 milioni di loro concittadini, che invece si sentono soggettivamente catalani, in nome della forza del numero e dello status quo, il diritto a questa loro minoranza di viversi politicamente come entità statale di nome Catalogna.

Quello che qui ci preme sottolineare è invece che la forma fenomenica post naturale patria, del tutto astratta culturale simbolica causante una impressionante serie storica di conflitto tra due o più grandi gruppi umani, nel trasformarsi in conflitto ritorna al suo fondamento naturale; solo nel quale e per il quale troverà concretezza dirimente: la vittoria del più forte; ma che poi soprattutto nella vittoria cercherà di rifiutare la fondazione nella forza della propria vittoria, per celebrarla invece con le più cervellotiche astrazioni simboliche culturali, chiamando in causa categorie quali il diritto, la civiltà, dio, la patria; retoriche ampollosità mitico culturali usate come quinte di occultamento della vera ragione della vittoria: la forza naturale. Dunque fuga dal e rifiuto del fondamento naturale, ma fuga culturale che non è solo dei grandi agglomerati politici. La ritroviamo anche in quella sfera fondativa della vita che è la relazione sessuale, ridotta nel suo accadere ad episodio appartato: quasi secretato per i velami oscuranti di quel grande dispiegamento che è l’amore, entro il quale il sesso si trascende in eros, e l’eros in abbandono mistico religioso, ma per tornare poi alla più bassa naturalità con le varie repressioni religiose, e quindi culturali, del sesso. Repressione sessuale dove si fondano tutte le posteriori repressioni, fino alla repressione per eccellenza: la repressione della comunicazione del pensato individuale, ma che è solo la risultante delle antecedenti repressioni sessuale economica e politica.

Che cosa determina in tutte le culture l’occultamento del fondamento naturale nei suoi vari aspetti psichici entro velami metaforici linguistici organizzati in coerenti modelli culturali, ma che poi entrano in contrasto tra loro, nella risoluzione del contrasto tornando al fondamento naturale: la forza, come descrive oggi il contrasto culturale tra madrileni e catalani, o nel più arcaico mondo islamico tra sunniti e sciiti?

È questo anche lo spazio di indagine e la non minore ragione motivante i due testi editi nel trascorrente anno da Roberto Bertoldo: il romanzo politico utopico ‘L’ultima madre’ ed. Mimesis pp 122 € 12,00 – e il pamphlet filosofico, scritto prevalentemente in forma epigrammatica ‘Rifondazione dello scetticismo’ ed Mimesis pp 94 € 7,00 – il cui elemento accomunante è di affondare le loro radici e di trarre i loro materiali mitico linguistici da quella cultura sorta nel mondo spirituale della polis greca, a dare risposta alle angoscianti domande insorte dal crollo delle strutture spirituali arcaiche del popolo greco di allora, ed espresse per noi dal racconto omerico. E queste risposte omeriche continueranno ancora a lungo a improntare l’ethos collettivo ellenico, come si rispecchia nell’Alessandro che intraprende la conquista dell’Asia immaginandosi novello Achille; mentre la decomposizione religiosa del mondo olimpico era già stata avviata dai culti misterici orfici, e si concluderà con la stabilizzazione egemonica di uno di questi: il cristianesimo.

Ma se il cristianesimo eredita, trasformandola in teologia monoteista, la religiosità politeista-panteista dell’ecumene ellenica, culturalmente Roma un minore dettaglio, lo stesso Cristianesimo è però costretto a conformarsi, nella sua dimensione sapienziale didattica, alla nuova cultura metafisica elaborata dalla polis greca tra VII e III secolo a.C.; pensiero che fino a tutto il XVIII secolo inoltrato ha governato tanto i modelli scientifici che quelli metafisici della cultura occidentale. E questi linguaggi sono ancora il nostro modo di rappresentarci ci dice la scrittura di Roberto Bertoldo; il nostro presente descrivibile ancora entro le categorie e gli strumenti di conoscenza elaborati in quella straordinaria stagione.

Nei modelli del pensiero greco classico per Roberto Bertoldo è presente la possibilità di spiegare le dinamiche delle opposizioni culturali; premessa per poterle depotenziare, distaccandole dal loro fondamento sensibile sentimentale pratico naturale. Detto altrimenti, impedire la legittimazione culturale dell’impiego della forza fisica attraverso una lacerazione nella relazione tra la base naturale e le sue descrizioni mitico-linguistiche; possibile nell’ecumene ellenica per una mossa decisiva: la desacralizzazione della relazione politica e sua ricollocazione entro le mura della città, ovvero sotto il controllo di tutta la comunità dei cittadini, per cui la repressione passa dal sacro alla norma giuridica, e la gestione della repressione da uomini segnati dal sacro a uomini investiti di magistrature transitorie da parte della comunità.

