Ma conservare cosa? Una nota di TreAsterischi
(Edizioni Longanesi)  

L’autobiografia è una sottosezione di un ben preciso genere letterario: la biografia, racconto della vita d’una personalità d’azioni non necessariamente virtuose, ma comunque egrege: uscite dal gregge.
E fin qui siamo nell’ovvio, ma che è bene ribadire ad avere chiaro che chi scrive una autobiografia ha certamente di sé un concetto altisonante: è una persona con un grosso ego; cosa comunque non così rara. Ogni persona tende, per costituzione naturale, a un immaginarsi di grosso ego. Il discorso è poi se questo ego gli è riconosciuto: ovvero il mondo intorno, e una sua particolare sottosezione: i biografi, a farci l’affare in margine a una opinione comune, reputano tale ego egregio. E infatti sul pittore Carlo Carrà sono state scritte molte biografie, a confermare che l’autobiografia scritta, su commissione di Leo Longanesi, nel 1945, e poi rieditata più volte, anche nell’Universale Feltrinelli, era ben degna d’essere scritta.

Carrà fu attivo innovatore in una particolare sottosezione delle attività umane: la pittura, che, per esempio, in un paese islamicco l’avrebbe condotto drittodritto alla lapidazione per adulterio mentale al padreterno, nel gergo locale Allah, ma che nella storia italiana ha particolare rilevanza e come fatto estetico e come produzione di valore economico aggiunto. Ma nell’universo della porcopollilittica una identità geopolitica Italia, negli anni che vanno dalla caduta del fasssismo alla caduta del muro di Berlino, è esistita? Oggi esiste?
Ecco da quale domanda mi sono accinto alla lettura delle memorie del professor Sergio Romano, intelligente e chiaro editorialista prima de La Stampa, e poi del Corriere della Sera, autore di godibili pettegolezzi di storia contemporanea, nonché direttore d’una collana storica, per i tipi della Guanda, che ha il pregio d’aver riproposto due titoli di Gugliemo Ferrero, e soprattutto il fondamentale Giuseppe Marnini, Storia del potere in Italia 1848 – 67.

La verità ultima, ma sottesa e mai esplicata, del racconto dell’Ambasciatore è che l’Italia è già una realtà di assoluta anarchia, con una bizzarra superfetazione, effetto d’un residuo tradizionale: il pagamento delle tasse, intorno al quale campano alcuni milioni di italini; e mica male, stando al racconto romanesco. E però questa truffa, ignota alle moltitudini del polloppolo nostro italico, risulta non meno ignota al Nostro Ambasciatore Romano, almeno stando al racconto della sua vita diplomatica, del cui versante personale si impegna con il lettore a non fare parola.
Ha scelto di riferire ben altra vicenda: quella del porcomondo al tempo del grande duello tra l’impero del Male e gli USA; che però per il Nostro non sono l’impero del Bene senza se e ma. Forse perché, gran verità del condizionamento infantile, resta in lui il residuo del grido fassista, che bambino ha levato: dio stramaledica gli Anglosassoni; da dove poi una certa nostalgia per una vecchia Europa che sa alzare la voce, sa stare tra le due parti in una sua autonomia, come appunto De Gaulle espresse, voce autentica del continente. E però in questo disegno di spazio autonomo dalla spona italiana che cosa poteva il Nostro garbato narratore raccontare?
Per pagine e pagine nulla, ma infine qualcosa, dopo anni e anni di Professione nel niente che è la diplomazia italiana, giunto alla direzione della sezione Beni Culturali del Ministero degli Esteri, gli accade di reale.

Intorno agli anni 80 l’ambasciatore Romano si imbatte nella storia del grande cratere attico del IV secolo firmato da Eusitteo, il ceramista, ed Eufronio il pittore: due tra i massimio artisti dell’arte vascolare greca.
Scavato negli anni 70 in Toscana da nostrani tombaroli, il cratere compare, negli anni 80, nella collezione del Metropolita di N.Y., tra grandi evoé dei dirigenti del museo. Il professor Pallottino, etruscologo accademico italiano, non ha dubbi sulla provenienza del vaso, pagato un milione di dollari dal museo americano, e promuove una dura protesta, ricorrendo al Nostro, che se ne fa carico, attraverso i canali della diplomazia, sottosezione cultura, dov’Egli è il Vertice.

