Ma non erano meglio Mina e Lucio Battisti?
Storie inutili che vendono

foto_vecchioni_vitaleNon abbiamo nulla contro i cantanti che scrivono racconti. Lo fanno persino i giornalisti. Roberto Vecchioni ne ha già scritti, con fortune alterne. Non è che siamo preoccupati che la letteratura possa subire grandi scossoni dalla pubblicazione del suo ultimo “La vita che si ama. Storie di Felicità” (Einaudi, 2016), ma è innegabile che vi sono molti lettori che vengono coinvolti in queste operazioni di mercato.

E allora occorre riflettere. E leggere il libro per capire cosa c’è dentro e perché lo si legga. Che Vecchioni lo abbia scritto per narcisismo è fuori dubbio; che lo abbia fatto per sostenere il suo nuovo tour musicale, tenuto conto della età non più verde e dello svanire progressivo del successo post vittoria a San Remo, è altrettanto pacifico. Ma che vi sia gente che lo legga, a parte me, questo va capito.

Vecchioni ci racconta pezzi della sua vita, facendo riferimento ai piccoli eventi del suo mondo privato e quasi per nulla alla sua esperienza di cantautore. Vengono in primo piano i ricordi di un uomo normale, uno come tanti, alle prese col suo lavoro, la famiglia, il rapporto coi figli; la sua casa sul lago di Garda, il legame col cane Paco. Insomma, fatti importanti di una vita senza importanza, verrebbe da dire. Ma si vede che è questo che piace e di questo gli hanno suggerito di scrivere i suoi editor. Una storia da nulla, ma che così può piacere a tanti, magari non a tutti.

A me ad esempio, non piace. Ma non fa nulla. Lo stile è caldo e ruffiano, volutamente allusivo e talvolta un po’ ieratico. Ma lui è anche un professore che “non se la tira”, ma che col suo apparente under statement se la tira da matti. Vecchioni cerca di stupire con piccole grandi frasi ad effetto e soprattutto ci vuole dire che non ci dobbiamo preoccupare. La vita è una canzonetta (d’autore, ben inteso) così come la felicità (che il “grande tema” del libro) non è serenità, neppure assenza di dolore e dimenticate gli epicurei ed anche la mistica beatitudine.

Tutte storie intellettualistiche. La felicità “è lì, a portata di mano… a volte visibile come un’apparizione tra un albero e l’altro in un bosco”. Come si può immaginare, è inutile chiedersi cosa sia la felicità, o come fare a raggiungerla. Vecchioni (novello Epicuro) lo scrive da padre ai propri figli nella lettera che, manco a dirlo, apre il libro: la felicità – spiega – non è una questione d’istanti, ma una presenza costante, che corre parallela a noi. Il problema è saperla intravedere, imparando a non farci abbagliare. D’altronde «la felicità non è un angolo acuto della vita o un logaritmo incalcolabile o la quadratura del cerchio: la felicità è la geometria stessa». E ancora: “è nel vivere in sé, non è gioia o euforia, è il dinamismo del tempo”.

Cosa voglia dire non importa. L’importante è non dire nulla di serio. La felicità, tema che ha affaticato fior di scrittori e filosofi, poeti e politici, è qualcosa, per Vecchioni, di semplice e inafferrabile. Quindi fate voi come vi pare. L’importante è la famiglia e la salute. Siamo alla fiera dell’ovvio patinato da sapienza post new age riciclato per i poveri. Ma Vecchioni non lo frega nessuno: la felicità può essere fugace o diventare una condizione stabile. Come diceva Woody Allen “i soldi non fanno la felicità, ma aiutano”. Così il guru Vechioni ci ammonisce che lo spazio della felicità è un “tempo verticale” (aggettivo altamente poetico- filosofico contrapposto a tempo “orizzontale”) inscritto perennemente nel presente perchè “quando vedete una cosa, la vedete per l’ultima volta. Ogni persona che incontrate… è per l’ultima volta”.

Allora ci dobbiamo preoccupare? Ci salva il carpe diem? Chi lo sa; intanto il Vecchioni cantante non può fare a meno di raccontare come gli è venuta l’idea di scrivere “Luci a San Siro”, una delle sue canzoni più famose. Il momento è catartico e la rivelazione una vera epifania del Genio. Faceva il servizio militare e gli vengono in mente “tutte le sere passate in Seicento con te… e mi metto a suonare istintivamente , buttando giù le prime parole che capitano…” Davvero notevole. Soprattutto un esempio da seguire per molti giovani, Seicento a parte.
Infine, manco a dirlo, un pensiero per il padre e la madre, come alla fine di ogni spettacolo. Doveroso, certo, da bravo figlio, ma anche tanto retorico e scontato.

Di una cosa dobbiamo ringraziare Vecchioni: lui che è un professore non ci annoia con citazioni dotte. C’è come un ritegno da parte sua: altrimenti come farebbe a vendere il libro a studenti e fans? La regola è restare lontani da ogni forma di cultura e assecondare la sottocultura dell’autobiografia commerciale di personaggi pubblici la cui vera caratteristica è l’evanescenza. Probabilmente Vecchioni non ha la pretesa di “fare letteratura” scrivendo questo libro, come non è un “poeta” perché scrive canzoni. Ma trovo diseducativo sotto il profilo culturale continuare a sfornare simili prodotti. Wittgenstein ha scritto che “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Vecchioni parla di sé e fa bene, ma sarebbe stato meglio seguire il consiglio del grande filosofo.

Ma s’avvicina l’estate e cosa c’è di meglio che leggiucchiare le gesta familiari e le sagge sentenze di un famoso cantautore che ha pure conosciuto Noam Chomsky, maestro della linguistica moderna, ricordato impunemente nel libro?

Per fortuna il libro è breve (164 pagine) ed ha lo scudo editoriale dell’Einaudi che metterà presto sul mercato della superficialità anche i racconti di Luciano Ligabue. Attenzione, sarà uno scontro di titani. Peccato che Mina e Lucio Battisti non abbiano mai scritto dei romanzi, chissà che chicche!

Alterez
Maggio 2016

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