Questa complessa operazione, per la quale prende forma la nostra presente idea di politica, si realizza come prassi nel corso di quei secoli che vanno dall’opera di legislatori quali Caronda, Solone, Epimenide …, figure tra il mito e la storia, e la vittoria della Macedonia di Filippo, passando per la catastrofe della guerra del Peloponneso, nella quale la civiltà greca si autodistrugge fisicamente. Ma da questa distruzione fisica lo spirito greco sviluppa quella riflessione sulla e dentro la catastrofe, che resta a oggi, come ci confermano i due felici libri di Roberto Bertoldo, lo strumento di autodifesa del nostro universo culturale dall’abisso della forza come strumento di repressione della libertà tanto nello spazio politico pubblico che psichico privato individuale.

La desacralizzazione dello spazio pubblico, come ci dice il processo delle Erme alla vigilia della spedizione militare ateniese contro Siracusa, trama politica aristocratica a liquidare la democrazia, l’attacco ad Alcibiade solo una mossa tattica, – la risposta della democrazia con il processo a Socrate – fu un processo lungo e complesso, ragionato e dibattuto, un cui cospicuo momento di analisi: l’Oresta di Eschilo; che Roberto Bertoldo assume come struttura archetipica di quel momento nel quale si realizza in ambito culturale molto più che la possibilità di spiegare il trascendere delle opposizioni culturali in conflitti naturali. Nell’Orestea Eschilo elabora gli strumenti per impedire il transito, entro una comunità: il tragico trapasso da una dialettica linguistica interna a un sistema di relazioni umane a un uso dei miti culturali come legittimazione del ritorno alla pura forza fisica repressiva. Detto in concreto, impedire l’esplodere della peggiore e più crudele delle guerre: la guerra civile, nel cui ambito la cultura si degrada strumentalmente a legittimazione della violenza naturale.

Questo è il grande tema del’Orestea di Eschilo: come trattenere il conflitto politico entro l’ambito della parola, bloccando l’emergere nel conflitto culturale del lacerante fondamento naturale, che l’ordine politico delle regalità sacre non riusciva a impedire, come si individua tanto nel ciclo tebano che nella sventurata vicenda degli Atridi. E che il problema sia qui: come trattenere il conflitto politico nell’ambito della dialettica verbale, lo conferma nell’oggi il conflitto catalano/castigliano. E ad esplorare il motore agente nella politica Roberto Bertoldo recupera il grande mito tragico degli Atridi, al cui centro sta la decisione di Clitemnestra di uccidere il marito Agamennone; il suo omicidio è la risposta alla decisione di Agamennone di immolare la loro figlia Ifigenia in un sacrificio cruento, ad assicurare la benevolenza degli dèi verso l’armata che deve salpare per Troia. Non è dunque in Eschilo l’eros nuziale ma l’eros della madre ferita, che spinge la regina alla relazione con Egisto: una ragione politica culturale e non erotica, ma entro la quale parla una nuda affermazione della forza, che può esplodere in guerra civile. L’ordine sacro: l’ordine dei re, si svolge intorno a questa incombente minaccia di caduta nella guerra civile, poi polarizzata come lotta tra il principio del bene (che si incarnerà poi nel vincitore e la sua parte) e del male (che si incarnerà nel perdente e li seguaci sui). Come uscire da questa dialettica politica verso una società che gestisca le proprie tensioni interne attraverso una cultura politica di pacificazione?

La strategia della polis ellenica, come delle polis ellenizzanti mediterranee, sarà di riassorbire tutta la politica e come pensiero e come azione nel demos in forma di assemblea. È questo il senso dell’azione dei grandi riformatori, tra Solone ed Efialte, che diventa riflessione entro il ciclo tragico dell’Orestea; il cui senso è raccontare il transito della identità politica: il passaggio dell’esercizio del potere dalle consorterie nobiliari eredi della visione regale omerica al popolo riunito in assemblea, ma che si vive ancora: fonda la sua capacità di mediazione entro il sacro religioso olimpico, come nell’Orestea si individua intorno alla risolutiva apparizione della dea vergine Atena, il cui intervento placa le furie della madre e riconsegna all’esistere civile il matricida Oreste. Prende così forma un nuovo tipo di civiltà, non più fondato sulla mediazione politica regale tra umanità e dèi, funzione solo rinunciando alla quale Oreste recupera la propria identità purificata dalla colpa: solo abiurando al proprio ruolo aristocratico e facendosi frammento di popolo.