Romano, tempra di moralista, non rinuncia a moralizzare sull’assurdità del prezzo del cratere: una vera cafonata americana, perché fin là i vasi attici si erano al più pagati centomila dollari. Il nostro polito ambasciatore semplicemente non riesce a connettere che se un Van Gog dubbio vale sessanta milioni di dolari, una coppa attica firmata Eusitteo-Eufronio dovrebbe valerne almeno il doppio: a un milione è regalata, ma il versante economico dell’estetica non è il terreno del Nostro. Invece, fine diplomatico, riesce a quasi intrappettare i messeri del Metropolitan: a difendere la legittimità dell’acquisto hanno fatto la classica voltata dell’imbecille, costruendo delle false prove, facilmente smascherabili. Trovandosi ormai sputtanati, gli americani stanno per capitolare intorno a una accomodamento onorevole, ad evitare un milione di dollari buttati nel wc: la coppa resterà italiana, ma sarà data in prestito agli USA a tempo indeterminato, e però prima il cratere dovrà rientare in Italia; il pensiero sottinteso: poi farla uscire si sarebbe visto. Romano non espone la trappola elegante che sta gabellando ai cafoni oltratlantici, ma chi sa capire, sa leggere. E anche gli americani, che mentre trattano con la sezione culturale del Ministero degli Esteri, trattano anche con la sezione esteri del Ministero dei Beni Culturali, dal quale ottengono una completa legittimazione del loro possesso del cratere.
Come?

Romano di nuovo si fa crittico. Racconta che nella trattativa gli americani non provavano alcun imbarazzo morale ad averci derubati, perché ritenevano il vaso attico molto più sicuro in America che in mano a una nazione di pasticcioni, superficiali, corrotti e fasulli. Gli americani avevano del fatto nozione molto più concreta che Di Pietro ai tempi di mani pulite. E soprattutto in campo belleartistico, dove la svergognata vicenda Berenson: non dalla sponda Berenson, ma da quella italiana, attende ancora il suo biografo. Ne verrebbe fuori la scandalosa storia di come, con la connivenza dei burocrati delle Belle Arti e dei politici nostrani, a navi i capolavori dell’arte italiana abbiano migrato oltre Atlantico, a fare del piccolo critico baltico naturalizzato USA anche un piccolo creso.

Libro di un uomo che ha avuto una passione veramente piccola: la Professione, spazio di autentiche anime morte gogoliane, però nell’occaso del racconto e della sua vita, le Memorie di Romano conoscono due tardive accensioni: nel tratteggiare la fine del comunismo, al quale ha assitito in presa diretta, ambasciatore a Mosca, e davanti collasso della Prima Repubblica sotto i colpi di mani pulite.
Romano è stato uno dei tanti paladini della libertà contro l’Impero del Male. Per questi paladini però la caduta del comunismo è stato soltanto un mezzo tripudio, scorgendo una vittoria di nuovo mutilata: l’impero agnloamericano, non così del tutto da approvare, ma neanche apertamente condannabile: si firebbe a bertinottare o a woitileggiare, e non fa fine.

Caduto il comunismo a Mosca, inevitabilmente anche l’Ambasciatore Romano diventa uno dei tanti nostri post anticomunisti senza la ex finta passione dominanate; e se a colmare il vuoto sentimentale una ne immaginano, e serpeggiare di presagi orripilanti d’anti americanismo. Eppure una alternativa per tutti i nostri Romano orbati dell’Impero del Male, e senza il papesco coraggio dell’antiamericanismo, ci sarebbe stata, ma la loro immaginazione si era forse troppo burocratizzata nell’ovvio del tram tram quotidiano della Professione per scorgere anche loro la possibile grande voltata del nostro Silvio nazio(a)nale: se le chiese campano del diavolo, perché io già anticomunista non dovrei campare sulla diabolizzazione eterna del defunto comunismo?
Questa mancanza d’immaginazione condurrà invece, in un pagina che appena delinea, l’ambasciatore Romano a immaginarsi che non Berlusconi, dal conflitto di interessi impedito, ma lui dovrebber guidare una vera destra conservatrice. Ogni autore di autobiografia, come da assunto, è uomo di grosso ego, ma la storia che ci sta davanti ci dice che però le cose non sono andate secondo le speranze dell’Ego dell’Ambasciatore. E però nella cui pagina, sopra la delusione taciuta germoglia un’altra verità alla vaso attico. Il Nostro insegna in conclusione che mani pulite non è stata una trovata del bolscevismo italiano: questa è propaganda belusconista, bensì il frutto di una serie di concause, effetto della situazione sconcata del paese. E però, quando deve individuare la variabile decisiva nel collasso della prima repubblica, dove l’acuto Ambasciatore la scorge? Ma nella vanità: l’ineffabile piacere di Borrelli di essere al centro della scena.

