Le “Poesie d’amore” di Macel Proust

Proust poeta e poeta d’amore è un concetto difficile da assimilare per noi lettori della Recherche, abituati alla logica ferrea, alla profondità emotiva e alla capacità descrittiva del suo autore, qualità in gran parte contrarie alla stessa idea estetica, riguardante il genere poetico, dichiarata da Proust.
Eppure Proust, che è stato forse lo scrittore del Novecento che più di tutti ha indagato l’erotismo in ogni sfumatura, ci ha lasciato alcune poesie che rendono onore a questo sentimento contorto e tremendamente vitale. Bisessuale o omosessuale che fosse, Proust ha saputo anche in poesia universalizzare l’amore e in questa selezione tematica si è cercato di evidenziarlo e di evidenziare, al contempo, la modernità lirica del Proust poeta.

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L’arco della poesia tra soggettività esplicata per l’eros della persona
e soggettività dissolta nell’eros dell’anima.
Una riflessione in margine all’opera poetica di Marcel Proust
e a una silloge di John Taylor

di Piero Flecchia

…..In una società sopraffatta dalla ridondanza dell’informazione, in ragione della sua forma estetica raffinata e della necessità di contenuti complessamente elaborati, la poesia trova sempre meno spazi nel mondo editoriale, anche perché la legge economica che recita la moneta cattiva scaccia la moneta buona non è meno vera in ambito estetico. Ha quindi un suo valore prezioso la bella collana di testi di poesia che da alcuni anni Roberto Bertoldo, – straordinario poligrafo, non solo originale pensatore in proprio, come documenta una alta produzione a tutto spettro tra la metafisica e la narrativa, intorno ad alcune felici sillogi poetiche – ha affiancato alla rivista letteraria Hebenon da lui fondata e diretta, facendone, tra gli anni ’90 del secolo scorso e gli inizi di questo, luogo di importanti approfondimenti conoscitivi in ambito estetico letterario.

La collana di poesia della rivista Hebenon, oggi diffusa dall’editore Mimesis, ha il raro pregio di offrire spazio, accanto a nuovi testi in lingua italiana, a puntuali antologie e sillogi che illuminano lo status della scrittura poetica oltre i confini nazionali. E questa attenta opera di approfondimento estetico è puntualmente riconfermata dai due ultimi testi della collana: M. Proust, Poesie d’amore, traduz. R. Bertoldo pp 90 ed. Mimesis Hebenon, € 10; J. Taylor, L’oscuro splendore, traduz. M. Morello, pp 90 ed. Mimesis Hebenon, € 10; le cui scritture si dislocano significativamente, assunta una metaforica rappresentazione della scrittura poetica come arco, ai due estremi. E che proprio per questo possono scagliare nel più alto cielo della commozione estetica il lettore che affronti una lettura parallela dei due testi, idealmente collocandosi come freccia al centro delle tensioni delle e tra le due scritture.

Introdotta da una illuminante prefazione del traduttore: “Proust, l’amore e la poesia”, la raccolta delle poesie di Marcel Proust, tutte composte tra adolescenza e prima gioventù, ha il raro pregio di illuminare, come forse nessun saggio critico potrebbe, le pulsioni profonde originarie che sono poi approdate in quel sommo capolavoro che è la ‘Recherche’. Questa silloge poetica è infatti l’elemento che permette di risalire alla e individuare la genesi della concretezza poetica della ‘Recherche’. Una concretezza che è già agente nella scrittura delle poesie proustiane, la cui centrale ragion d’essere: di tutte, è la sottile, penetrante ebbrezza che per l’occhio del soggetto che osserva, abbandonandosi alle pulsioni istintuali profonde, suscita l’incontro con il corpo altro: il tu sociologico come viene esplicandosi e per la sua propria nuda fisicità anatomica e per il combinarsi e illuminarsi cinetico della fisicità nell’intreccio di dinamismi mimico e fisiognomico con la parola.

