(Torino, Einaudi, 2016)
METTI UNA SERA A CENA

copert_zagrebelsky_controrecImmaginate di essere a cena a casa di amici. La padrona di casa vi accoglie sorridente, gli altri convitati già presenti parlano sottovoce sorseggiando del buon vino bianco. Tutto è al suo posto, compresi i discorsi che, come impone la secolare arte della conversazione, sono inevitabilmente leggeri, superficiali. “Le leggi della conversazione prescrivono in genere di non soffermarsi troppo a lungo su un argomento, ma di passare leggermente, senza sforzo e con naturalezza, da un argomento all’altro, di parlare delle cose frivole come di quelle serie; di ricordarsi che la conversazione è uno svago e non un assalto di scherma o una partita a scacchi” (alla voce “Conversation” dell’Encyclopedie, 1752).

E’ più o meno questo l’orizzonte in cui si muove il libretto “Senza adulti” da poco dato alle stampe da Gustavo Zagrebelsky presso l’editore Einaudi. L’autore conosce bene le regole della conversazione, che appunto deve dire e non dire, accennare senza approfondire. Non si deve mai alzare la voce, mai insistere su un argomento: tutto deve poter fluttuare, senza peso.

Il fatto è che, malgrado si accenni appunto a temi anche molto importanti e coinvolgenti, attuali quanto universali, la sua lettura lascia alla fine quasi un senso di frustrazione per aver sfiorato i massimi sistemi della nostra civiltà, ma senza alcun ulteriore approfondimento.
Va detto che Zagrebelsky ha prodotto ben altri risultati nel corso della sua lunga carriera di studioso e saggista.
Naturalmente lo si potrebbe leggere in quanto testo divulgativo. D’altra parte il nostro autore ha già dato prova di talento in tal senso con alcuni suoi libretti precedenti. Ma qui il libro è caratterizzato da ovvietà non risolte, da frasi (ben) fatte che lasciano in fondo insoddisfatti.

Non abbiamo dubbi sul fatto che “le età della vita non esistono nella natura, ma solo nelle culture”; che “i luoghi comuni modellano i nostri giudizi e, a loro volta, i giudizi modellano le nostre azioni”. E siamo certamente d’accordo sul fatto che “chi guarda l’esistenza da un lato solo e non vuol sapere dell’esistenza di altri lati che egli per il momento non vede, è un individuo fanatico”; e condividiamo l’idea che “ i luoghi comuni sono autoritari. Si esprimono con sentenze”.
Ci aspetteremmo di approfondire ma tutto resta in superficie e ci si limita a sostenere che “giovinezza e vecchiaia” sono due stereotipi e che gli anni dipendono da come si portano o si vivono. I buoni saggi consigli sono sempre ben accetti ed utili, e sicuramente ci fa sentire meglio veder confermata l’idea che l’ignoranza ha una funzione positiva perché “libera energie” e che il problema non è essere vecchi o essere giovani, che tutti possiamo essere curiosi e attivi a tutte le età. Emerge un filo di poetica malinconia quando leggiamo che “i giovani vivono senza la consapevolezza del loro stato. Alla giovinezza si pensa quando non c’è più”. Ma non si va oltre.

Poi, l’autore lamenta che nella nostra società manca un’età di mezzo, la tanto rimpianta “maturità”, tempo in cui “si affronta il presente per quello che è, guardandolo in faccia senza timore”. Certo “la paura d’invecchiare ha fagocitato l’età di mezzo”, ma non è che vi sono ragioni ben più profonde ed articolate di queste “verità” evidenti? L’autore insiste con l’idea, sacrosanta, che l’identità generazionale dipende dalle esperienze. Giusto, ma il contesto del testo è tale per cui tutto suona un po’ come un discorso a braccio. Appunto come essere a tavola a chiacchierare del più e del meno tra persone garbate.

Improvvisamente emerge una critica mirata. Leggiamo che “il luogo dei giovani… è il luogo della competitività, dell’innovazione, dell’efficienza, della velocità”. A chi è rivolta la critica? Al potere? Al governo? Subito, saggiamente, l’autore ci ricorda che è male sia l’iperattivismo che l’ipoattivismo. Insomma, i giovani non devono essere né troppo arrabbiati né troppo rassegnati. Un po’ di garbo e di equilibrio non guasta mai. Non è agitandosi che cambiano le cose.

E ora il gran finale, introdotto da un excursus sull’Isola di Pasqua. Qui ci viene spiegato con opportuna e fascinosa capacità affabulatoria che gli abitanti della suddetta isola furono ritrovati nel 1864 in soli 111 individui, denutriti, geneticamente degradati. Come mai? Perché furono vittime di una “crescita per la crescita”, di uno sviluppo senza limiti che ha cozzato infine contro limiti delle risorse naturali.
E così il cerchio si chiude con un bel discorso (politicamente corretto, ma sostanzialmente generico) contro “lo sfruttamento imprevidente delle risorse, con effetti funesti sulle generazioni a venire”. E’ un monito necessario, lo condividiamo, ma suona un po’ retorico.

Parole sante: “ogni generazione si è comportata come se fosse l’ultima”. Come sante sono quelle che ci ricordano che “all’autoreferenzialità della generazione presente si devono opporre le pretesi vitali di coloro che verranno, che hanno il diritto… di succedere a noi”.

Ma ci viene allora un dubbio. Per chi è davvero scritto questo libro? Per i “vecchi” che hanno irresponsabilmente, ma proficuamente approfittato delle risorse a disposizione o per i “giovani” (la generazione presente) che non hanno oggi risorse, neppure troppe responsabilità e pagano comunque il conto per i “vecchi”? Non lo si capisce. Ma si capisce, infine, che è ora di dire basta con ogni diatriba: “le generazioni successive non hanno diritti da vantare nei confronti di quelle precedenti, ma queste hanno dei doveri nei confronti di quelle…Il Costituzionalismo deve scoprire i doveri” e non si insista più con la storia dei diritti! Il libro apre ad un compito ancora da assolvere.

Il libretto non fa certamente danni, anzi è gradevole e piacevole, si legge d’un fiato, ma ci sembra un’occasione persa e di questi tempi dispiace. Non c’è dubbio che introduca temi importanti ed attuali, ma ci aspettavamo di più.

Ma si è fatto tardi, devo preparare le valige: domani parto in vacanza per l’Isola di Pasqua, mi hanno detto che è un paradiso.

Alterez
Febbraio 2016

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