La vanità è per l’ambasciatore Romano il motore del mondo.
Non meno che ogni specie zoologica, ogni specie sociale riconosce la realtà naturale secondo il proprio meccanismo sensoriale: Carrà (specie sociale pittore) lo riconosce nella passione per il lavoro, Romano (specie sociale diplomatico) nella vanità: uniquique suum. Il problema è: perché una persona colta, che non ha girato il mondo in terza classe, di buona intelligenza, possa naufragare in una categoria universale interpretativa che in tutto e per tutto è un plagio dal buon Dio della vecchia Bibbia (vedi mito di Lucifero)?
Lo si scorge nel valore storico-morale che l’ambasciatore Romano sente per lui fondante: il risorgimento moderato laico. Una fantasia sua mentale, dove si immagina cavourriano e giolittiano, e nella quale prende cautelative distanze dall’eredità risorgimentale non condivisibile: quella di quanti, proprio perché eredi del risorgimento, furono antifascisti. Esemplarmente Elena Croce e il suo circolo, stato antifascista e poi esule nell’Italia cattocomunista, eppure unico spazio sociale nel quale l’ambasciatore Romano avrebbe dovuto riconoscersi, perché anche unico spazio di memoria delle forze sociali e politiche attraverso le quali l’Italia, da espressione geografica divenne espressione geopolitica. Ma per Romano gli eredi delle forze che hanno prodotto la struttura che gli ha garantito un posto nella festa del mondo sono suoi contemporanei faziosi e inquieti, residui intellettuali del defunto partito d’Azione, un cui volto appassionato quello da Amalia Rosselli, l’infelice grande poetessa che l’Italia post cattomarxista non potrà continuare a tenere fuori dalla memoria letteraria. Ma fuori dalla memoria letteraria resteranno invece quelle del Nostro Conservatore, al più testimonianza, tra qualche secolo, di come l’Italia politica risorgimentale fosse ormai, nella seonda metà del XX secolo, tra comunisti e cattolici, in irreversibile dissoluzione, per aver capitolato nella prima metà alla dissennata avventura fassista: della quale invano si cercherebbe condanna nelle memorie dell’Ambasciatore Romano, per il quale invece, si scorge in filigrana, il fassimo fu un soprassalto di buonsenso.
Quanto e come e perché lo sia stato lo si capisce invece dall’autobiografia di Carlo Carrà, anarchico socialista, ribelle e poi uomo d’ordine: proprio come Mussolini, ma con una capitale differenza. Carrà non si identificò mai con il proprio ego soltanto. Di più: lo subordinò a una vera passione: la pittura. Purtroppo Romano, come Mussolini, una vera passione alla quale subordinare il proprio ego non l’ha incontrata, anche perché l’entità che avrebbe dovuto subordinare l’ego dell’Ambasciatore, il Servizio, non aveva più altro oggetto al di fuori della vanità personale mussoliniana dei singoli, come rispecchia il mondo porcopollilittico tra prima e seconda repubblica, e insuperabilmente anche qui ci documenta don Giulio Andreotti con le sue pagine di inutile letteratura sul suo tempo e i personaggi che vide da vicino; scrittura stilisticamente e psicologicamente contigua a quella dell’ambasciatore Romano: di sabbia.

TreAsterischi

CONDIVIDI