In ragione di questo passaggio decisivo, nell’Orestea emerge a protagonista una nuova astrazione culturale, che dominerà tutta la nostra posteriore scena politica: il popolo; qui non più una marginalità amorfa, come si coglie nell’universo omerico, ma il depositario ultimo e dirimente dei desini della comunità.

L‘Orestea crea l’astrazione culturale popolo, la consegna alla tradizione occidentale; ne istituisce il mitologema politico fondativo, come ci conferma anche ‘L’ultima madre’, romanzo nel quale Roberto Bertoldo analizza l’azione politica usando, come già Eschilo, la struttura, e quindi la macchina narrativa mitico simbolica della vicenda degli Atridi, nel suo momento conclusivo: come si ricapitola intorno alla figura di Oreste. E come Eschilo ambienta la vicenda mitica degli Atridi nella sua Grecia, così Roberto Bertoldo la ambiente nell’Italia contemporanea, Agamennone il capo politico del partito egemone:

“Sono a tavola. La domestica entra con un vassoio. Foglie di luce si proiettano dalle applique. Il tavolo è rettangolare. Agamennone e Clitemnestra capi tavola, Elettra, Ifigenia, Oreste e l’amico, nonché cugino, Pilade ai lati. – L’ultima madre, pg 18”

Gli attori sulla scena sono quindi tutti quelli del mito, la macchina narrativa la stessa, ma con una decisiva variante: nel racconto di Roberto Bertoldo Ifigenia è viva e attiva, anche se sacrificata anche qui alla politica dall’ambizione del padre. Avrebbe voluto dedicarsi alla professione medica, ma il genitore le ha imposto di lavorare nella comunicazione, a governare e sorvegliare quel vitale campo per l’azione politica che è la manipolazione dell’informazione, a costruire una opinione pubblica favorevole ai detentori del potere politico; che in quanto prigionieri del mito eschileo del popolo possono governare solo per quanto ottengono il consenso popolare. Quando violano il punto, conoscono la implacabile gogna, nell’ambito della politica occidentale laica toccata ai Mussolini agli Hitler, agli Stalin, che infatti, e come loro tutti gli altri politici esterni al consenso popolare, portati a cercare di legittimarsi attraverso una qualche forma di sacro.

Ecco perché anche nel racconto di Bertoldo il mito del popolo: il grande mito fondativo dell’Orestea, resta in modo determinante al centro del pensarsi come attori politici di tutti i protagonisti della vicenda, ma dalla coscienza di essere dentro la malia di un grande mito, del quale nella propria azione si cerca la conferma. E soprattutto quando si viola la legge fondativa della convivenza civile: non uccidere. Non uccidere neanche nella forma legittima sacrificale dell’antecedente ordine politico, per cui nella politica laica l’omicidio come azione politica non ha espiazione: il popolo non accetta, ha insegnato Eschilo, l’offerta sacrificale, fosse pur l’ostia espiatoria un tiranno. Ecco perché nell’Orestea di Bertoldo il protagonista per primo dubita della legittimità del proprio atto: l’uccisione del tiranno. Ecco ancora perché nel racconto di Roberto Bertoldo Oreste non uccide deliberatamente sua madre, ma è Clitemnestra che cerca di salvare Egisto dal colpo di pistola del figlio, interponendosi fisicamente e votandosi alla morte. Detto nelle categorie del nostro diritto, il matricidio di Oreste è qui preterintenzionale e non di primo grado, come nell’Orestea di Eschilo, ma per una ragione ben precisa: nell’universo spirituale di Bertoldo non esiste, a differenza che in quello di Eschilo, una dimensione sacra capace di assolvere l’attore del matricidio; in quanto la dimensione del sacro pregnante e attiva in Eschilo, in Roberto Bertoldo si è dissolta, ma non per lasciare spazio a un vuoto. E infatti Roberto Bertoldo si è impegnato in una lunga e complessa riflessione contro il nichilismo, come si individua tanto nel suo testo d’esordio in ambito metafisico:Nullismo e letteratura (1998 1a ed.) che nel più recente “La profondità della letteratura” (2016), nei quali afferma la funzione spirituale esemplare della scrittura d’invenzione: il suo ruolo centrale nella produzione di una coscienza umana. Ma la letteratura è racconto del mondo fenomenico: delle sue ansie ed aneliti, che si muove per intuizioni esemplari, ma che tutte rimandano alle cause prime: che guidano, ma restano esterne all’azione, come appunto la Atena di Eschilo, o il grande mito cristologico nel poema dantesco; rispetto ai cui motori immobili Bertoldo si trova in una posizione di totale negazione. Egli vive in quella condizione di spiritualità post illuminista nella quale si trovò già la cultura greca quando elaborò la coscienza della morte degli dèi olimpici, che noi oggi troviamo tramandata ed esemplificata nel grandioso racconto, collocato cronologicamente nel primo secolo a.C, di quel capitano di nave che, navigando tra Cipro e Sidone, sentì nel silenzio notturno levarsi il tragico immane grido: “Il grande Pan è morto”, nel quale si compendia la coscienza ellenica sorta dalle guerre del Peloponneso: l’antico Olimpo era ormai vuoto.

