SULLA POESIA DI MARIELLA CERUTTI MAROCCO

Un poeta, quando è davvero tale, lascia nei suoi versi sempre una traccia per decodificarli, una via per il lettore: Mariella Cerutti Marocco è davvero una grande poetessa, perché quei segni sono di una meravigliosa efficacia. La sua poesia si autodefinisce e il lettore, percorrendo i suoi versi si trova alla fine con un messaggio chiaro e perfetto sulla sostanza e il significato del testo.

L’esergo: perché due citazioni da Baudelaire? Due sono le ipotesi critiche: perché erano altamente significative o perché l’autrice aveva letto solo Baudelaire e probabilmente solo quei due versi nella carta di un bacio perugina. Propenderei senza troppe incertezza per la seconda ipotesi, per rispetto nei confronti dellla poetessa, poiché è meglio citare un bacio perugina che un poeta sommo senza sapere ciò di cui sta parlando. E’ più onesto. E in effetti l’onestà è la migliore qualità di questa poesia: trasparente, limpida, senza tutti gli artifici che secoli di poesia hanno tramandato e insegnato, senza ambiguità, senza lessico (forse si arriva, contando le virgole, a cinquecento parole), senza sensi nascosti, senza sensi evidenti: senza senso. Lo stile è piano, ma talmente piano che rischia di fermarsi e di far venire una sincope a chi legge.

Ma il metalinguaggio della poesia emerge sempre, è la chiave che apre tutte le porte e permette al lettore di capire il perché: basta aprire la prima pagina per trovare quella “conchiglia piccola, intrappolata nella bocca della madre conchiglia” per leggere un’afasia incapace di guarire, una bocca intrappolata, incapace di dire, e poi subito dopo una confessione “non ho più ritrovato la strada di casa”: basta prendere la penna in mano perché la mente si perda e non trovi più la sua casa. E la continua insistita metafora del silenzio, del vuoto, della strada perduta: la confessione palese di un’accertata incapacità immaginativa, di una confusione che non trova un ordine narrativo. E le architetture di questa interiorità in cammino: scale, porte, finestre dietro le quali non c’è mai nulla. Chiarissima metafora metapoetica: dietro le mie parole potete bussare fino a consumarvi le nocche, non troverete niente, nemmeno un palpito.

Onestà per onestà la poetessa confida, forse senza nemmeno accorgersi della potenza della metaletteratura, che il mondo continua a girare benissimo anche senza la sua noiosissima presenza: “Domani / non sarò più qui. La luna / crescerà un poco la prossima notte”. Ed è tale la sua capacità di annullarsi, di fabbricare vapori inconsistenti con le sue parole (emblematico il titolo: “Nuvole di nulla”) che l’autrice riesce a confortare il lettore confidandogli che ogni tanto “si dimentica di vivere” (e forse, bontà sua, di scrivere).

Ma la vera illuminazione giunge dalla sezione “Azzurro il vento”: dal primo verso (“tutti quei bambini in bicicletta / quanto rumore fanno nella mia testa”) appaiono i primi inequivocabili sintomi del disturbo mentale, seguiti dal manifesto di poetica: “cantileni sillabe senza senso / io dormo cullata da te”. E arriva, liberatoria, come in tutta la grande poesia, la chiusa del libro, il messaggio fondamentale, che da sé vale tutto il libro e lo illumina: “il tuo ricordo non mi tormenta più”. Le parole di nulla pesano nulla, valgono nulla e incidono nulla nella nostra anima: per questo non possono tormentarci.

Un libro che vale una riflessione: l’autrice scrive per dirci che non è in grado di scrivere. Un’originalità non da poco. Abbiamo capito e prendiamo atto. Speriamo nella coerenza della poesia: un testo così non può che essere unico e ultimo nella carriera della Marocco.

Artufo (il critico arcistufo)

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