L’emozione che il soggetto osservante raccoglie e deliba per la percezione dei suoi sensi ha però sempre un momento di dolore, anche nel più pieno abbandono appagante, in ragione della coscienza della distanza incolmabile: e anche perché solo imperfettamente esplicabile davanti alla coscienza – da qui anche poi la ragione profonda del fascino della silenziosa fondativa comunicazione pittorica – e quindi linguisticamente imperfettamente dicibile, che separa la soggettività osservante dalla soggettività osservata. Una separazione dolorosa accentuata dalla coscienza del tragico irrompere della dilacerazione del tempo tra l’attimo dell’eros del soggetto e la sua dissoluzione inevitabile nella coscienza di quel pieno attimo al trascorrere del tempo. Una complessa dinamicità sentimentale che ben si compendia ed esemplifica in questa strofa proustiana: “Lasciate piangere il mio cuore tra le vostre mani refrattarie, / il cielo scolorito fa appassire lentamente / il fiore dei vostri occhi chiari che quietamente / abbassa sul mio cuore le sue corolle affascinate.” (op. cit. pg. 43)

Cuore ferito dalla vita, Marcel non aveva, per permanere in quel moto di ebbrezza originaria propria dell’adolescente che si ubriaca di mondo, (in metafora: il fanciullino pascoliano) che due alternative: nel mondo concreto degli adulti la pedofilia, aut nel mondo letterario la sciamanica evocazione poetica di quel tempo ‘perduto’, eppure solo tempo vivo: vero, come appunto per l’evocazione di una scrittura magicamente alchemica Marcel ha saputo realizzare poi con la Recherche, il cui nucleo esplicativo esplode illuminante nelle sue poesie d’amore dell’adolescenza e della prima gioventù.

…..E il dolore indicibile della perdita della concretezza visiva originaria: della archetipica emozione erotica per la mediazione e la coscienza di una soggettività naturale esterna, permea e caratterizza anche la silloge poetica di John Taylor, ‘L’oscuro splendore’. È solo a partire dall’archetipo dell’allontanamento e quindi dall’estenuazione progressiva, fino alla coscienza del decadimento: fino allo smarrimento nel ricordo della visione originaria, che si comprende il senso che per la scrittura il poeta John Taylor persegue. Una scrittura che si svolge come difesa perdente dell’originario senso archetipico, dalla coscienza che l’archetipo metafisico può solo essere intravisto, in ragione delle brume oscuranti della vita, intorno a questa coscienza della forma della conoscenza orchestrando la stessa forma del discorso: la selezione del lessico e la sua riorganizzazione retorico sintattica. Un lessico teso a una evocazione che ricorda le suggestioni degli spogliati, essenzializzati paesaggi della pittura orientale.

La poesia di Taylor procede infatti lungo un processo creativo opposto: antitetico, rispetto al percorso proustiano, a discendere dalla coscienza che la separazione dalla visione originaria non solo, come in Proust sia incolmabile, ma anche indicibile. Da qui, la coscienza della frattura assume la forma d’una nostalgia evocativa costruita circuendo la visione originaria per l’uso della parola in forma di allusione musicale, rintocco nell’anima che affiora nel discorso solo come indicibile perdita. Ergo perdita dicibile solo per allusioni, come si coglie fin dall’incipit della raccolta: “avendo lasciato indietro / così tanto / tranne la tua prima e ultima / debolezza / persistente / come un cuore dimenticato …” (op. cit. pg. 7). O ancora: “ … / forse c’era / un disegno nella tua vita / ma queste tracce che stai fissando / non possono essere riorganizzate / in un cammino” (op. cit pg. 41).

Se in Proust l’opposizione tra il soggetto che osserva l’altro e si esplica attraverso l’osservazione dell’altro permane chiara, nella poesia di Taylor questa linea è stata dissolta, per cui il tu è ancora e sempre l’io che si specchia nella coscienza di essere a un tempo l’osservatore e l’osservato, verso quell’inghiottimento della vita nel soggetto trascendente che all’origine fu operato dalla metafisica eleatica, e che oggi è risalito alla quotidianità, in ragione di quella cultura dell’indistinto che caratterizza l’ente umano contemporaneo, come si decifra nella metafora della pittura informale. E una cui possibile rarefatta nebbiosa rappresentazione è appunto quella del John Taylor de ‘L’oscuro splendore’, resa in italiano da Marco Morello; che nel tradurre dall’americano il testo poetico ha significativamente attinto al proprio ambito di poesia: esercitata per la mediazione stilistica di quell’esotica e suggestiva forma di scrittura che è l’haiku giapponese, il cui anelito alla sintesi caratterizza appunto ed è la forza della traduzione italiana della silloge poetica di John Taylor.

P. F.

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