Contro quel drammatico nulla: la morte della religione, il mondo antico ha reagito rifugiandosi in una particolare rivisitazione del mito monoteista: il cristianesimo, intorno al quale, alla cui dimensione spirituale, si sono ricostruiti prima l’impero romano e poi il medio evo europeo, ma l’eco di quel grido: “Il grande Pan è morto”, per quanto il cristianesimo si sia sforzato di cancellarlo, farlo dimenticare, anche accogliendo nella e sviluppando la propria teologia lungo l’asse della metafisica platoniana, ha continuato a risuonare nella coscienza simbolica culturale occidentale, per quanto ha preservato in sé dell’eredità ellenica. E infatti il più greco dei pensatori europei: Nietzsche, ha ripreso quel grido e lo ha assolutizzato: non il grande Pan, ma dio è morto, egli però sentendo la morte di dio come la vera nascita dell’uomo.

Se la morte di dio pone l’uomo in modo del tutto nuovo e diverso davanti al proprio esistere, ogni uomo che formalizza come coscienza l’intuizione della morte di dio trasferisce nel proprio esistente la coscienza che quella morte, che lo pone davanti alla coscienza della propria morte da una prospettiva totalmente nichilista. Ergo, ad evitare l’auto annientamento, deve ripensarsi: risalire alle proprie origini, che sono origini recuperabili eminentemente per penetrazioni linguistiche introspettive, tanto più raffinate quanto più si approfondisce il paesaggio delle origini, verso quella esplorazione del fondamento naturale dal quale ha preso forma la scienza, ma soprattutto il suo metodo: il corretto pensare.

Da questa esigenza di opposizione al nichilismo nasce anche l’aureo libello filosofico di Roberto Bertoldo “Rifondazione dello scetticismo”, al centro del quale l’autore pone l’affermazione cartesiana “Cogito ergo sum”, che rovescia il “sum” della soggettività, la possibilità del suo esistere, e quindi della stessa ontologia come scienza del soggetto, liquidata da Kant, nel “cogito”: primato del pensare, fatto antecedente, per il quale prende forma l’essere eleatico, con il quale principia tutta la metafisica occidentale. Ma un essere non meno minacciato da nullificazione dell’essere divino della trascendenza religiosa, da dove la puntigliosa precisazione di Roberto Bertoldo:

“Nella mia visione filosofica sono metafisici tanto il mondo ontologico (metafisica dell’infinito), tanto quello fenomenico (metafisica del tutto), che quello trascendente (metafisica della totalità) – Rifondazione dello scetticismo, pg 18”

Ma il sum per non restare pura sensibilità fisica naturale deve trascendersi cartesianamente nella coscienza che gli viene dal cogito, in quanto è dal depositarsi e sedimentarsi spirituale dell’elaborarsi umano del cogito che prende forma l’universo mitico simbolico che definisce l’ente umano come spirito. Ma questo cogito deve realizzarsi, nella metafisica di Bertoldo, entro modalità tecniche di un buon pensare – e qui Betoldo si riconnette a Popper, e alla linguistica più attenta, a discendere dai formalisti. Entro questa prospettiva Roberto Bertoldo, nel suo felice libello ritorna a una istanza speculativa sorta: che aveva preso forma, accanto a stoicismo ed epicureismo, nell’Ellade della crisi dell’ontologia platonica: lo scetticismo, in margine alla cui dottrina acutamente annota:

“3.Il fatto di negare la verità di sé stesso e di mantenere anche questa negazione nella sfera delle probabilità, per ciò che concerne l’accertamento fenomenico, e nella sfera delle ipotesi, per ciò che riguarda la verità ontologica, fa dello scetticismo l’emblema dell’onestà. Il metodo scettico, negando sé stesso, si conferma; non entra quindi, come molti invece hanno sostenuto, in contraddizione. – op cit, pg 19”; per poi precisare in: “3.6.1. Lo scettico sa che deve fare i conti con le proprie certezze e costruire su di esse la propria quotidianità, per questo le affronta criticamente nel loro buco senza fondo. – op cit pg 27” e ancora: “10.Non c’è differenza tra certezza soggettiva e certezza oggettiva, ma piuttosto tra certezza naturale (empirico scientifica) e certezza filosofica (logico-deduttiva e induttivo-universale), la quale può risultare verità induttiva (ipotetica) – op cit pg 41” E così procedendo di aforisma in aforisma fino alla bella, orgogliosa conclusione: “Con questo libello, nel quale ho ridato forza allo scetticismo: alla sua concretezza, accresco il numero dei miei nemici, ma ben felice di constatare che essi appartengono soprattutto alla classe dominante, che sulle fedi ideologiche costruisce e mantiene il proprio potere. – op cit pg 92”

La felice chiusa del pamphlet filosofico ci illumina anche sul senso del romanzo di Bertoldo: indagare su quella: “classe dominante, che sulle fedi ideologiche costruisce e mantiene il proprio potere.” Da questa comprensione, andiamo ora alla chiusa del romanzo di Bertoldo:

Pilade non ha mai parlato così a lungo. Sembra sopraffatto dalle sue stesse parole. Si sente libero finalmente, libero di amare anche ciò che non lo merita, come quel popolo voltagabbana, disonesto, mediocre, che si trincera dietro alla povertà.
Oreste sa cosa intende l’amico, ma deve rimproverarlo, se non vuole che si rassegni: “C’è anche la violenza che tappa la bocca o infama. Quella che concede libertà di parola priva di ascolto, la violenza della demagogia. Di questa violenza non parli? Non sono le mani, neppure se armate, l’organo più cattivo dell’uomo.”
“Hai ragione Oreste. C’è una mafia mondiale che vuole dare un nuovo ordine a questa violenza, lo so. E una rivoluzione deve combattere contro tutto, anche contro sé stessa. Ma presto sarò padre, e tua sorella Elettra sarà madre. E non sarà l’ultima madre, nonostante tutto. Presto saremo un esempio per i nostri figli e nipoti. Forse da questo: dalla famiglia può iniziare il ripristino del mondo.
Oreste resta di stucco, non ha più sentito le ultime parole di Pilade. Guarda Elena che sarà sposa e mamma e non sa se gioire o piangere. La vita prosegue anche senza lui. Ha governato la famiglia dopo la morte del papà, l’ha coltivata per la vendetta, ma infine l’amore ha fatto breccia in quella sorda ostilità: “È una bella notizia.”, mormora. Ha gli occhi lucidi, un velo lacrimoso: “Vieni qui sorella, madre!”

In Eschilo Oreste è purificata dalla dea nell’ambito del consesso dell’aeropago, ora chiamato a reggere la cosa pubblica, intorno al mito che nell’Orestea trova il suo fondamento: il popolo. Un popolo che nell’Orestea di Bertoldo svolge ancora il ruolo di mito fondativo della legittimazione del potere politico, ma che non riesce più ad ergersi a soggetto politico attivo agente. L’Oreste di Bertoldo è il racconto appassionato dell’azione eroica di Oreste, spinta fino all’omicidio politico, per evocare, ricondurre al centro della scena politica il suo soggetto simbolico: il popolo. Rifondare, contro la tirannide, sulla sua forza l’azione politica. La tragedia degli Atridi è la rivelazione della dimensione arcaica crudele agente nella lotta politica, reprimere la quale è possibile, insegna Eschilo solo se il popolo oppone la propria forza collettiva sopraffacente, ma nella versione di Bertoldo il popolo si ritrae dalla propria presenza corale sulla scena. Resta spettatore, aprendo quello spazio vuoto di potere nel quale può crescere ed affermarsi il potere del tiranno.

Già nella grande Atene della democrazia, proprio nella tragedia di Euripide e nella satira di Aristofane cogliamo i presagi di questa sopraffazione culturale del primato del popolo come luogo e categoria fondativa della legittimità politica, la cui dissoluzione si consumerà negli implacabili conflitti civili della Roma della fine della repubblica, che mentre esautora nello spazio politico il simbolo popolo, di necessità i suoi tiranni devono cercare una legittimazione trascendente. Sarà il cristianesimo, in ragione della sua possibilità di religione politica capace di sostituire al popolo dio come fonte di legittimazione del potere. Qui sta anche l’elemento che distingue la tragedia greca dalla tragedia moderna, entro la cui vis drammatica l’eroe non ha altro spazio e destino che il proprio, come magistralmente si esemplifica nello Shakespeare che racconta la storia come una notte di vento nella testa di un ubriaco. Questo è il paesaggio senza speranza della politica sotto il primato di dio, ma che in quanto dio d’amore non può essere mai presente nella storia, se non come osia sacrificale. Da qui l’affermazione di Eugenio Montale. “Ma lui non fu mai visto” Dio non è presente nella storia, da ben prima della tragedia del popolo ebraico sotto il nazismo. E questo perché la storia come spazio di riflessione, fin dai tempi di Tucidide ha rivelato la costante inadeguatezza dei miti culturali a controllare l’azione politica nelle sue dinamiche disumanizzanti, per cui soltanto se tutta la forza della comunità si applica al controllo della politica, la politica può essere dominata dall’uomo, essere asservita a una finalità umanizzante, come insegna Eschilo, che sulla sua tomba volle fosse ricordato come oplita a Maratona, ad affermare la sua azione nel popolo e come popolo, la sua produzione artistica soltanto l’effetto, la risultante di questa sua scelta culturale, che ne ha fatto l’Omero della democrazia.

Roberto Bertoldo, come oggi certi pellegrini a ritrovare un senso al loro esistere ripercorrono gli antichi percorsi di fede, in questa chiave ha ripercorso l’Orestea con grande perspicacia. Infatti anche il suo Oreste è agito dal rifiuto del leaderismo, coscienza convinta che l’azione politica o è azione collettivamente pensata e agita o si svolge come tirannide. Suscitare questa azione collettiva, costruendola a partire da una propria fazione agita da un programma democratico è il grande sforzo politico dell’Oreste di Bertoldo. Una determinazione spinta in Oreste fino al gesto tragico che lo trasforma in carnefici, il cui gesto però trasforma il tiranno in ostia sacrificale. Qui è il dramma insolubile dell’omicidio politico, che l’Oreste di Bertoldo esemplifica. Un omicidio doppio: del tiranno e della madre, politicamente fallimentare, perché la necessità dell’atto è del tutto estranea alla dinamica politica democratica, ergo non può emergere dal popolo; come anche conferma nelle rivoluzioni tra settecento e novecento l’isolamento e infine la sconfitta del terrore giacobino, la cui violenza, come in Oreste, è pensata come pedagogia per il popolo, ma che vi si sottrae, lasciando il politico giacobino solo davanti al proprio destino, che se destino individuale è caduta finale nella voragine dell’agire egotico psicologicamente e sociologicamente caduta nella tirannide. È il destini di Atreo e poi di Agamennone e poi di Egisto, che Oreste rifiuta, cercando di agire come parte del popolo. Questo realizza l’Oreste di Eschilo, ritraendosi alla fine dalla politica: cedendone il peso alla collettività. E questo è anche l’amaro passo ultimo dell’Oreste di Bertoldo, che però non individua il luogo simbolico popolo cui consegnare il ruolo politico egemone, per quanto lo abbia appassionatamente cercato, dalla propria volontà politica di giustizia portato alla condizione di solitudine egotica che trasforma l’uomo in tiranno, se prosegue nel proprio disegno politico personale, per realizzare il quale l’uomo che non agisce come elemento subordinato e integrato nella comunità è costretto a costruirsi un suo metapopolo, spesso in forma di armata militare, come descrivono tutte le tirannidi a partire da quella che ha distrutto il popolo nella città antica: Cesare. Ma l’Oreste di Bertoldo rifiuta questo destino, per cui non può che abdicare individualmente non alla speranza nella possibilità politica, ma nell’immediato all’agire politico. Ed è posizione per nulla paradossale, come ci dice il passo di Camillo di Cavour nel quale afferma che senza la rivoluzione popolare del ’48, che instaurò il parlamentarismo in Piemonte, egli non avrebbe mai accettato un ruolo politico. E similmente, fallito il disegno rivoluzionario, anche l’Oreste di Bertoldo sente di doversi ripensare come altro esistente, oltre il progetto politico. E verso quale direzione lo scorgiamo attraverso il libello filosofico di Bertoldo: un buon pensare si svolge solo sotto il primato della ragione naturale, per come si applica all’analisi della traduzione delle pulsioni psichiche in rappresentazioni linguistiche. E il Bertoldo narratore lo riconferma per la rivelazione di Pilade a Oreste: lui ed Elettra sono amanti e creatori di una nuova vita. Il tutto è accaduto sotto i suoi occhi, che non hanno visto perché presi dalla visione politica: “ ma infine l’amore ha fatto breccia in quella sorda ostilità …” constata Oreste. La phisis naturale ha guidato la vita verso il vero processo di umanizzazione, che se ha l’antefatto nell’amore della coppia, dove ogni volta scorgiamo con l’Oreste di Bertoldo rinasce il mondo, ha però la sua svolta decisiva nella maternità. La cultura della madre, il difficile equilibrio che la madre in quanto sposa e generatrice deve mantenere a reggere il mondo, è il transito dalla natura alla cultura. E lo insegna appunto l’Atena di Eschilo: che un popolo è possibile solo come popolo della madre; detto altrimenti, vita comunitaria che ha coscienza e quindi sorge dalla riflessione e celebrazione del proprio fondamento naturale, come si dispiega dal dare amoroso altruistico assoluto della Madre, senso ultimo e dirimente anche dei due testi di Roberto Bertoldo. Qui, in questo magistero del fondamento naturale il loro valore esemplare.

Da quanto fin qui ricostruito possiamo ora tornare alla questione individuata ad apertura di questo scritto: l’irruzione della phisis naturale come forza dirimente nei contrasti che prendono forma per il conflitto tra persone i cui modelli culturali entrando in contraddizione tra loro. L’antecedente conflittuale, ora è chiaro, non è nel fondamento naturale, ma nel suo uso strumentale, in ragione del mancato riconoscimento culturale di una comune umanità. Per questo percorso prendono forma le due dialettiche sociali anti umane tipicizzate politicamente dalle tirannidi:

l‘omicidio: negazione fisica dell’umanità dell’altro, che si istituzionalizza nella guerra: che appunto per questo non ha mai legittimità; e la cui forma culturale simbolica è il razzismo, dottrina che lede la stessa struttura logica naturale, fino a quella negazione totale del principio fondativo materno, come si afferma nello stupro

lo sfruttamento dell’altrui lavoro, come l’omicidio sempre azione politica perché, come insegna la coalizione che fonda lo stato schiavista, solo attraverso l’esercizio del potere politico una minoranza organizzata che gestisce la struttura stato riesce a sfruttare a proprio vantaggio una parte eccedente della produzione, attraverso una ripartizione ineguale, fino alla legittimazione dello sfruttamento capitalista, dove la rapina politica si occulta nella trappola finanziaria.

Esiste anche una ben individuata forma culturale di appropriazione dell’altrui lavoro: il furto, che può spingere fino all’omicidio e all’organizzazione di bande piratesche guerriere capaci di abissi di abiezione quali il colonialismo. Eppure anche dai visceri di società cadute, attraverso lo stato, nella catastrofe della istituzionalizzazione della guerra e della schiavitù emerge sempre una difesa del comune residuo umano: un insorgente richiamo universale alla comune umanità, come si coglie esemplarmente nel poema della forza: l’Iliade. Qui l’eroe acheo Diomede e l’eroe licio Glauco, quando si incontrano sotto le mura di Troia, prima di affrontarsi in un duello mortale, proprio per la loro sventurata condizione di guerriero, e quindi di essere votato alla morte, ad affermare anche nella violenza un residuo formale umanitario, si scambiano reciprocamente le genealogie, ma per scoprire che i destini delle loro stirpi si sono già intrecciate, stabilendo un patto di pace, per cui rinunciano al duello mortale ad evitare di disonorarsi reciprocamente. E la coscienza della natura disonorevole della guerra, per nulla paradossalmente percorre tutta l’Iliade, fino al culminante episodio umanistico del riscatto del cadavere di Ettore.

Nell’Iliade la guerra è l’inesplicabile, che accade per volere degli dèi, la dismisura che l’uomo saggio deve evitare, ma ne discende anche che l’Iliade è un grande atto d’accusa del divino. A salvare il sacro da tanta colpa sono sorte le grandi religioni di salvazione, ma al prezzo d’un regresso decisivo, rispetto all’etica politeista. Ora è il tradimento della legge religiosa la ragione del conflitto, la guerra sempre guerra contro il miscredente, perché egli ha tradito il suo fattore primo: si è posto contro dio, per cui la guerra diventa sempre la più feroce delle guerre: la guerra tra l’umano e il disumano: la guerra di religione, la più feroce e peggiore delle guerre, il cui esito inevitabile, come racconta il grande ciclo di guerre religiose europee, e prima ancora la grande guerra civile del Peloponneso, nota anche come guerra sacra, culmina con la morte di dio; ma che impone, come abbiamo visto con Nietzsche, una rinascita dell’umano, in quanto nella caduta nel baratro della catastrofe del conflitto religioso il sapiens sapiens scopre che solo esiliando dio dal mondo può uscire dalla trappola del conflitto religioso, come poi solo esiliando lo stato ammantato nel concetto di patria potrà liquidare la bellicizzazione del conflitto politico. Ma da dove può l’umano trarre la forza per uscire dalle trappole culturali religiose e politiche nelle quali è stato emotivamente catturato?

Racconta il mito che il buddha raggiunse l’illuminazione nella chiarezza magica d’una notte di luna piena, ma per quale meccanismo interiore naturale non è facile scorgerlo. Un possibile indizio è in una vertiginosa novella di Luigi Pirandello: “Ciaula scopre la luna”.

Ciaula, siamo a fine ‘800, è un povero adolescente del quale nessuno si è mai preso cura. Per sopravvivere fa il manovale in una solfatara. Qui il soprastante, per completare un ordine, vuol costringere i cavatori a lavorare tutta la notte. I cavatori si ribellano e se ne vanno. A scavare resta solo un vecchio minatore, troppo povero per poter rischiare d’essere licenziato, e con lui il suo aiutante, che porta in superficie dai visceri della miniera lo zolfo scavato. Ciaula trasporta il minerale in un sacco, il cui peso rende disperato il suo risalire verso la superficie, ma che è anche un risalire dal grembo tragico ma conosciuto della miniera al buio immenso e quindi pauroso della notte. L’adolescente procede quindi oppresso non solo da un peso fisico ma anche da uno psichico ancor più sopraffacente, in ragione della percezione nella propria coscienza dell’infinito annientante del buio notturno, verso il quale sale. Ma mentre risale verso la bocca del nulla Ciaula scorge che in quel temuto affacciarsi sul nulla si disegna un riflesso di luce:

Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiarità cresceva, cresceva sempre di più, come se il sole, che aveva pur visto tramontare, fosse ritornato.
Possibile?
Restò, appena sbucato all’aperto, sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose che si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciaula che in cielo ci fosse la luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna … C’era la Luna! La Luna!
E Ciaula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla gran dolcezza che sentiva nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore. – L. Pirandello, “Ciaula scopre la luna”, in Novelle per un anno

L‘illuminazione di Ciaula, come quella del buddha, come le innumeri altre illuminazioni nelle quali innumeri sapiens sapiens d’ambo i sessi, dice che il processo di umanizzazione è immanente nella nostra specie, e che solo l’errore culturale può impedirgli di prendere forma, per cui ad ogni generazione, contro e oltre gli errori della cultura e quanti ne restano prigionieri, riesplode in singoli individui spinti da un proprio moto interiore di ricerca al contatto, come Ciaula o il buddha, con il proprio fondamento naturale, realizzando così quella illuminazione che si offre agli individui della nostra specie per molti percorsi, tra l’illuminazione lunare solitaria e l’illuminazione erotica del cammino della madre, compito delle culturale facilitarne l’accadere, nella coscienza del costante rischio della caduta della vita sotto il governo di modelli simbolici capaci di mobilitare pulsioni aggressive dal fondamento naturale, come appunto l’egotismo politico, religioso, economico, erotico, spesso tutti compresenti, come nella pretesa della moltitudine imbarbarita di spagnoli che si oppone all’autodeterminazione catalana. Una caduta nella barbarie che può affondare fino alle follie delle fedi religiose assolutizzate nella più feroce delle guerre: la guerra che disconosce all’altro il comune fondamento umano, la guerra di religione monoteista.

Piero Flecchia

@@@

– Note sull’Autore
Roberto Bertoldo, è autore di libri di poesia e di saggi filosofici. Come narratore ha scritto vari romanzi fra i quali il dittico Il Lucifero di Wittenberg Anschluss (Asefi, Milano 1998), il trittico Van Blarenberghe – Il teorema di Gödel – Anche gli ebrei sono cattivi (Marsilio, Venezia 2002), Ladyboy (Mimesis, Milano 2009), L’infame: storia segreta del caso Calas (La Vita Felice, Milano 2010), Satio. La vera leggenda della fine del mondo (Achille e la Tartaruga, Torino 2015).

***

 

CONDIVIDI